ANNALES THEOLOGICI
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VICENTE BOSCH
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FACOLTÀ DI TEOLOGIA
PONTIFICIA UNIVERSITÀ
DELLA SANTA CROCE
ANNALES
THEOLOGICI
VOLUME 38
ANNO 2024
FASCICOLO I
EDUSC
IN MEMORIAM PROF. DON ANTONIO
ARANDA
(CÓRDOBA 22.12.1942 – PAMPLONA 2.11.2023)
Lo scorso 2 novembre, dopo una rapida malattia, si è spento il prof.
Antonio Aranda Lomeña, già Decano della nostra Facoltà di Teologia
(1994-1998) e professore emerito di teologia sistematica della Facoltà di
Teologia dell’Università di Navarra. Durante il suo mandato di Decano e
col suo instancabile lavoro, la nostra Facoltà di Teologia raddoppiò la sua
offerta didattica, dando vita ai Dipartimenti di Teologia Spirituale, di cui fu
il primo Direttore, e di Storia della Chiesa, in grado di concedere titoli di
licenza e di dottorato nelle rispettive aree di specializzazione. Nel suo
periodo romano è stato Direttore di Annales Theologici dal 1995 al 1997,
creando nel 1998 il Comitato scientifico, di cui fece parte fino al 2004.
Nell’anno accademico 2008-2009 concluse la sua collaborazione con la
nostra Facoltà, per rientrare presso la Facoltà di Teologia dell’Università di
Navarra.
Anche se proveniva dalla teologia dogmatica era esperto di teologia
trinitaria, cristologia e antropologia teologica –, i suoi interessi si
spostarono negli ultimi decenni verso la teologia spirituale. Più
specificamente, si dedicò alla riflessione teologica sul carisma e sulla
spiritualità di san Josemaría Escrivá de Balaguer, Fondatore dell’Opus Dei,
di cui don Antonio era figlio spirituale, con vivo amore e dedizione alla
propria vocazione. Come frutto di questo suo teologare possiamo
annoverare opere come: «El bullir de la sangre de Cristo». Estudio sobre el
cristocentrismo del beato Josemaría Escrivá, Madrid, Rialp, 2000, 304 pp.,
tradotto in italiano come «Vedo scorrere in voi il sangue di Cristo». Studio
sul cristocentrismo di san Josemaría Escrivá, Edusc, Roma 2003, 263 pp.;
le edizioni critico-storiche dei due volumi di omelie di san Josemaría (Es
Cristo que pasa, Rialp, Madrid 2013, 1033 pp.; Amigos de Dios, Rialp,
Madrid 2019, 955 pp.); El hecho teológico y pastoral del Opus Dei. Una
indagación en las fuentes fundacionales, Pamplona, Eunsa, 2020, 369 pp.
Nella linea di questi studi, poco prima della scorsa estate, don Antonio
aveva proposto ad Annales Theologici l’articolo «Ser Opus Dei para hacer
el Opus Dei», frutto di alcune conferenze che aveva tenuto su questa
espressione impiegata da san Josemaría, adoperando molti testi del
Fondatore ancora inediti o in corso di pubblicazione. Dopo il consueto
processo in Redazione, che prevede il giudizio di due referee, stavamo per
inviare a don Antonio qualche piccolo suggerimento per migliorare il testo,
quando ci è giunta la triste notizia della sua scomparsa. Consapevoli che
don Antonio avrebbe gradito la pubblicazione del suo articolo con questi
miglioramenti, i membri del comitato di redazione della rivista alcuni dei
quali discepoli di don Antonio – insieme a tutta la Facoltà di Teologia, sono
lieti di presentarlo postumo in sua memoria. Mentre ci affidiamo alla sua
protezione dal Cielo, ringraziamo don Antonio per i suoi insegnamenti e per
la sua dedizione alla Facoltà e alla nostra rivista.
STUDI
I MISSIONARI DELLA MISERICORDIA
“Strumento privilegiato” della sollecitudinee dell’attenzione della Chiesa per il perdono
MASSIMO DEL POZZO
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
RIASSUNTO: Il contributo esamina l’attuale
configurazione canonica dei Missionari della
Misericordia. Il compito essenziale dei
Missionari riguarda l’esplicitazione personale
della prossimità e maternità della Chiesa
attraverso il ministero della predicazione e la
celebrazione del sacramento della
riconciliazione. La funzione più propria dei
Missionari della Misericordia concerne la
remissione dei peccati riservati. Il senso del
mandato pontificio (la promozione e la cura
della misericordia nelle comunità cristiane)
supera però l’aspetto potestativo (le speciali
facoltà loro concesse). Anche il supporto del
Dicastero mira a promuovere la qualificazione e
la pastoralità degli operatori. Il meccanismo di
designazione e la modalità di servizio
evidenziano il concorso dell’iniziativa papale
con il corpo episcopale. All’auspicio della
diffusione e distribuzione dei Missionari della
Misericordia si associa quello della promozione
della qualità e attrattiva della prassi
penitenziale.
PAROLE CHIAVE: Missionari della Misericordia,
Dicastero per l’Evangelizzazione, Peccati
riservati, Prossimità e maternità della Chiesa.
ABSTRACT: The contribution examines the
current canonical framework of the Missionaries
of Mercy. The essential task of the Missionaries
concerns the personal expression of the Church’s
closeness and motherhood through the ministry of
preaching and the celebration of the sacrament of
reconciliation. The most proper function of the
Missionaries of Mercy regards the remission of
reserved sins. However, the meaning of the
pontifical mandate (the promotion and care of
mercy in Christian communities) goes beyond the
aspect of powers (the special faculties granted to
them). The support of the Dicastery also aims to
promote the qualification and the pastoral
character of the Missionaries. The mechanism of
designation and the mode of service emphasizes
the harmony of the papal initiative with the
episcopal body. The wish for an even greater
presence and distribution of the Missionaries of
Mercy is combined with that of promoting the
quality and attractiveness of penitential practice.
KEYWORDS: Missionaries of Mercy, Dicastery for
Evangelization, Reserved Sins, Proximity and
Motherhood of the Church.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 13-35
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202401
SOMMARIO: I. Un richiamo rappresentativo ed esemplare nel “tempo della misericordia”. II. L’individuazione e
l’abilitazione dei Missionari della Misericordia. III. La missione specifica. IV. Il supporto istituzionale. V. Una
simbiosi di carisma e ministero. VI. La crescita estensiva e intensiva dei Missionari della Misericordia.
I. UN RICHIAMO RAPPRESENTATIVO ED ESEMPLARENELTEMPO DELLA
MISERICORDIA
La conversione e la riconciliazione costituiscono l’essenza e la meta del
cammino cristiano.1 L’Apostolo delle genti non si è limitato ad annunciare
la salvezza, ne ha sperimentato il percorso e indicato la direzione: «ti mando
per aprire i loro occhi, perc si convertano dalle tenebre alla luce e dal
potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in
mezzo a coloro che sono stati santificati in me».2 La sintesi della missione
apostolica è racchiusa nella manifestazione dell’attualità e concretezza della
chiamata alla giustificazione. Il potere delle chiavi non a caso è collegato
intrinsecamente con la remissione dei peccati.3
La Chiesa peraltro ha approfondito in maniera sempre più consapevole e
motivata la logica del perdono e della misericordia.4 Il suo itinerario storico
non è che una penetrazione nel mistero insondabile della compassione e
indulgenza divina. L’invito alla rappacificazione e all’assoluzione acquista
pertanto un valore costitutivo e paradigmatico dell’evangelizzazione del
mondo contemporaneo, segnato da un profondo allontanamento da Dio e
da un progressivo offuscamento del senso del peccato.5
La sensibilità e l’attenzione nei confronti della misericordia sono state
provvidenzialmente accolte nel magistero recente. La percezione precedente
ha ricevuto un forte impulso da S. Giovanni Paolo II e una sorta di
consacrazione nel pontificato di papa Francesco.6 L’indizione dell’Anno
santo straordinario della Misericordia, con ciò che ne è derivato,
costituiscono un’acquisizione stabile e permanente nel patrimonio
ecclesiale.7 Il richiamo pontificio a entrare in risonanza con la benevolenza e
l’indulgenza celeste costituisce infatti un’illuminazione durevole e ferma
nell’interpretazione del messaggio di salvezza. Nella prospettiva della
celebrazione giubilare il Prefetto del Pontificio Consiglio per la Promozione
della Nuova Evangelizzazione ha suggerito di offrire un segno particolare
della sollecitudine e vicinanza del Sommo Pontefice nell’amministrazione
del perdono sacramentale.8 Il Papa ha accolto e attuato questa speciale
proposta missionaria.9 La felice esperienza e i riscontri positivi dell’impulso
primaziale alla offerta della riconciliazione hanno consigliato la protrazione
dell’iniziativa.10 La radicazione e il costante incremento dei Missionari della
Misericordia ha indotto poi a fissare e strutturare in maniera organica
questo servizio. La preoccupazione del carisma petrino non si è concretata
solo nel ripetuto sostegno e incoraggiamento dei soggetti prescelti ma nella
promozione e organizzazione del mandato rappresentativo.11
Ferme restando la novità della figura e la scarsezza ancora di dati ed
elementi, in questa sede vogliamo cercare di ricostruire la ratio e la
consistenza della funzione nell’orizzonte canonico. Il carattere esemplare e
missionario della figura ovviamente sconsiglia un approccio troppo rigido e
rigoroso al contesto istituzionale, non preclude però un tentativo di
inquadramento e chiarimento canonistico della mansione. Il senso non
congiunturale o occasionale ma strutturale e stabile del mandato apostolico
induce anche a esaminare tutte le potenzialità della misura legislativa. Al di
della specificità delle attribuzioni demandate (infra § III), l’intento del Santo
Padre pare soprattutto quello di favorire e incentivare l’accesso alla riconciliazione.
In questa linea, la qualità e la dedizione dei ministri sacri preposti resta la
miglior forma di apostolato della misericordia.12 La straordinarietà ed
eccezionalità della missione presuppone sempre l’ordinarietà e la capillarità
della cura della pastorale penitenziale.13
II. LINDIVIDUAZIONE E LABILITAZIONE DEI MISSIONARI DELLA MISERICORDIA
L’annuncio dell’istituzione del ministero dei Missionari della Misericordia
contiene gli elementi essenziali della nuova figura: «Saranno sacerdoti a cui
darò l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede
Apostolica, perché sia resa evidente l’ampiezza del loro mandato» (MV 18).
L’invio primaziale in pratica è un segno di vicinanza e sollecitudine nei
confronti di quanti sono alla ricerca del perdono. La forma giuridica
dell’attribuzione è quella della delega di potestà con facoltà speciali,14 non
sono stati però fissati o precisati particolari requisiti per la nomina. La
modalità di conferimento dell’incarico è nota principalmente attraverso le
dichiarazioni fornite dall’ “ideatore” e promotore dell’iniziativa (mons.
Fisichella). Il numero crescente di tali Missionari e la richiesta ai Vescovi di
proporre e presentare candidati evidenzia comunque il vivo interesse
ecclesiale a trovare molti soggetti idonei e disposti.15 Il Papa, in diverse
occasioni,16 ha delineato il modello di un pastore particolarmente solerte,
benevolo e paziente nei confronti dei penitenti. Le notazioni e indicazioni
pontificie sono prevalentemente descrittive ed esortative, permettono ad
ogni modo di ricavare un profilo direttivo della figura.
Per quanto concerne le caratteristiche del Missionario della Misericordia, il
requisito basilare coincide con un presbitero munito di facoltà ministeriali. Ferma
restando la disponibilità e la “dinamicità rappresentativa” connessa al
mandato papale, l’idoneità riguarda sia il clero secolare che quello
regolare.17 L’ideale di «sacerdoti santi, misericordiosi, pronti al perdono»,18
come titolari qualificati della missione primaziale, richiede però connotati e
qualità più specifiche tra le quali si possono sottolineare almeno
l’esperienza, la preparazione e lo zelo apostolico. La pratica e l’abitudine
sedimentata col confessionale costituiscono una garanzia di sensibilità e un
esercizio di effettiva vicinanza umana e cristiana. Un sacerdote novello o
inesperto difficilmente potrebbe aiutare i fedeli che versano in situazioni più
complesse e delicate. La maturità e la saggezza pastorale paiono quindi
condizioni richieste. Nella stessa linea un requisito abilitativo pare l’adeguata
competenza e preparazione. La disciplina ecclesiastica è abbastanza chiara ed
esplicita circa il rigore e la coerenza dottrinale dei confessori.19 La maternità
della Chiesa, espressamente richiamata dal Pontefice,20 si dimostra nella
comprensione e nel garbo, non comporta tuttavia l’edulcorazione della
scienza morale e l’improprio alleggerimento della coscienza. La
secolarizzazione e la scristianizzazione attuali accrescono il dovere
dell’impegno formativo e dello stile comunicativo. L’esemplarità del
compito richiede maestria e ponderazione anche nella trattazione dei casi
più difficili e problematici, la conoscenza e l’approfondimento delle
questioni più spinose e un rapido aggiornamento.21 Un ulteriore aspetto
paradigmatico concerne l’impegno e la determinazione del pastore per la salvezza
delle anime. Parafrasando una nota formulazione codiciale si può evocare una
“provata prudenza e sollecitudine per la misericordia”.22 I Missionari della
Misericordia sono chiamati appunto a distinguersi per lo slancio e la forza
della loro testimonianza della tenerezza paterna di Dio. Se l’eccellenza è
difficilmente misurabile, la dimostrazione di iniziativa e disponibilità è
agevolmente riscontrabile. La valutazione dei presupposti della nomina
ovviamente è rimessa in primis alla discrezionalità dell’Ordinario del luogo
d’incardinazione o di servizio, non è priva comunque di oggettività e
concretezza.23 Occorre aver presente peraltro che il Missionario della
Misericordia non è un “superministro” o un plenipotenziario del perdono
(la specifica abilitazione, come constateremo , può considerarsi abbastanza
ridotta), è, soprattutto, un testimone autorevole e convincente della grazia
della riconciliazione e un umile e onesto artigiano della pacificazione
interiore.24 Ogni circoscrizione ecclesiastica sana e vitale potrebbe
annoverare tanti ministri adeguati a questo ruolo ma ne proporrà solo
alcuni.25
La designazione dei Missionari della Misericordia avviene attraverso un
procedimento di indicazione o presentazione da parte del Vescovo diocesano (o del
soggetto ad esso equiparato) e dall’investitura o nomina del Pontefice.26 Il
meccanismo congiunto è una formula interessante di concorso particolare-
universale. La scelta e l’invio da parte del Papa ovviamente è esclusiva e
determinante (i Missionari della Misericordia sono in senso proprio emissari
del Romano Pontefice). La diffusione e l’inoltro dei Missionari apostolici
però parte o si radica localmente;27 è una manifestazione dell’universalità
condivisa e partecipata impressa dal Vaticano II.28 La selezione e la
proposta locale garantiscono una miglior conoscenza attitudinale e un’equa
distribuzione territoriale.29 La nomina o, piuttosto, il mandato papale
costituisce tuttavia un atto primaziale autonomo e discrezionale. Nell’inizio
giubilare della missione la consegna è avvenuta simbolicamente, almeno per
una parte considerevole dei Missionari, personalmente nel contesto
liturgico.30 La modalità ragionevolmente configurata in via di prassi non
può considerarsi pertanto vincolante.31 L’individuazione e l’invio paiono
legati anche a motivi di ponderazione geografica e conveniente ripartizione
e diffusione del servizio penitenziale. Il criterio della sollicitudo omnium
Ecclesiarum, che guida la ratio dell’ordo, presiede a maggior ragione
quest’opera prettamente missionaria.32
III. LA MISSIONE SPECIFICA
La funzione dei Missionari della Misericordia è stata sommariamente
delineata in Misericordiae vultus e precisata nelle puntualizzazioni dei
successivi incontri o interventi; il loro ruolo non è stato però ancora
compiutamente definito e disciplinato. Anche in questo caso i richiami o le
esplicitazioni pontificie forniscono spunti e indicazioni molto significative e
interessanti.33 La figura nasce d’altronde dal vivo desiderio di favorire
l’incontro con la grazia del perdono e cerca di incarnarne tutte le virtualità.
A prescindere dall’attribuzione più circostanziata relativa ai peccati riservati,
su cui tra poco ci soffermeremo maggiormente, ci pare che si possano
individuare almeno tre ambiti espliciti di competenza.
Il primo compito dei Missionari della Misericordia riguarda l’esplicitazione
personale della prossimità e maternità della Chiesa. Il Pontefice infatti ha voluto
caratterizzare espressamente questo ministero come un “segno”,34
ribadendo poi la priorità di questo mandato: «Prima di tutto desidero
ricordarvi che in questo ministero siete chiamati ad esprimere la maternità
della Chiesa».35 L’incarico ha una funzione eminentemente rappresentativa.
Nel servizio ministeriale d’altronde, prima del fare e dell’operare, c’è sempre
l’essere e il manifestare il mistero della salvezza.36 L’immagine e la
ripresentazione stessa del Buon Pastore sono allora la prima forma di aiuto.
La vicinanza, la tenerezza e la compassione, tante volte evocate da papa
Francesco,37 come espressione dello stile di Dio trovano un riscontro nella
cura e attenzione dei penitenti e dei fedeli più bisognosi. La presenza in
nome del Romano Pontefice rende tangibile tale prossimità, indulgenza e
commiserazione. L’invio da parte del Vicario di Cristo è un’eloquente
testimonianza della vicinanza ecclesiale. Il mandato apostolico si caratterizza
per la dinamicità e la propensione all’incontro (lì dove non riesce ad arrivare
materialmente il Capo giungono le sue mani e il suo cuore). La prima
incombenza della missione sta quindi nell’esemplarità e disponibilità del
manifestare l’invito della misericordia divina.
La funzione più propria e distintiva dei Missionari della Misericordia è legata
alla remissione delle pene ‘latae sententiae’ riservate. Questi sacerdoti non
incontrano limiti o preclusioni autoritative nell’elargizione del perdono
sacramentale.38 Il mandato comporta perciò la pienezza della potestà delle chiavi
nel foro della confessione.39 La singolare facoltà di assoluzione riguarda le
cinque fattispecie riservate alla Sede Apostolica, altrimenti assegnate alla
Penitenziaria Apostolica.40 Le ipotesi riguardano comportamenti molto
gravi che attentano alla comunione ecclesiale, spesso con una spiccata
valenza clericale. Emerge in primo luogo la profanazione delle specie eucaristiche
nell’accezione ampia fornita dalla relativa interpretazione autentica.41 Il
disprezzo formale o la sottrazione sacrilega del Corpo di Cristo non sono
purtroppo ipotesi troppo remote. La violenza fisica contro il Romano Pontefice
intacca il principio visibile di unità e comunione. L’ipotesi sembra
chiaramente molto isolata e circoscritta. La consacrazione episcopale senza
mandato pontificio intacca il nerbo della disciplina ecclesiastica e l’assetto
collegiale. Il delitto riguarda direttamente l’ordine episcopale. Lassoluzione
del complice nel peccato ‘contra sexum’ è invalida e ingiuriosa.42 A fronte
dell’emergenza dell’abusività clericale il caso ha trovato qualche recente
riscontro. Anche la violazione diretta del sigillo sacramentale riguarda la
correttezza ministeriale e offende la dignità del sacramento e la sacralità
della coscienza.43 Le condotte menzionate per integrare gli estremi della
censura richiedono la maggior età, la piena avvertenza, il deliberato
consenso e la violazione esterna della prescrizione imputabile per dolo.44 La
speciale abilitazione implica la consapevolezza e competenza (anche
canonistica) nella trattazione dei casi.45 La presumibile sporadicità e
residualità del ricorso alla remissione riservata, non elimina il richiamo e la
centralità del contesto penitenziale. La diligenza e dedizione nel servizio del
confessionale – ribadiamo – non sono appannaggio esclusivo o preferenziale
dei Missionari della Misericordia, ineriscono alla generosità della cura delle
anime. La straordinarietà del mandato è, anzi, un invito a coltivare
l’ordinarietà del ministero della riconciliazione, il Missionario costituisce
però un “maestro” dell’accoglienza e della tenerezza. Anche a questo
proposito il valore esortativo ed esemplare è dominante.
Un ultimo ambito espressamente richiamato riguarda la predicazione della
misericordia. I Missionari della Misericordia devono essere sapienti banditori
e proclamatori della profondità dell’amore di Dio: « siano anzitutto
predicatori convincenti della misericordia. Si organizzino nelle Diocesi delle
“missioni al popolo”, in modo che questi Missionari siano annunciatori
della gioia del perdono».46 Il ruolo docente e catechetico non pare affatto
secondario e trascurabile nello spirito della missione.47 L’invio al popolo ha
il carattere di una visita protratta e di una catechesi articolata. L’efficacia
dell’azione penitenziale è intimamente legata alla motivazione e
all’educazione della coscienza. Nella pastorale d’altronde Parola e
sacramento sono congiunte e intrecciate. Il kerigma e la freschezza
dell’annuncio di salvezza contribuiscono a suscitare la compunzione e il
desiderio di emenda.48 Il Missionario è quindi un trasmettitore e un
divulgatore della gioia e bellezza del perdono con la vita e l’esempio, col
discorso e la parola e con la pratica sacramentale. L’omelia o specifiche
predicazioni e monizioni paiono occasioni privilegiate per suscitare e
favorire l’ansia di riconciliazione. Anche nell’azione sacra presumibilmente
converrà adottare la seconda modalità del rito (Rito per la riconciliazione di più
penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale).49 Le occasioni penitenziali
speciali e ben preparate favoriscono la risonanza emotiva e spirituale. Un
compito ineludibile del pastore è la presentazione viva e convincente della
misericordia divina.50
IV. IL SUPPORTO ISTITUZIONALE
L’esperienza dei Missionari della Misericordia durante il giubileo ha
consigliato di continuare e sviluppare questo ministero. La strutturalità
dell’istituto permette di evidenziare il valore simbolico dell’invio e la
rilevanza della riconciliazione nel messaggio di salvezza.51 Praedicate
Evangelium ha fornito un’essenziale descrizione e collocazione di questa
forma di apostolato: «L’evangelizzazione si attua in particolare attraverso
l’annuncio della misericordia divina, mediante molteplici modalità ed
espressioni. A tale fine contribuisce in modo peculiare l’azione specifica dei
Missionari della Misericordia, per i quali la Sezione promuove e sostiene la
formazione e offre criteri di azione pastorale» (art. 59 § 2). La previsione
comporta il riconoscimento e l’intento di incentivare la figura. In continuità
con l’origine e lo sviluppo dell’iniziativa, la supervisione e la direzione
curiale è stata affidata alla Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione
nel mondo.52 Il ruolo del Dicastero ci pare riconducibile principalmente al
compito di selezione, formazione e orientamento dei Missionari della
Misericordia.
La disposizione riportata non menziona espressamente la selezione degli
operatori, la modalità di designazione riferita (supra § II) evidenzia tuttavia
l’intervento decisivo del Dicastero nella scelta dei candidati. L’iniziativa e la proposta
da parte dei Vescovi forniscono gli elementi conoscitivi e valutativi per la
nomina papale. Il mandato pontificio è l’univoco atto abilitativo dei
Missionari della Misericordia. Il ruolo di sollecitazione e raccordo
informativo è svolto ad ogni modo dal Dicastero.53 La sottoposizione
dell’elenco al Papa è mediata e motivata dall’Istituzione curiale. Nel
procedimento abilitativo la Sezione di Propaganda Fide, come sopra
accennato, ha un compito selettivo (verifica delle condizioni e qualità dei
soggetti), apprezzativo (esame delle necessità e bisogni contestuali) e
compensativo (considerazione della distribuzione ed equilibrio territo riale).
Il Dicastero raccoglie ed elabora dati circa l’aspetto soggettivo e oggettivo
dell’investitura. Considerando il valore esemplare della figura e l’estrema
delicatezza del compito, lo studio dei curricula e degli estremi delle richieste e
il relativo parere ha un rilievo assai significativo per non offuscare
l’autorevolezza e il prestigio dell’ufficio primaziale. Il numero dei Missionari
della Misericordia tra l’altro è destinato a crescere e a espandersi. Il
riscontro attitudinale e contestuale nel processo abilitativo è quindi la prima
forma di ausilio curiale.54
Una funzione specificamente demandata alla Sezione per le questioni
fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo concerne l’educazione e
qualificazione dei Missionari della Misericordia. La stabilizzazione del compito
evangelizzatore induce a provvedere all’aggiornamento e al
perfezionamento culturale e spirituale dei Missionari. Il presupposto della
buona preparazione, dell’esperienza e dello stile predicativo e celebrativo,
accennato, non esime dalla crescita e dal perfezionamento dottrinale e
operativo. La spinta alla formazione permanente seria e coscienziosa del
clero trova un incentivo nella responsabilità dello specifico ministero.55 Gli
incontri mondiali sono un’occasione privilegiata di istruzione e di scambio.56
Specifici corsi o seminari potrebbero aggiungere un’organicità e
sistematicità all’addestramento dei confessori.57 Anche la preparazione di
sussidi e materiali didattici o il rinvio a testi e contributi affidabili permette
di accrescere la perizia e la competenza. Evitando l’odiosità di esami o
verifiche, la competenza andrebbe comprovata e attualizzata costantemente.
La sfera morale logicamente merita una speciale attenzione e
preoccupazione, anche per la rapida evoluzione della mentalità e dei
costumi sociali.
L’altro ambito di supporto esplicitamente menzionato riguarda la
disposizione dei criteri di azione pastorale. La qualificazione e i principi operativi
tendono a intrecciarsi e sovrapporsi e non ha senso introdurre troppi
distinguo o specificazioni concettuali, l’indicazione normativa tuttavia
evidenzia la portata pratica e pastorale della missione. Al di dell’aspetto
pedagogico e dottrinale, il Dicastero è chiamato a curare anche la bontà
qualitativa ed espressiva del servizio.58 In merito è utile richiamare la
necessità dell’uniformità e armonia regolativa e procedimentale dei
Missionari della Misericordia.59 Il mandato apostolico evidenzia la
derivazione primaziale del ruolo, oltre che della potestà, con l’esplicito
richiamo alla sua funzione di unità e comunione. La coscienza
rappresentativa motiva dunque una esemplare fedeltà e conformazione
attuativa. I testi e gli orientamenti magisteriali forniscono il primo e
ineludibile riferimento.60 L’azione pastorale si estende anche allo stile e ai
contenuti dell’ars praedicandi et celebrandi. La modalità delle visite o missioni al
popolo, ad esempio, può essere esplicitata e regolata e lo statuto del
ministero configurato e precisato.61 Il Dicastero ha perciò un compito di
direzione e orientamento del significato e dello stampo della missione. Il
riscontro e l’esperienza curiale guidano e illuminano la prassi e il costume
degli agenti. Nei criteri operativi ci sembra che l’aspetto giuridico meriti
un’adeguata considerazione.62 La sensibilità e correttezza canonistica infatti
supporta il bonum agere e la coerenza dello svolgimento dell’incarico dei
Missionari della Misericordia.
In linea anche con l’iniziativa e coinvolgimento episcopale nella proposta
e chiamata dei soggetti (supra § II) e con la direttiva decentralizzante
supposta da Praedicate Evangelium63 sarebbe utile magari pensare a forme di
supporto e coordinamento locali, soprattutto dove la presenza dei
Missionari fosse abbastanza considerevole. Demandando sempre al
Dicastero la direzione e le indicazioni generali, istanze diocesane o
sovradiocesane potrebbero almeno favorire scambi e contatti più frequenti
tra i diversi Missionari della Misericordia presenti.64
V. UNA SIMBIOSI DI CARISMA E MINISTERO
Esaminati i principali profili della genesi e della regolamentazione della
figura, è utile esplorare meglio la natura e l’inquadramento del compito dei
Missionari della Misericordia. Il nuovo istituto manifesta infatti una
singolare interazione di carisma e ministero sia a livello personale che
istituzionale.
Come riferito, il mandato apostolico non pare rapportabile solo alla speciale
abilitazione potestativa dei confessori, concerne anche il richiamo e l’autorevolezza dei
Missionari. Esaminare il fenomeno solo in una logica autoritativa è pertanto
riduttivo e sminuente. La prospettiva canonistica non può limitarsi solo al
contenuto della potestà penitenziale, abbraccia l’orizzonte complessivo della
missione nella sua dimensione sociale e obbligatoria.65 Abbiamo già
puntualizzato i contenuti della specifica missione (supra § III), il nucleo della
funzione misericordiosa non risiede tanto nell’ampliamento delle facoltà
ministeriali quanto nell’invio da parte del Papa. La designazione e il
conferimento dell’incarico missionario rappresentano un atto primaziale e
un segno di vicinanza e sollecitudine da parte del Sommo Pontefice. La
maternità della Chiesa si esprime nel sollecitare l’annuncio della remissione
dei peccati e favorire il fruttuoso incontro personale con la grazia del
perdono.66 L’esercizio piuttosto circoscritto e ridotto delle attribuzioni
esclusive non contrasta con l’enfasi della creazione e della nomina, la
proietta piuttosto sul piano della promozione della qualità e attrattiva della
prassi penitenziale.
Lo speciale incarico riunisce armonicamente il profilo ministeriale e quello carismatico.
La complementarietà di carisma e ministero si esprime nella scelta e nel
servizio dei Missionari della Misericordia. Se il presupposto necessario è il
possesso e la pratica delle facoltà ministeriali,67 l’elemento qualificante è l’esperienza
e la sintonia con la misericordia divina.68 La natura del mandato non è quella di
un ufficio ecclesiastico o di una carica ulteriore ma quella di un compito o
onere integrativo, iscritto nella funzione preesistente.69 La “chiamata nella
chiamata” esplicita la ratio del mandato missionario: il prestigio e
l’ascendente del buon confessore trovano un riconoscimento e una
valorizzazione rappresentativa nello spirito comunitario. Il presbitero in tal
modo partecipa direttamente della preoccupazione primaziale e collegiale e
incarna la sollicitudo omnium fidelium et Ecclesiarum.70 La straordinarietà
dell’invio, come riferito, non compromette l’auspicio dell’ordinarietà e
capillarità della cura d’anime affidata al pastore proprio, supporta e stimola
l’attenzione particolare. Il mandato apostolico si rapporta espressamente a
una forma di delega.71 Le attribuzioni si configurano invece come facoltà
abituali.72 La protrazione e stabilizzazione dell’incarico ha superato
l’originaria supposizione della contingenza e scadenza del mandato
giubilare. La tendenziale perpetuità della nomina pare in linea con
l’individuazione e l’impulso del dono a beneficio della collettività.73 La
possibilità della limitazione temporale e della revoca tuttavia sono connesse
alla fonte dell’attribuzione.
L’interazione di carisma e ministero non è presente solo nell’abilitazione
personale ma anche nello svolgimento istituzionale del servizio. L’assunzione
primaziale non annulla infatti il fattivo concorso del corpo episcopale. I
Vescovi diocesani e i soggetti ad essi equiparati intervengono non solo nella
proposta ma anche nell’accoglienza dei Missionari apostolici. Nel
provvedimento istitutivo il Papa menziona espressamente il ruolo dell’ufficio
capitale locale: «Chiedo ai confratelli Vescovi di invitare e di accogliere
questi Missionari, perc siano anzitutto predicatori convincenti della
misericordia. […] Si chieda loro di celebrare il sacramento della
Riconciliazione per il popolo».74 L’iniziativa e la buona ricezione della
missione riconciliatrice è affidata allo zelo apostolico dei Presuli preposti. La
disciplina generale infatti attribuisce un compito di disposizione e vigilanza
agli Ordinari del luogo.75 La missione di misericordia integra e completa ma
non stravolge i principi del sistema penitenziale ecclesiale. La convocazione
e il benvenuto dei Missionari dipendono dalla richiesta stessa dell’episcopato
e sono rimessi al suo prudente giudizio. Il carisma o l’illuminazione petrina
si concilia con il rispetto e il discernimento dei Pastori locali. L’esplicazione
della funzione assolutoria riservata viene a essere condivisa e partecipata in
sede particolare.76 Il suggerimento della nomina e la successiva chiamata dei
Missionari della Misericordia (le due attività quasi sempre sono strettamente
collegate), senza compromettere l’autonoma facoltà dispositiva pontificia,
rappresentano quindi un’occasione e un’opportunità più che un obbligo o
un’esigenza. Nello spirito della comunione la convocazione e disponibilità
da parte dei Vescovi devono ritenersi ovviamente grate e sentite. La
generosità e solidarietà pastorale induce semmai a ovviare alla carenza di
ministri abilitati anche a favore delle zone più disagiate e depresse.
VI. LA CRESCITA ESTENSIVA E INTENSIVA DEI MISSIONARIDELLA MISERICORDIA
Le “missioni al popolo” non costituiscono una novità nella vita della Chiesa,
in un certo senso sono un’esperienza frequente e ripetuta nel cammino
cristiano. A fronte dell’ignoranza e dello sbandamento diffusi, il desiderio di
alimentare il fervore religioso e la pratica sacramentale ha animato in
diverse epoche la spinta apostolica e la preoccupazione di tanti pastori. Basti
pensare, ad esempio, alla funzione storica dei monaci irlandesi nella
diffusione della pratica penitenziale,77 alla profonda influenza degli ordini
mendicanti,78 alla rigenerazione, talora distorta o fraintesa, derivante dalle
crociate e dalle indulgenze,79 alla pratica delle missioni al popolo del
Settecento e dell’Ottocento.80 Il pressante invito a lucrare la misericordia
divina e l’incentivo alla riconciliazione costituiscono quindi una nota
costante nell’impegno ecclesiale.81 La continuità della memoria aiuta a
evitare enfatizzazioni improprie o esaltazioni eccessive, non può ignorare ad
ogni modo la freschezza e originalità dell’impostazione attuale. Se
l’annuncio della misericordia non costituisce un’innovazione nel messaggio
di salvezza, l’insistenza, l’approfondimento e il contegno segnano una
provvidenziale acquisizione. La misericordia è stata posta espressamente al
centro dell’insegnamento e dell’azione del popolo di Dio in maniera chiara,
consapevole e programmatica.82 Se, inoltre, in altri momenti la relativa
evangelizzazione era affidata prevalentemente a iniziative personali o
collettive di carattere carismatico, ora è stata assunta dalla compagine
ecclesiale nel suo complesso e gerarchicamente indirizzata. I Missionari
della Misericordia sono pertanto un emblematico segno di maturità e
sviluppo dell’organismo salvifico.
L’indiscusso “primato della grazia” si esplicita nell’accorato invito
ecclesiale all’indulgenza e alla remissione.83 La riconciliazione sacra mentale
con Dio e con la Chiesa è l’unica via ordinaria per ottenere la seconda
giustificazione e per godere la gioia del Regno.84 L’allontanamento e la
disaffezione dalla Penitenza unite alla presente confusione e allo
sbandamento morale manifestano in maniera pungente il bisogno di trovare
e incontrare il vero volto della misericordia. Il rilancio del sacramento di
guarigione implica allora la comprensione dei disagi e delle ferite profonde
del peccatore. Il generoso ricorso al tribunale della misericordia dipende
anche dall’amorevolezza, dalla “disarmante semplicità” e dalla disponibilità
dei confessori.85 Il passaggio dall’insegnamento e dalla dottrina al costume e
alla prassi è forse l’operazione più delicata e complessa. I Missionari della
Misericordia non sono certo la soluzione della crisi della Penitenza o il
rimedio definitivo alle carenze o insufficienze pastorali contemporanee.86
Nel contesto della società della comunicazione e dei gesti, questi sacerdoti
esprimono tuttavia efficacemente la vicinanza e propensione della Chiesa e
del Papa. La facilitazione concessa e l’autorevole richiamo indicano il
desiderio di raggiungere le periferie esistenziali e di stimolare tutto il popolo
cristiano a recuperare la gioia della dignità filiale.87 L’iniziativa divina della
fede trova in tal modo riscontro e sostegno nella benevola offerta del
perdono.88 Il valore dimostrativo ed esemplare della figura supera perciò
quello effettuale o giurisdizionale.
L’incremento dei Missionari della Misericordia aiuta soprattutto la nuova
evangelizzazione delle società secolarizzate e il dialogo con la cultura
postmoderna occidentale,89 può giovare però anche all’implantatio Evangelii e
al primo annuncio. L’auspicio della crescita numerica dei Missionari si coniuga
con la diffusione e la distribuzione della figura nelle diverse aree. Il positivo
riscontro all’iniziativa papale fa capire che il supporto e l’incentivo è sentito
e condiviso nell’ordo in generale e nel corpo episcopale in particolare.90 Il
costante aumento non sembra ancora coprire in maniera diffusa e
omogenea l’intero orbe cattolico. Per quanto sia stata evidenziata anche la
varietà di ascendenze e provenienze,91 la maggior concentrazione
soprattutto nei raduni e negli incontri è quella europea. La nomina o
l’investitura non può essere concepita come una forma di avanzamento o
una sorta di “premio alla carriera” ecclesiastica, va preservato sempre il
carattere diaconale e missionario legato all’identità della mansione. Con gli
anni, una forma di successione generazionale aiuterebbe a comprendere lo
spirito del mandato evitando di stravolgere il senso del riconoscimento. La
persistenza della capacità e disponibilità agli spostamenti, così come la
formazione e l’aggiornamento richiesti, consigliano di considerare la
fisiologia dell’ipotesi di dismissioni o rinunce. La vita dell’istituto
probabilmente favorirà una maggior regolamentazione statutaria e direttiva.
All’augurio della crescita estensiva si accompagna anche il consolidamento
intensivo o qualitativo dei Missionari della Misericordia. La familiarità con il
mistero della riconciliazione dovrebbe favorire un costante affinamento e
perfezionamento attitudinale e operativo. Abbiamo già considerato l’onere
formativo e orientativo del Dicastero competente (supra § IV), l’interesse e la
responsabilità nell’assicurare la bontà del servizio ministeriale tuttavia sono
in primis personali. Ogni Missionario è direttamente impegnato a diventare
strumento sempre più docile e trasparente della misericordia divina.92
L’esercizio del ministero d’altronde conforma e migliora il pastore: è
performativo ed effusivo. Abbiamo già accennato alla componente umana e
sapienziale che illumina la mente e la coscienza dei penitenti; la
testimonianza esistenziale del buon confessore (gioia, mitezza, umiltà,
affabilità, ecc.) è frutto del suo cammino ascetico e spirituale ed è l’invito più
convincente e persuasivo ad accostarsi alla gioia del perdono. Il riferimento
al plurale (Missionari della Misericordia più che Missionario della
Misericordia) aiuta a comprendere il carattere fungibile e comunitario del
compito, evitando impropri protagonismi ed eccentricità.93 È appena il caso
di ricordare che l’armonia e l’unità dottrinale e disciplinare dell’ordo
garantisce l’ecclesialità e universalità del mandato.94
1 Cfr. Á. GARCÍA-IBÁÑEZ, Conversione e riconciliazione. Trattato storico-teologico sulla penitenza postbattesimale,
Edusc, Roma 2020.
2 At 26,17-18.
3 «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto
questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno
perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20,21-23).
4 Cfr. ad es. V. BERTOLONE, La salus animarum nell’ordinamento giuridico della Chiesa, Città Nuova, Roma
1987, 3-38; P. LEZOHUPSKI, Misericordia, in M. SODI, K. NYKIEL, N. REALI (eds.), Peccato, misericordia,
riconciliazione. Dizionario teologico-pastorale, LEV, Città del Vaticano 2016, 248-264; W. KASPER,
Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo, chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013.
5 «È inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è
strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un
uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora,
smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il
mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che
“il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato”» ( GIOVANNI PAOLO II, Es. Ap. Reconciliatio et
Paenitentia, 2-XII-1984, n. 18, non si riporta la localizzazione cartacea di questo e altri documenti
pontifici agevolmente reperibili nel sito: www.vatican.va).
6 Cfr. ad es. P. D’ORNELLAS, Giovanni Paolo II. Papa della misericordia, Edizioni Messaggero, Padova
2009; A. IVEREIGH, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Mondadori, Milano 2014, spec.
423-445; FRANCESCO, Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Milano
2016.
7 FRANCESCO, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, 11-
IV-2015 [= MV]; IDEM, Lett. Ap. Misericordia et misera, 20-XI-2016 [= MM]; M. RONCALLI, Il tempo
della misericordia. Pellegrini, indulgenze, anni santi dalle origini a papa Francesco, San Paolo, Cinisello Balsamo
2015.
8 La manifestazione dell’origine dell’iniziativa è stata palesata dallo stesso Pontefice: «Ringrazio
Mons. Rino Fisichella per le sue parole e per le informazioni che mi ha fornito riguardo al vostro
impegno missionario. E per la verità, è stato fedele all’ispirazione di Dio, perc questa è
un’invenzione sua; ma è stato lui a darmi questa idea e incoraggiarmi, perché ha visto la necessità che
c’è nella Chiesa della vostra presenza, la vostra disponibilità e la vostra vicinanza per perdonare:
perdonare, senza passare attraverso tanti tramiti» (FRANCESCO, Discorso ai Missionari della Divina
Misericordia, 25-IV-2022 [= Discorso 25-IV-2022]).
9 «Nella Quaresima di questo Anno Santo ho l’intenzione di inviare i Missionari della Misericordia.
Saranno un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di Dio, perché entri in
profondità nella ricchezza di questo mistero così fondamentale per la fede» (MV 18).
10 «Questo ministero straordinario, tuttavia, non si conclude con la chiusura della Porta Santa.
Desidero, infatti, che permanga ancora, fino a nuova disposizione, come segno concreto che la grazia
del Giubileo continua ad essere, nelle varie parti del mondo, viva ed efficace» (MM 9).
11 L’attenzione del Papa si è concretata finora in tre occasioni di incontro (FRANCESCO, Incontro con i
Missionari della Misericordia, 9-II-2016; Discorso ai Missionari della Misericordia, 10-IV-2018; Discorso 25-IV-
2022) e nell’affidamento della cura e supervisione del ministero da parte del Pontificio Consiglio per
la Promozione della Nuova Evangelizzazione prima (cfr. MM 9), e della Sezione per le questioni
fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo del Dicastero per l’Evangelizzazione poi (cfr.
FRANCESCO, Cost. Ap. Praedicate Evangelium, 19-III-2023 [= PE], art. 59 § 2).
12 L’approccio sapienziale cristiano insegna che l’annuncio più efficace e convincente della
misericordia è legato alla testimonianza esistenziale dei pastori: «A me piace ricordare quello che san
Francesco di Assisi diceva ai suoi frati: “Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con
le parole”. Le parole vengono… ma prima la testimonianza: che la gente veda nella nostra vita il
Vangelo, possa leggere il Vangelo» (FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla
catechesi, 27-IX-2013).
13 Cfr. M. DEL POZZO, Il ministero del confessionale tra disponibilità e obbligatorietà della testimonianza della
misericordia divina, «Annales Theologici» 35 (2021) 131-133.
14 Cfr. G.P. MONTINI, La facoltà di delegare, «Quaderni di diritto ecclesiale» 33 (2020) 278-299; J.I.
ARRIETA, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Giuffrè, Milano 1997, 53-54; P. PLATEN, Potestad delegada,
in J. OTADUY, A. VIANA, J. SEDANO (dir. y coord.), Diccionario General de Dercho Canónico, VI, Aranzadi,
Cizur Menor 2012, 308-311.
15 «Il numero dei Missionari della Misericordia nel mondo, da quando sono stati istituiti da Papa
Francesco nel 2016, è in costante aumento. Al momento sono 1.040» (III INCONTRO MONDIALE DEI
MISSIONARI DELLA MISERICORDIA, Il Missionario della Misericordia: segno di accoglienza, 23/25-IV-2022,
Comunicato stampa).
16 Cfr. ad es. FRANCESCO, Messaggio in occasione del 150° anniversario della proclamazione di Sant’Alfonso Maria
de’ Liguori Dottore della Chiesa, 23-III-2021; IDEM, Discorso ai partecipanti al Corso sul foro interno, 12-III-
2021; IDEM, Angelus, 14-II-2021; IDEM, Meditazione nell’Incontro con il clero della Diocesi di Roma, 7-III-
2019; IDEM, Discorso nell’Incontro con i parroci di Roma, 15-II-2018; IDEM, Discorso ai partecipanti al XXVIII
Corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 17-III-2017.
17 Al di dei sacerdoti diocesani, è prevista anche la possibilità della designazione di sacerdoti
religiosi con la presentazione del Superiore della Provincia di appartenenza.
18 Discorso 25-IV-2022.
19 Cfr. can. 978; O. DE BERTOLIS, La fedeltà del confessore al magistero e alle norme (can. 978 § 2), in GRUPPO
ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO (ed.), Il sacramento della penitenza. XXXVI Incontro di studio, Hotel
Planibel, La Thuile (AO), 29 giugno-3 luglio 2009, Glossa, Milano 2010, 123-133; E. MIRAGOLI, Il
confessore giudice e medico: natura della confessione, in IDEM (ed.), Il sacramento della penitenza. Il ministero del
confessore: indicazioni canoniche e pastorali, Áncora, Milano 1999, 25-40.
20 Cfr. MV 18; Discorso 9-II-2016.
21 Cfr. M. DEL POZZO, La disciplina del clero. Virtualità e criticità nella società secolarizzata, Giuffrè Francis
Lefebvre, Milano 2022, 240-253. Il costante adeguamento del confessore richiede disponibilità e
tempo.
22 Cfr. il can. 1435 a proposito dei requisiti del Promotore di giustizia e del Difensore del vincolo («essi
siano […] di provata prudenza e sollecitudine per la giustizia»).
23 «Ogni Missionario dovrà avere una lettera di presentazione del proprio Ordinario Diocesano o del
Superiore della Provincia di appartenenza in cui si attesta l’idoneità per svolgere questo minister
(Lettera del Vescovo, in http://www.im.va/content/gdm/it/partecipa/missionari.html). Il curriculum
inviato dovrebbe fornire anche dati ed elementi che attestino la specifica attitudine.
24 L’espressione riecheggia la formula o indicazione “artigiano della pace”, più volte riproposta dal
Papa, che sottolinea la laboriosità e la pazienza richiesta nell’opera di pacificazione (cfr. ad es.
FRANCESCO, Discorso ai partecipanti all’Assemblea dell’Unione dei Superiori Generali [U.S.G.], 26-IX-2022;
IDEM, Discorso al pellegrinaggio di giovani dal Belgio, 10-X-2022; IDEM, Messaggi per la celebrazione della
Giornata Mondiale della Pace 2019-2023.
25 È indicativo l’avviso del Pontificio Consiglio nel sito del Giubileo: «Essendo già stato
abbondantemente superato il numero atteso di Missionari della Misericordia i quali dovranno
raggiungere Roma il prossimo Mercoledì delle ceneri al fine di ricevere lo speciale mandato del Santo
Padre per la loro missione di predicazione e confessioni – dal 25 novembre 2015 è chiusa la possibilità
di presentare ulteriori candidature per tale servizio» (Le candidature a Missionario della Misericordia sono
chiuse, in http://www.im.va/content/gdm/it/partecipa/missionari.html).
26 Per il clero religioso riteniamo che l’indicazione dell’Ordinario del luogo richieda sempre il
consenso del rispettivo Superiore (cfr. supra nt. 17).
27 Il procedimento si conforma alla Corresponsabilità nella ‘communio’ configurata da PE (II. Principi e criteri
per il servizio della Curia romana, n. 2) e alle relative forme di collaborazione (art. 36 § 1).
28 La formula «universalitas participata et pluralis Ecclesiae» è contenuta in FRANCESCO, M.P.
Competentias quasdam decernere, 11-II-2022.
29 Il suggerimento o la proposta, benché non sia connessa ad un ufficio ecclesiastico, integra una
presentazione canonica; cfr. anche J. MIÑAMBRES, La presentazione canonica. Collaborazione nella provvista
degli uffici ecclesiastici, Giuffrè, Milano 2000; IDEM, Presentación (derecho de), in Diccionario General de Dercho
Canónico, VI, 419-423.
30 Santa Messa, benedizione e imposizione delle Ceneri, invio dei Missionari della Misericordia, 10-II-2016. La
concelebrazione eucaristica manifesta l’unità del ministero apostolico e lo stretto collegamento del
mandato penitenziale con la fonte eucaristica.
31 Il Papa può designare liberamente altri sacerdoti (al di fuori delle indicazioni o liste proposte),
denegare o limitare le richieste episcopali e consultare altri soggetti.
32 Per quanto sia conveniente conservare una certa omogeneità e corrispondenza culturale, i
Missionari della Misericordia ben si possono prestare ad aiutare o supportare zone disagiate o carenti
di clero.
33 L’esercizio del magistero pontificio può avere pure un valore giuridico (soprattutto ermeneutico);
cfr. anche J. LLOBELL, Sulla valenza giuridica dei Discorsi del Romano Pontefice al Tribunale Apostolico della Rota
Romana, «L’Osservatore Romano» 6-XI-2005 7-8.
34 «Saranno un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di Dio, percentri in
profondità nella ricchezza di questo mistero così fondamentale per la fede» (MV 18).
35 Discorso 9-II-2016; cfr. anche Discorso 25-IV-2022. La presenza e la disponibilità rilevano ancor
prima dell’esercizio del perdono.
36 «La gerarchia di ordine comporta due funzioni: 1°) quella propria della potestà di ordine; 2°) quella
di rappresentare Cristo capo. Comprende perciò, atti di potestà e atti di rappresentanza. Ogni
qualvolta si agisca con potestà si agisce rappresentando Cristo, ma non viceversa; […]» (J. HERVADA,
Diritto costituzionale canonico, Giuffrè, Milano 1989, 239-240).
37 Cfr. ad es. FRANCESCO, Discorso ai membri dell’Associazione Italiana Fondazioni ed Enti Filantropici
(ASSIFERO), 26-I-2023; IDEM, Udienza generale, 28-XII-2022; IDEM, Discorso alla comunità dell’Istituto di
Teologia della Vita Consacrata “Claretianum” , 7-XI-2022; IDEM, Udienza generale, 29-IX-2021; IDEM,
Angelus, 14-II-2021.
38 Devono attenersi ovviamente alle condizioni stabilite per l’assoluzione; cfr. M. DEL POZZO, El posible
aplazamiento de la absolución en el sacramento de la Penitencia; Il possibile differimento dell’assoluzione nel sacramento
della Penitenza, «Ius Canonicum» 61 (2021) 551-593; IDEM, Giustizia e indisposizione nel differimento
dell’assoluzione sacramentale, «Diritto e Religioni» 17 (2022) 23-65.
39 Per quanto non sia stato esplicitato si deve ragionevolmente ritenere che i Missionari della
Misericordia, oltre alla remissione riservata alla Sede Apostolica abbiano anche le facoltà
normalmente concesse ai Penitenzieri diocesani (relative alla violenza fisica contro un vescovo,
all’attentata celebrazione eucaristica o penitenziale, alla falsa denuncia di sollecitazione, all’attentato
matrimonio di un chierico o di un religioso, cfr. cann. 1370 § 2, 1379 § 1, 1390 § 1, 1394 §§ 1-2).
40 Cfr. cann. 1370, 1379 § 3, 1384, 1386 § 1, 1387; per le attribuzioni della Penitenzieria: art. 191 PE;
A. SARACO, Penitenzieria Apostolica, in Peccato, misericordia, riconciliazione. Dizionario teologico-pastorale, 333-
335; C. ENCINA COMMENTZ, Quando e come ricorrere alla Penitenzieria apostolica, LEV, Città del Vaticano
2015.
41 Cfr. can. 1382 § 1; art. 3 § 1, Normae de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis (7-XII-2021)
[= Normae CDF]; PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Resp. can. 1367 CIC, 3-VII-1999,
AAS 91 (1999) 918.
42 Cfr. anche J.A. GARCÍA RAMÍREZ, Absolución del cómplice en pecado contra el sexto mandamiento, «Forum
Canonicum» 15 (2020) 105-131; J. BERNAL PASCUAL, Delicta graviora, «Ius Canonicum» 58 (2018) 362-
363.
43 Cfr. anche art. 4 § 1, Normae CDF; G. TETI, Il sigillo sacramentale. Nascita ed evoluzione della tutela
canonica penale e confronto con l’ordinamento giuridico italiano, Pontificia Università Lateranense, Roma 2009.
44 Cfr. V. DE PAOLIS, D. CITO, Le sanzioni nella Chiesa. Commento al Codice di diritto canonico, libro VI,
Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, 137-196. Nella tradizione orientale non
esistono pene riservate ma solo peccati riservati: «CCEO: nel CCEO non esistono pene latae
sententiae» (P. GEFAELL, Ann. c. 1314, in J.I. ARRIETA [ed. it. diretta da], Codice di diritto canonico e leggi
complementari commentato, Coletti a San Pietro, Roma 2013, 878).
45 È importante percepire la distinzione tra il delitto e il peccato e tra la pena canonica e la penitenza;
cfr. M. DEL POZZO, Il rapporto tra delitto e peccato nell’attualità del diritto canonico, «Ius Canonicum» 53
(2013) 199-223; P. ERDÖ, Il peccato e il delitto. La relazione tra due concetti fondamentali alla luce del diritto
canonico, Giuffrè, Milano 2014.
46 MV 18.
47 La configurazione istituzionale non a caso evidenzia il ruolo del Dicastero per l’Evangelizzazione
(art. 59 § 2 PE).
48 È emblematico il racconto del giorno di Pentecoste: «All’udire queste cose si sentirono trafiggere il
cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro:
“Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri
peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,37-38).
49 RITUALE ROMANO, Rito della Penitenza, ed. CEI, LEV, Città del Vaticano 1984, nn. 48-59.
50 L’agostiniana intitolazione di Misericordia et misera ben esprime il ruolo che è chiamato a svolgere il
sacerdote.
51 «Ho voluto mettervi lì, nella Costituzione apostolica, perché voi siete uno strumento privilegiato
nella Chiesa, oggi, e non siete un movimento che oggi c’è e domani non c’è, no, siete nella struttura
della Chiesa» (Discorso 25-IV-2022).
52 Cfr. S.F. AUMENTA, R. INTERLANDI, La Curia romana secondo Praedicate Evangelium. Tra storia e
riforma, Edusc, Roma 2023, 104-108.
53 Cfr. ad es. le informazioni contenute in
http://www.im.va/content/gdm/it/partecipa/missionari.html.
54 La sollecitazione e lo stimolo alla presentazione di idonei candidati viene promossa dalla Sezione
del Dicastero.
55 Cfr. DEL POZZO, La disciplina del clero, 242-246.
56 In un ambito tanto sensibile e coinvolgente, al di dell’aspetto informativo e didattico, emerge
anche l’importanza del dialogo e del confronto tra confratelli nel ministero.
57 Si pensi ad es. a una variante o perfezionamento rispetto ai corsi annualmente organizzati della
Penitenzieria Apostolica e destinati a sacerdoti giovani.
58 Può essere molto importante la cura degli aspetti liturgici, umani, relazionali, psicologici, ecc. della
celebrazione sacramentale, cfr. anche J. REGO (a cura di), Celebrare la misericordia di Dio. Contributi per una
mistagogia del sacramento del perdono, Edusc, Roma 2016, spec. contributi di J.L. Gutiérrez, Á. García
Ibañez, A. Miralles, J. Rego, 9-92.
59 Il problema attuale della confusione e del disorientamento nei criteri di giudizio e negli
atteggiamenti dei confessori nuoce seriamente alla pratica sacramentale e alla pedagogia del perdono.
60 Cfr. ad es. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Responsum ad un dubium circa la
benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso, 22-II-2021, con Articolo di commento del Responsum ad
dubium; IDEM, Lett. Samaritanus bonus, 14-VII-2020; IDEM, Istr. Dignitas Personae, 8-IX-2008; IDEM,
Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 3-VI-2003; IDEM, Istr.
Donum vitae, 22-II-1987; IDEM, Dich. Iura et bona, 5-V-1980; PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA,
Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale, 12-II-1997.
61 Si può supporre che col tempo e la maturazione di una congrua esperienza si possa giungere anche
alla redazione di un apposito Direttorio.
62 Diritto e pastorale sono intimamente congiunte: «Possiamo chiederci: in che senso un corso di
diritto è collegato con l’evangelizzazione? Siamo abituati a pensare che il diritto canonico e la
missione di diffondere la Buona Notizia di Cristo siano due realtà separate. Invece è decisivo scoprire
il nesso che le unisce all’interno dell’unica missione della Chiesa. Si potrebbe dire schematicamente:
diritto senza evangelizzazione, evangelizzazione senza diritto. Infatti, il nucleo del diritto
canonico riguarda i beni della comunione, anzitutto la Parola di Dio e i Sacramenti. Ogni persona e
ogni comunità ha diritto ha diritto all’incontro con Cristo, e tutte le norme e gli atti giuridici
tendono a favorire l’autenticità e la fecondità di questo diritto, cioè di tale incontro. Perciò la legge
suprema è la salvezza delle anime, come afferma l’ultimo canone del Codice di Diritto Canonico (cfr.
can. 1752). Pertanto il diritto ecclesiale appare intimamente legato alla vita della Chiesa, come un suo
aspetto necessario, quello della giustizia nel conservare e trasmettere i beni salvifici» ( FRANCESCO,
Discorso ai partecipanti al Corso di formazione per gli operatori del diritto promosso dal Tribunale della Rota Romana,
18-II-2023). Considerata l’estrazione e provenienza dei confessori (prevalentemente dai pastori con
cura d’anime), la preparazione e cognizione canonistica non è per nulla scontata.
63 Cfr. Corresponsabilità nella communio (PE II, Principi e criteri per il servizio della Curia romana, n. 2).
64 Nella formazione e motivazione dei Missionari della Misericordia appare molto proficua la
comunicazione e la condivisione di esperienze e problematiche, soprattutto in aree pastoralmente
omogenee, anche per orientare il supporto e lo studio del Dicastero nella prospettiva sinodale di una
Chiesa attenta all’ascolto.
65 Cfr. C.J. ERRÁZURIZ, Il diritto come bene giuridico. Un’introduzione alla filosofia del diritto (con la
collaborazione di P. Popović), Edusc, Roma 2021, 107-111.
66 È interessante notare come nel Simbolo apostolico la fede della Chiesa ponga in stretta sequenza la
comunione dei santi e la remissione dei peccati, cfr. anche Catechismus Catholicae Ecclesiae [= CCE],
Artt. 9 § 5 e 10, nn. 946-962, 976-987.
67 Cfr. F. WALKER VICUÑA, La facultad para confesar, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004, 63-
110.
68 Cfr. ad es., oltre a Misericordia et misera, nn. 3, 9 e 11, FRANCESCO, Udienza generale, 18-III-2020; IDEM,
Omelia, 11-IV-2021 («Gesù li rialza con la misericordia li rialza con la misericordia e loro,
misericordiati, diventano misericordiosi. È molto difficile essere misericordioso se uno non si accorge di
essere misericordiato»).
69 Circa il concetto di ufficio cfr. ARRIETA, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, 137-168; A. VIANA,
“Officium” según el derecho canónico, Eunsa, Pamplona 2020; A. VITALE, L’ufficio ecclesiastico, Jovene,
Napoli 1965.
70 L’universalizzazione della carità è un orientamento caratteristico e intrinseco del popolo di Dio. Per
la radice storica cfr. anche G. D’ERCOLE, Communio, collegialità, primato e sollicitudo omnium Ecclesiarum.
Dai Vangeli a Costantino, Herder, Roma 1964, 326-406.
71 Cfr. supra nt. 14, nonché J. BEYER, De potestate ordinaria et delegata animadversiones, «Periodica» 53 (1964)
482-502; F. URRUTIA, Delegation of the executive power of governance, «Studia Canonica» 19 (1985) 339-355;
A. VIANA, Comentario cann. 131-132, in Á. MARZOA, J. MIRAS, R. RODRÍGUEZ-OCAÑA (coord. y dir.),
Comentario exegético al Codigo de Dercho Canónico, I, Eunsa, Pamplona 2002, 848-858.
72 Cfr. J. GONZÁLEZ-AYESTA, La specificità delle “facoltà abituali” all’interno della delega (Can. 132 CIC ’83),
«Ius Ecclesiae» 12 (2000) 187-208; IDEM, Facultades habituales, in Diccionario General de Dercho Canónico,
III, 901-907.
73 L’esercizio del ministero ovviamente condiziona intrinsecamente l’abilitazione missionaria.
74 MV 18.
75 Cfr. can. 974; WALKER VICUÑA, La facultad para confesar, 89-90; M. GÓRKA, Natura della “facultas ad
confessiones excipiendas”, Pontificia Università Lateranense, Roma 1992, 134-137.
76 Nella riserva pontificia di remissione c’è un fattore ineliminabile di centralizzazione.
77 Cfr. GARCÍA-IBÁÑEZ, Conversione e riconciliazione, 168-180.
78 Cfr. C.H. LAWRENCE, I mendicanti. I nuovi ordini religiosi nella società medievale, San Paolo, Cinisello
Balsamo 1998; C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, il Mulino, Bologna
2011, 138-140.
79 Cfr. T.F. MADDEN, Le crociate. Una storia nuova, Lindau, Torino 2005, 305-319; J. RILEY-SMITH, Storia
delle crociate. Dalla predicazione di papa Urbano II alla caduta di Costantinopoli, trad. it. di M. Bianchi,
Arnoldo Mondadori, Milano 2017.
80 Cfr. T. REY-MERMET, Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de Liguori, 1696-1787, Città Nuova, Roma
1983, spec. 323-618; F. MURA, Il Missionario istruito, I-II, «Revue d’ascétique et de mystique» 25 (1949)
275-285, 457-464; P. SEGNERI (1624-1694), Opere scelte del padre Paolo Segneri della Compagnia di Gesù, A.
Bonfatti, Milano 1843.
81 Cfr. per un inquadramento dello sviluppo e dell’incremento della Penitenza, tra i tanti, GARCÍA-
IBÁÑEZ, Conversione e riconciliazione, 103-454; PH. ROUILLARD, Storia della penitenza dalle origini ai nostri
giorni, Queriniana, Brescia 1999; E. MAZZA, La liturgia della penitenza nella storia. Le grandi tappe, EDB,
Bologna 2013; C. VOGEL, Il peccatore e la penitenza nella Chiesa antica, Elledici, Torino 1967; IDEM, Il
peccatore e la penitenza nel medioevo, Elledici, Torino 1988.
82 «Ricordo che questo tema è stato scelto fin dal primo Angelus che ho dovuto dire come Papa: la
misericordia. E questo è rimasto molto impresso in me, come un messaggio che come Papa io avrei
dovuto dare sempre, un messaggio che dev’essere di tutti i giorni: la misericordia» (FRANCESCO,
Udienza generale, 18-III-2020).
83 «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi
supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). La Chiesa tra l’altro
riporta questo brano all’inizio del cammino quaresimale (cfr. LEZIONARIO PER I TEMPI FORTI, Mercoledì
delle Ceneri).
84 Cfr. CCE 1470, can. 960.
85 L’atteggiamento non accusatorio e inquisitorio del giudice è una notevole facilitazione nell’apertura
della coscienza. Cfr. anche can. 979.
86 «Il forte pericolo della scarsa attuazione del disposto del can. 986 § 1 e di una sorta di desuetudine
della comunicazione pubblica degli orari di confessione evidenzia che la supposta “crisi della
penitenza” è, forse, piuttosto una “crisi della fede” e del costume clericale» (DEL POZZO, Il ministero del
confessionale, 131).
87 Cfr. Discorso 9-II-2016.
88 Una peculiarità o specificità del cristianesimo è l’iniziativa di Dio nel cammino di fede; cfr. CCE
50-73 (cap. II: Dio viene incontro all’uomo). Anche nella conversione e nella guarigione, in un certo senso,
la proposta di Dio precede l’azione umana.
89 Lo spirito con cui nasceva l’originario Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova
Evangelizzazione era quello di favorire un ristabilimento della concezione e della pratica religiosa in
contesti secolarizzati: «Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il
fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che
da secoli apparivano impregnate dal Vangelo» ( BENEDETTO XVI, M.P. Ubicumque et semper, 21-IX-
2010, Proemio).
90 Cfr. supra nt. 15.
91 «Mi piace in modo particolare ricordare quelli che provengono da Paesi lontani e di particolare
significato: Birmania, Libano, Cina, Corea del Sud, Tanzania, Emirati Arabi, Israele, Burundi,
Vietnam, Zimbabwe, Lettonia, Timor Est, Indonesia, Thailandia, Egitto… Ci saranno, inoltre,
sacerdoti di rito orientale» (R. FISICHELLA, Ecco chi sono i missionari della misericordia, intervista di I.
Solaini, «Avvenire» 29-I-2016).
92 La docilità evidenzia il carattere pneumatologico del mandato.
93 In generale, la modestia, la discrezione e la semplicità del pastore assicurano meglio la
rappresentanza cristologica, ogni forma di ricercatezza, personalismo e originalità ingenerano invece
riserve e perplessità circa la correttezza dell’operato.
94 Cfr. M. DEL POZZO, Il recupero del concetto di ordo come garanzia della disciplina del clero, in L. BIANCHI, G.
EISERING, B. EJEH, A. STABELLINI (a cura di), Fides et jus. Scritti in onore di Arturo Cattaneo, Cantagalli,
Siena 2023, 547-564.
LA FEDE COME RISPOSTA AL PROBLEMA
DEL MALE SECONDO F. DOSTOEVSKIJ
BOHDAN BYCHKO
Pontificia Università Lateranense, Roma
RIASSUNTO: Il lavoro intende verificare la
prospettiva dialettica di Dostoevskij: il rapporto
tra il bene e il male, tra la libertà e le forze
distruttive. Si esaminano i temi teologici delle
opere di F. Dostoevskij. Si prova a trovare nelle
opere dello scrittore la risposta alla domanda:
Perc la sofferenza, il dolore e il maligno sono
presenti nel mondo? Si riflette sulla figura
messianica creata dallo scrittore il principe
Myškin. In particolare si analizza il tema che
trova frequentemente, in molti autori, un
riferimento a Dostoevskij: la bellezza.
PAROLE CHIAVE: Sofferenza, Male, Libertà, Fede,
Idea messianica, Salvezza, Bellezza, Dostoevskij.
ABSTRACT: The study intends to verify
Dostoevsky’s dialectical perspective: the
relationship between good and evil, between
freedom and destructive forces. The theological
themes of F. Dostoevsky’s works are examined.
One tries to find in the writer’s works the answer
to the question: Why is suffering, pain and evil
present in the world? It reflects on the messianic
figure created by the writer Prince Myškin. In
particular, the theme that frequently finds
reference to Dostoevsky in many authors is
analysed: beauty.
KEYWORDS: Suffering, Evil, Freedom, Faith,
Messianic Idea, Salvation, Beauty, Dostoevsky.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 37-87
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202402
SOMMARIO: I. Introduzione. II. La presenza della sofferenza e del male nel mondo secondo Dostoevskij. 1. La
libertà. 2. La coscienza. 3. L’omnicolpevolezza. 4. Il ruolo della sofferenza nella vita umana. 5. Valore
positivo del male. III. L’idiota come figura messianica. 1. L’idea messianica nel pensiero teologico. 2.
Myškin come natura pienamente bella e immagine di Cristo. IV. La fede in Gesù Cristo come risposta al
problema del male e della sofferenza. 1. Ateismo e nichilismo fanno parte del cammino della fede. 2.
L’amore che fa parte del cammino della fede. 3. Divinizzazione attraverso la kenosis. 4.
Riconciliazione con la Madre Terra. 5. La bellezza salverà il mondo. 6. La concezione della bellezza
come mezzo per la salvezza in Dostoevskij. V. Conclusione.
I. INTRODUZIONE
Ovviamente la letteratura non ha pretese di occupare il posto della teologia
e non osa analizzare temi esclusivamente teologici e molto specifici; ma, in
letteratura, facilmente riscontreremo tutta la ricchezza degli argomenti
teologici, che si riferiscono soprattutto alla relazione dell’uomo con Dio.
Possiamo dire in generale che la connessione tra queste due realtà stia nel
fatto che la letteratura rimane sempre l’espressione di un’esperienza vissuta.
Allo stesso modo tra le questioni di carattere teologico da riscoprire nella
letteratura ci sono: l’amore, la libertà, la provvidenza, la grazia, la
dannazione... e, soprattutto, il tema del bene e del male. Tale esperienza
concerne anche la delicata sfera della fede, nel modo a caratteristico,
quale locus theologicus.1
L’obiettivo di questo studio è comprendere e sistematizzare la visione
teologica che offre Dostoevskij alla giustificazione dell’esistenza del dolore,
della sofferenza e del male del mondo, alla situazione tragica dell’uomo,
contraddistinta dalla polarità della natura umana vista nell’ottica dei suoi
romanzi. Si mette in evidenza come lo scrittore si trovi in piena sintonia con
l’insegnamento della Chiesa, che afferma: «Nella tradizione cristiana la fede
è l’unica via attraverso cui l’uomo può avere una relazione salvifica con Dio.
Ciò significa che la fede è la risposta adeguata dell’uomo all’invito divino,
cioè, la rivelazione» (CCC 1102).
L’indagine svolta in questo lavoro cerca di dimostrare il concetto
messianico dello scrittore, tramite il protagonista dell’Idiota il principe
Myškin. Infine, si mette in evidenza che Cristo è l’unica liberazione
dell’uomo attraverso la fede e la bellezza. Si evince come l’uomo possa
recuperare la pienezza del suo essere umano e il senso dell’esistenza nella
persona di Gesù Cristo attraverso la fede e la bellezza, la sola che può
trasformare il mondo intero. In questo modo si intende evidenziare il volto
antinomico della bellezza e, nello stesso tempo, affermare che la pienezza
della bellezza risiede nel Verbo Incarnato.
II. LA PRESENZA DELLA SOFFERENZA E DEL MALE NEL MONDOSECONDO
DOSTOEVSKIJ
Un importantissimo aspetto della teologia di Dostoevskij consiste nella
teodicea. Non si possono chiudere gli occhi, come se il problema del male non
avesse alcun influsso sulla comprensione e sulla trasmissione delle verità di
fede. Invece è più che evidente che la teologia di oggi e di domani, per
essere credibile ed efficace nel suo servizio alla Chiesa e all’annuncio del
Vangelo, debba imparare a parlare di Dio in un modo sensibile alla teodicea.2
Vedremo a seguire come Dostoevskij sia un sorprendente conoscitore dello
spirito umano e come dimostri l’importanza della teodicea nella vita e nel
pensiero umano.
1. La libertà
Il problema della libertà per Dostoevskij è la chiave per comprendere la
situazione tragica dell’uomo. Proprio nella libertà esiste continuamente la
possibilità che il bene, nel confronto con il male, sia sconfitto; ciò introduce
ontologicamente la disintegrazione dell’essere umano, la frantumazione, la
lacerazione o come dice Dostoevskij, lo sdoppiamento della sua struttura
spirituale, psichica e fisica. La libertà rappresenta la dignità dell’uomo, ma
al contempo appare come estremamente pericolosa, a causa della sua
illimitatezza: la libertà è ambigua.3 Per lo scrittore russo la libertà si trova in
ognuno di noi e in qualunque cultura. Dostoevskij si interessa alla libertà
perché, la libertà, è il luogo in cui l’uomo (miracolo divino) è uomo: essa
«sta più a cuore di qualsiasi altro interesse».4
Dostoevskij era un artista e in quanto tale le sue proposte e idee sono
sempre state animate dal genio creativo, di cui si serve per presentare i suoi
personaggi, facendo vivere loro certe situazioni, certi avvenimenti, certe
circostanze; è di qui che possiamo trovare la risposta alla domanda: che
cos’è la libertà per Dostoevskij? È necessario prestare attenzione al metodo
letterario da lui utilizzato: il simbolismo realistico, o meglio simbolismo
iconografico. I personaggi, i loro stati d’animo e le situazioni nelle quali si
trovano sono sempre funzionali nel trasmettere un’idea o una verità.5
a) Lalibertàcomegioco
Per Dostoevskij, nell’esistenza umana, la libertà si esprime innanzitutto
attraverso il gioco: nel cuore dell’uomo vibra una tensione, per cui se vuoi
essere libero, devi sfidare te stesso. Dostoevskij così descrive lo stato d’animo
dell’eroe nel romanzo Il Giocatore: «A un tratto ho provato dentro di me una
strana sensazione, la voglia di sfidare la sorte, di darle uno schiaffo, o di
mostrarle la lingua».6 Il desiderio della libertà che anima il cuore umano
porta al desiderio di prendersi gioco del destino. Di regola, l’uomo non può
sottomettersi all’esistenza: «In un attimo mi sono reso conto con terrore
cosa significava per me perdere: insieme a quell’oro io puntavo la mia vita».7
La libertà umana così come la concepisce Dostoevskij, porta innanzitutto a
mettersi in gioco.
b)Lalibertàcomeindipendenza
La seconda figura della libertà è rappresentata da Arcadio ne L’Adolescente,
uno dei romanzi maggiori di Dostoevskij. L’adolescente persegue la sua
grande idea dalla quale dovrebbe scaturire la vita vera. Il suo ideale è essere
un Rothschild. Il protagonista cerca instancabilmente opportunità per
guadagnare denaro, per affermare la propria autonomia e superiorità sugli
altri:
La mia idea consiste in questo: mi si lasci in pace. Finché avrò due rubli in tasca non dipenderò
da nessuno, e non voglio fare nulla, nemmeno per quella eletta umanità futura per la quale
dovrebbe lavorare Kraft. La libertà personale, cioè la mia propria libertà anzitutto. Il resto non
mi interessa [...] Può darsi che abbia voglia di servire l’umanità e lo farò forse meglio di tutti
quelli che predicano, ma non voglio che sia nessuno a costringermi, devo godere di piena libertà,
anche se non ho voglia di alzare un dito.8
La libertà così concepita si costruisce il proprio guscio e si ritira nel suo
cantuccio, a considerare l’esistenza altrui:
Io non ho bisogno del denaro un passo ulteriore, la radicalizzazione della sua posizione) o,
meglio, i denari non mi servono e neanche il potere. Ho bisogno soltanto di ciò che si può
acquistare, e unicamente, per mezzo del potere, e cioè la coscienza solitaria e sicura della mia
forza. Ecco la definizione più completa della libertà che il mondo cerca con tanta ansia. Libertà,
ho scritto finalmente questa grandiosa parola.9
L’adolescente definisce dunque la libertà come coscienza solitaria e sicura
della propria forza, il non avere più bisogno di abbracciare qualcuno per
ricevere l’approvazione e il consenso.
c) Lalibertàcomeviolazione
Per essere liberi bisogna obbedire alle leggi morali? Ci sono leggi nella
struttura, nel cuore, nell’anima umana che le persone sono tenute ad
accettare? Raskolnikov, in Delitto e castigo, risponde così alle seguenti
questioni:
La mia idea fondamentale consiste in questo: in generale gli uomini, per legge di natura, si
dividono in due categorie: quella inferiore, gli uomini comuni, per così dire il materiale che serve
unicamente per la procreazione di altri esseri simili a sé; e gli uomini veri e propri, aventi il dono
e la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova […] I primi sono gli uomini che vivono
nell’obbedienza, e amano obbedire, quelli della seconda categoria trasgrediscono la legge.10
La domanda è: Raskolnikov è un Napoleone o un pidocchio? Per superare i
limiti imposti alla struttura umana dalla legge morale, che sembra limitare e
sopprimere la libertà, Raskolnikov uccide la vecchia usuraia. Per
Raskolnikov l’ostacolo che impedisce la libertà umana è l’esistenza della
legge morale: «Io non ho ucciso una persona, io ho ucciso un principio. Il
principio l’ho ucciso, ma quanto a scavalcare non ho scavalcato niente, sono
rimasto da questa parte, ho saputo soltanto uccidere e anche quello non ho
saputo fare, si vede bene».11 E più tardi dirà infatti che non ha ucciso la
vecchia, ha ucciso solo se stesso, per cercare di andare oltre il bene e il male,
anticipando sotto questo aspetto tutta la logica di Nietzsche. Nel suo
tentativo di trascendere il bene e il male, Raskolnikov, con tutta la sua
volontà di potere, diventa un nietzschiano fallito. Esteticamente è solo un
pidocchio e niente di più. Il rimorso lo getta in allucinazioni e lo fa
diventare «un ragno che si rintana nel fondo della sua tana a tessere la sua
tela, per gettarla sugli altri, per succhiare dagli altri la loro linfa vitale».12 La
libertà realizzata in questo modo riduce l’uomo a un semplice parassita
della vita.
d) Lalibertàcomepuroarbitrio
È la figura di Kirillov nei Demoni. «Dio mi ha tormentato per tutta la vita»:13
questo grido che esprime sinteticamente la passione di Dostoevskij è messo
in bocca a Kirillov, solo che Kirillov non crede in Dio. Kirillov è uno di quei
personaggi straordinari che solo Dostoevskij ha saputo descrivere. Essi
vivono sotto il segno della totalità; qualunque cosa dicano o qualunque cosa
facciano è a una pienezza, a un compimento, a una totalità che aspirano.
Siccome Kirillov non crede più in Dio, ha bisogno di trovare un valore
assoluto, pieno, totale, che lo sostituisca, e lo trova nell’uomo: «Se non c’è
Dio, io sono un Dio»;14 «Capire che non c’è Dio e non capire nello stesso
momento d’esser diventato tu stesso Dio è un’assurdità»15. Nasce finalmente
l’uomo-Dio. Finalmente l’umanità trova la sua divinizzazione.
La libertà è all’interno di questa esperienza: «Per tre anni ho cercato
l’attributo della mia divinità e l’ho trovato. L’attributo della mia divinità è
l’Arbitrio. È tutto ciò con cui io posso mostrare la rivolta e la mia nuova
paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa».16 Da ciò nasce una nuova
umanità, che esiste dall’inizio fino alla nascita del gorilla e che, dopo la
distruzione di Dio, crea l’uomo completamente nuovo. Oltre al fatto che per
realizzare questa nuova trasformazione dell’umanità, che troverà finalmente
la sua divinità e sarà completamente e assolutamente libera nell’arbitrio,
bisogna suicidarsi, percsolo uccidendosi si può trascendere ogni limite ed
essere in grado di uccidere la paura: «Sono obbligato a spararmi perc
l’espressione più piena del mio libero arbitrio è uccidere me stesso».17
Se il pensiero di Dostoevskij poteva essere paragonato ad un edificio, la
libertà certamente ne rappresenta il fondamento. Per lo scrittore la libertà
ha rappresentato tutto: il buono e il cattivo, il bene e il male e la fonte di
tutto ciò che era possibile. Si potrebbero mettere a tacere i tormenti umani,
semplicemente rinunciando al proprio libero arbitrio. Dostoevskij riconosce
all’umanità una dignità quasi divina, teandrica e in quanto tale
responsabile. La responsabilità si realizza nella scelta; la scelta presuppone
la libertà. Dostoevskij non è un moralista: la libertà per lui non è
innanzitutto una questione di scelta tra il bene e il male; essa non si colloca
al termine di un’approfondita analisi intellettuale sul valore etico dell’azione.
La libertà è nellaopzionedifondoche verrà a determinare il valore di ogni
azione e che ogni azione successiva verificherà. Più profondamente, la
libertà è giocata nell’istante in cui uno prende posizione di fronte al destino.
Nello stesso tempo Berdjaev, nel suo saggio dedicato a Dostoevskij, mostra
come la libertà nell’opera dostoevskiana non sia, o non sia principalmente,
una facoltà dell’anima (la facoltà di scegliere il bene e rifiutare il male) e non
sia neppure un valore (sia pure il più alto e irrinunciabile), in quanto
rappresenta qualcosa di più originario. La libertà va colta non a livello
psicologico, ma metafisico, nel cuore stesso dell’essere. La libertà viene
prima del bene e del male, cioè prima della loro distinzione; di conseguenza,
la libertà non è un valore, ma la condizione di ogni valore.18
Per capire il tema della libertà in Dostoevskij, dobbiamo intendere il
concetto di libertà elaborato da sant’Agostino. Il padre della Chiesa, nella
sua concezione, distinse la libertà naturale (la libertas minor) dalla libertà
cristiana (la libertas maior). L. Pareyson chiama questa libertà, in Dostoevskij,
la «libertà del bene» a differenza dalla «libertà nel bene», la quale
cronologicamente sarebbe la conseguenza della prima.19 Lo stesso Berdjaev,
nel tratteggiare la particolarità della libertà dostoevskiana, divide
quest’ultima in libertà prima e libertà seconda, ovvero in una libertà iniziale,
sconfinata, che pone l’individuo dinnanzi alla scelta tra il bene e il male
(razionale e irrazionale) ed una libertà finale, che si colloca già nel bene,
nella razionalità. Secondo Berdjaev, Dostoevskij, coerentemente con la
tradizione del cristianesimo, non avrebbe mai potuto accettare la seconda
libertà prescindendo dall’esperienza della prima: quella del cristiano deve
essere una scelta libera, nella sua interezza. Conseguentemente, una libertà
che decidesse di porsi direttamente come libertà finale, già nel bene, sarebbe
una libertà imposta, quindi non una libertà.20
Se infatti si partisse dalla libertà prima, il rischio sarebbe che, posto
dinnanzi alla scelta tra il bene e il male, l’individuo scelga il male e così
facendo finisca per annullare la libertà che aveva voluto preservare. D’altro
lato, chi decidesse di sacrificare la libertà prima per la necessità del bene,
finirebbe comunque per corrompere il proprio proposito, poiché un bene
imposto si tramuta nel suo contrario: nel male. Tuttavia, precisa Pareyson,
tale dicotomia è solo apparente: mentre la scelta della libertà seconda
comporta sia la perdita della libertà (sacrificata per la necessità) che la
perdita del bene stesso, perché imposto, non lo stesso si potrebbe dire per la
libertà prima, che lascia sempre e comunque una porta aperta: «Riscontrato
il fallimento della scelta del male piuttosto che del bene, si può tornare
all’esercizio della libertà del bene e procedere a un adeguato riscatto della
colpa».21
Dostoevskij è il difensore della libertà prima in luogo di un’imposizione
arbitraria della seconda. Posto davanti alla scelta se sia preferibile una
società libera, con il pericolo del male, piuttosto che una società non libera,
nella quale il bene venisse imposto, egli opta per la prima. Chiunque
commetta il male merita la pena, e attraverso la punizione (educativa) potrà
raggiungere la catarsi e recuperare se stesso; ma sarebbe un prezzo troppo
alto da pagare quello di chi volesse cancellare il male in nome di una libertà
già posta nel bene, nella razionalità: e nello specifico questo prezzo troppo
alto corrisponderebbe alla perdita della libertà stessa, dunque al male. Sarà
per tanto sempre preferibile conservare la tragedia della libertà, che
conferisce all’uomo la dignità della scelta e della responsabilità del proprio
agire, in luogo di una campana di vetro, o Palazzo di Cristallo, dove tutto è
calcolato, con la massima precisione ragionieristica, sino all’ultimo dei
particolari, e al povero individuo non resta che coprire la funzione di mero
tasto d’organetto.
Dostoevskij era convinto che senza la libertà del peccato e del male, senza
l’esperienza della libertà, l’armonia universale non potesse essere accettata.
Egli insorge contro ogni armonia imposta, teocratica o socialista. La libertà
dell’uomo non può essere accolta se viene da un ordine forzato, come un
suo dono, la libertà umana deve precedere tale ordine e tale armonia.
L’avversione di Dostoevskij per il socialismo è legata a questa impossibilità
di rassegnarsi all’ordine e all’armonia forzata. Dostoevskij contrappone al
socialismo la libertà dello spirito umano.22
La libertà rappresenta la difficoltà della scelta, ma la vera tragedia
sarebbe la sua correzione con una limitazione esterna o con una costrizione
imposta. La libertà è, e non può che essere illimitata. Ecco la cosiddetta
pericolosità di Dostoevskij. In realtà, per lo scrittore russo, non è questo il
vero pericolo: per lui è molto più pericoloso voler correggere gli
inconvenienti di questa libertà mediante una limitazione esterna, mediante
una costrizione imposta, che capovolgerebbe il bene in male e la verità in
falsità. Nella libertà, infatti, è tutta la dignità del mondo e dell’uomo.23
e) La“correzione”dell’operadiCristo. Leggenda del Grande Inquisitore
Il Grande Inquisitore rimprovera Cristo di aver posto la libertà al di sopra di
tutto e di averne fatto dono agli uomini:
Invece di impadronirti della libertà umana, l’hai moltiplicata e hai oppresso per sempre col peso
dei suoi tormenti la vita spirituale dell’uomo. Tu hai voluto l’amore libero dell’uomo, che Ti
seguisse liberamente, incantato e conquistato da Te. Invece di seguire l’antica legge, l’uomo
avrebbe dovuto decidere da sé, liberamente, cosa fosse bene e cosa fosse male, avendo come
unica guida la Tua immagine: ma non avevi pensato che alla fine avrebbe discusso e rifiutato
anche la Tua immagine e la Tua verità, opprimendolo con un peso così gravoso come la libertà
di scelta?24
Il programma del Grande Inquisitore è di liberare l’uomo da questo peso
insopportabile, calmare la sua coscienza, dargli principi sicuri, sostituendo la
libertà con il mistero, il miracolo e l’autorità; in modo da rendere l’umanità
una unità felice.
f) L’organizzazione della felicità sulla terra
Questa tentazione è rappresentata come l’utopia delPalazzodicristallo:
Nel palazzo di cristallo [la sofferenza] è addirittura inconcepibile: essa rappresenta il dubbio, la
negazione stessa. Come potrebbe esistere un palazzo di cristallo in cui ci si possa abbandonare al
dubbio? Tuttavia, sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera sofferenza, che è la
distruzione e il caos. La sofferenza... essa è l’unica origine della coscienza.25
Per questa utopia l’umanità potrebbe raggiungere la completa felicità
attraverso la razionalità del progresso storico, attraverso la bontà della
natura umana e attraverso lo sviluppo di una scienza in grado di eliminare
la sofferenza. Dostoevskij protestava contro questo, per lui era meglio la
libertà della follia piuttosto che la schiavitù della ragione. Questa utopia si
ripresenta anche ne I Demonicon la teoria delparadisoterrestredel socialista
Šigalëv, che propone un benessere generale ad ogni costo:
Propone, in forma di soluzione finale della questione, la divisione dell’umanità in due parti
disuguali. Una decima parte riceve la libertà della personalità ed ha un diritto illimitato sugli altri
nove decimi. Questi devono perdere la personalità e trasformarsi in una specie di gregge e per
mezzo della illimitata obbedienza raggiungere attraverso una serie di rigenerazioni l’innocenza
primordiale, qualcosa come il paradiso primordiale.26
Ma la conclusione di Šigalëv rende giustizia alla sua teoria: “Partendo da un’assoluta libertà, si
conclude con un assoluto dispotismo”.27
Per Dostoevskij la possibilità della piena realizzazione della libertà umana è
soprattutto escatologica, nel Cristo come salvezza dell’uomo. Vediamo come
molti dei suoi personaggi positivi finiscono in un fallimento storico (il
cadavere di Zosima si decompone e il principe Myskin, dopo una
permanenza in Svizzera per problemi mentali, allora definiti “idiozia” si
riammala), allo stesso tempo Dostoevskij ha descritto il dramma in cui la
libertà umana cadendo nelle mani del Dio vivente si trova a seguire
Cristo come ragione della storia. L’attuarsi della libertà umana sarà solo alla
fine dell’opera, del giudizio e della misericordia di Dio, come si vede
nell’ubriacone Marmeladov (personaggio di Delitto e castigo):
E quando già (Cristo giudice) avrà finito con tutti, allora favellerà anche a noi: «Venite avanti»,
dirà, «anche voi! Venite, ubriaconi, venite, uomini deboli, venite, svergognati!». E noi ci faremo
avanti tutti, senza vergognarci e ci fermeremo. E dirà: «Porci siete! Immagini e impronte di
bestialità; ma venite anche voi!». E favelleranno i sapienti, favelleranno i savi: «Signore, perc
accogli costoro?». E dirà: «Per questo li accolgo, o sapienti, per questo li accolgo, o savi, perché
non uno di costoro s’è mai stimato degno di ciò...». E ci tenderà le mani Sue e noi ci
prostreremo... e piangeremo... e capiremo tutto! Allora tutto capiremo!... E tutti capiranno...
Katerina Ivànovna… anche lei capirà... O Signore, venga il Regno Tuo!28
Possiamo dire che Dostoevskij sia stato il grande poeta della libertà.
2. La coscienza
L’altro tema strettamente legato con la libertà e la concezione del male è la
coscienza. Larghezza, intensità e profondità dello spirito costituiscono un
tema fondamentale nell’opera dostoevskiana. Molti sono i personaggi
ambigui, tuttavia, tra questi, ad imporsi in modo particolare sono Dmitrij
Karamázov e Raskolnikov. Questi personaggi incarnano nella maniera più
drammatica la profonda lotta tra bene e male che si svolge nel cuore
umano: Dmitrij Karamázov è una natura incandescente, capace di slanci
generosi, nonché dell’atto più perverso e meschino. Tuttavia, Dmitrij stesso
riconosce la propria ambiguità, non nasconde le contraddizioni del suo
cuore ardente.29 Nel cuore di Dmitrij la lotta tra bene e male è una lotta
all’ultimo sangue. La coscienza è un mistero del cuore umano. Anche Pavel
Evdokimov descrive il problema della coscienza nei personaggi
dostoevskiani quando afferma che la consustanzialità ha il suo organo
proprio nella coscienza. Ogni delitto, ogni trasgressione alle norme morali
non è compiuto solo contro Dio, ma contro tutti e anche contro la
personalità stessa. Nella storia di Raskolnikov, il castigo appare al momento
stesso del delitto e forse anche prima, di fatto è immanente all’uomo e lo
precede perfino: «Ho forse ucciso quella vecchietta? Ho ucciso me stesso,
non la vecchietta!».30 La coscienza morale formula il proprio giudizio e
l’uomo lo concepisce come una sofferenza interiore, come sdoppiamento
introdotto dalla lotta tra l’elemento della coscienza e quello della
possessione. «Quella vecchietta l’ha uccisa il diavolo, non io...».31 La
coscienza si configura come il fondamento religioso della legge morale.
Tutta la vicenda di Raskolnikov rappresenta lo sviluppo di questa tesi. La
voce interiore, la voce del piccolo borghese non è altro che la voce della
coscienza universale, è questo il significato del racconto. La coscienza di sua
sorella, di sua madre e di Sonja non hanno nulla in comune con l’autorità
dell’ambiente, con l’ambito sociale e le sue leggi: Sonja, pretendendo da lui
una pubblica penitenza, lo invita a compiere l’atto in cui l’uomo arriva a
capire e a conoscere il suo errore e lo confessa alla presenza del genere
umano nella sua interezza. Raskolnikov, che si è separato per il suo delitto,
ha bisogno per vincere il suo isolamento di rispondere alla voce della
coscienza e di ristabilire l’unità Dio-uomo-cosmo. La sua sottomissione alla
giustizia giuridica è soltanto la forma esteriore del suo pentimento. Il bacio
alla terra, il richiamo alla coscienza del popolo, in virtù del principio di
espiazione del perdono gli consentono di rientrare di nuovo nel seno del
genere umano.32 Questo è lo stesso richiamo che rivolge Mitja al contadino,
che in quel momento rappresenta ai suoi occhi tutto il popolo: «Tu mi
perdoni?... in nome di tutti, tu solo in nome di tutti, qui, adesso, qui sulla
strada, mi perdoni in nome di tutti?».33
3. L’omnicolpevolezza
Siamo dunque arrivati a quell’aspetto ritenuto molto importante e tante
volte sottolineato da Dostoevskij, cioè l’omnicolpevolezza. Nell’opera
dostoevskiana ricorre il motivo che attesta la solidarietà della colpevolezza:
ciascuno è colpevole di tutto, per tutti e davanti a tutti. Per Dostoevskij la
solidarietà nella sofferenza è uno dei temi principali dell’ultima opera I
fratelli Karamazov. Questa solidarietà si mostra in Markel, il fratello maggiore
dello starec Zosima, quando prima della sua morte dice: «E vi dirò ancora
una cosa, mamma: che ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto,
e io più di tutti gli altri».34
L’uomo si ritiene colpevole non solo delle proprie colpe e della colpa
originaria, ma anche di tutte le colpe commesse dagli altri. Per questo
motivo lo starec Zosima cade in ginocchio e s’inchina fino a terra davanti a
Mitja Karamazov. Per lo scrittore russo, la solidarietà degli uomini fra loro
non è soltanto quella originaria, ma anche quella finale: tocca a noi
instaurarla e realizzarla. Questo è possibile soltanto se la “solidarietà nel
peccato” e la “solidarietà nell’espiazione” continuano nella “solidarietà nel
perdono” e nella “solidarietà nell’amore”. Dalla solidarietà della
colpevolezza deriva come compito la reciprocità del perdono e
dall’universalità della colpevolezza discende come dovere l’universalità
dell’amore. Pavel Evdokimov commenta così le parole di starec Zosima:
La parola di Zosima: «Ricordati che non puoi farti giudice di nessuno», significa che sussiste una
partecipazione personale ad ogni colpa. «Tutto è in comunicazione... si tocca un punto e quello
si ripercuote all’altro capo del mondo».
L’uomo, essendo compartecipe di ogni colpa può, nello stesso modo, essere partecipe di ogni
redenzione. Se l’uomo assume il peccato degli altri, nello stesso tempo acquisisce il potere di
perdonare a nome degli altri.35
Secondo Dostoevskij il grande tema della solidarietà nella colpa e nel dolore
ci porta al problema delle sofferenze inutili, che escludono ogni via
puramente umana alla redenzione. Ogni idea che il senso della vita possa
essere trovato a livello puramente umano, ci ricorda brutalmente che questi
problemi non possono essere trattati che sullo sfondo del mistero, che la fede
portata di fronte a essi si può confermare solo con un certo sacrificium
intellectus. Le sofferenze dei bambini e dei malati non cessano di essere
scandalose e lo sono anche per Dio. Esse sono qualcosa che è e che
assolutamente non dovrebbe essere, ma possono essere situate in questo
universo come disordine conseguente al peccato.
Non si può dimenticare, che la solidarietà della colpa attraverso la
solidarietà nella sofferenza ci conduce alla solidarietà nell’amore. Dalla
solidarietà della colpevolezza deriva, come compito, la reciprocità del
perdono. Invece dall’universalità della colpevolezza, discende come dovere,
l’universalità dell’amore.36 Questo messaggio dostoevskiano che nello
stesso tempo è anche pensiero profondamente cristiano può apparire
paradossale e scandaloso, eppure soltanto attraverso la potenza dell’amore
diventa possibile vincere la forza della negazione: «Ammesso che io abbia
peccato con tutti, in compenso tutti mi perdoneranno e così sarà il paradiso.
Non mi trovo forse in paradiso adesso?».37
È importate che, secondo Dostoevskij, prima di riconciliarsi con Dio
l’uomo si riconcili con la terra. L’unione con Dio non divide l’uomo dagli
uomini e non divide l’uomo dalla terra, nella sua unione con Dio l’uomo
vive la sua più intima comunione con la creazione. Mentre la divisione dagli
uomini e dalla terra è segno di una separazione dell’uomo con Dio, la
creazione per Dostoevskij certamente non è Dio, ma possiamo chiamarla
sacramento di Dio. Solo in questa luce è possibile cogliere il vero significato
dell’apertura all’idea dell’omnicolpevolezza, da cui scaturiscono il perdono
reciproco e l’armonia universale:
L’uomo non cammina mai verso Dio da solo, ma insieme a tutto il genere umano, a tutte le altre
creature. Anche la terra è un essere vivente, è «l’Alma Mater» che crea, nutre, protegge e l’uomo
la macchia col suo peccato. Nella contemplazione si realizza un riconoscimento mistico del
mondo, una reminiscenza inconscia, un’anamnesi dell’impronta del Logos, una visione della sua
dignità. Mentre l’universo mostra la propria gerarchia, l’uomo, di fronte ad esso, si riconosce
microcosmo e microtheós.38
La stretta relazione tra natura e Dio, presente in Dostoevskij, viene
rappresentata nel racconto di Mar’ja Lebjadkina: in questo personaggio del
romanzo I Demoni è presente un forte richiamo alla dimensione immanente
della religiosità, nel quale il divino viene fortemente legato a degli oggetti
mondani. A volte il nesso tra la sfera mondana e quella divina diviene così
stretto da essere un tutt’uno. Si evince quanto la Madre Terra per Mar’ja
Lebjadkina sia importante quando racconta:
Mentre uscivo di chiesa una vecchia che veniva da noi in penitenza per aver fatto delle profezie,
mi sussurra: «Che cos’è la Madre di Dio secondo te?» «La gran madre rispondo è la
speranza del genere umano». «Sì dice la madre di Dio è la gran madre terra e in ciò è
racchiusa una gran gioia per l’uomo. Ogni angoscia terrena è gioia per noi e quando avrai
imbevuto con le tue lacrime la terra sotto di te fino a un mezzo aršin di profondità, allora subito
ti rallegrerai per tutto. E mi dice non avrai più nessuna sventura». Queste parole si
impressero nella mia mente. Da quel giorno, quando prego, faccio l’inchino fino a terra, bacio
terra e piango.39
Baciare la terra e inchinarsi davanti ad essa richiamano la dimensione
universale della solidarietà nella sofferenza. Non è panteismo, ma significa
comprendere che ciascuno è colpevole per tutti e accettare il dolore e la
sofferenza per espiare il male commesso. In questo gesto di pentimento e di
comunione davanti alla terra e al popolo avviene il riconoscimento della
realtà dell’uomo e dell’umanità al di fuori di se stesso. La nascita dell’uomo
nuovo in Raskolnikov è l’espressione di tale riconoscimento, che porterà
all’inizio della vita nuova dell’assassino:
Alzati! Lo afferrò per la spalla; egli si raddrizzò, fissandola quasi con meraviglia. «Va’ subito
fuori, in questo stesso istante, fermati al crocicchio, prosternati, bacia prima la terra che hai
insozzato e poi prosternati davanti a tutto il mondo, in tutte e quattro le direzioni e di’ a tutti a
voce alta: “Ho ucciso!” Allora Dio ti restituirà la vita. Ci andrai? Ci andrai?» gli chiedeva
(Sonja), tutta tremante, come in preda a una crisi isterica, afferrandogli le mani, stringendogliele
forte tra le sue e fissandolo con uno sguardo di fuoco.
Quella improvvisa esaltazione lo lasciò stupito e perfino impressionato.
«È dei lavori forzati che parli, Sonja? Devo forse costituirmi?» domandò in tono cupo.
Accettare la sofferenza e con essa riscattarti, ecco cosa devi fare.40
Anche papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti parla di solidarietà,
fratellanza e corresponsabilità nell’intera famiglia umana:
In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci
alla solidità che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino
comune. La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto
diverse nel modo di farsi carico degli altri. Il servizio è «in gran parte, avere cura della fragilità.
Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società,
nel nostro popolo». In questo impegno ognuno è capace di «mettere da parte le sue esigenze,
aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. […] Il
servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in
alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai
ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone.41
4. Il ruolo della sofferenza nella vita umana
Dopo il tema della libertà, della coscienza, dell’omnicolpevolezza giungiamo a
trattare il tema della sofferenza, leit motiv delle opere di Dostoevskij.
La sofferenza delle creature innocenti è uno dei pretesti per accusare Dio
di essere ingiusto nei riguardi delle sue creature e subentra un quesito:
“perché?”, interrogativo questo estremamente tormentoso, che ogni epoca
dell’umanità si pone quando cerca di conciliare l’esistenza di un Dio giusto
e buono con la realtà. Infatti, fino a quando il male è conseguenza di una
colpa o di una decisione personale si può giustificare la sofferenza; il
dramma sta nel trovare altrettanto giustificabile un male che colpisce
immeritatamente le creature vulnerabili, prive d’ogni capacità di reagire.
Per Fёdor Dostoevskij, come per tutti i grandi pensatori dell’umanità, il
problema del male rimane sempre un mistero. Non è compito della ragione
sollevare il problema del male: la sua essenza ultima, come quella della
libertà, è nascosta nei recessi impenetrabili alla luce dell’intelletto. Il mistero
del male non può essere spiegato attraverso il ricorso al sapere esplicito,
alla conoscenza analitica. Dalla coesistenza incompatibile del male e della
libertà scaturisce la tragicità della condizione umana. L’uomo, di fronte alla
libertà del male, può soltanto anticipare misticamente il senso dell’aldilà, ma
non gli è concesso di appropriarsene già in questo mondo.42
Il momento cruciale, che porterà alla ribellione aperta verso Dio, inizia in
Dostoevskij dal travaglio di Iván Karamazov che, mentre ama il mondo,
non riesce ad accettare la sua imperfezione macchiata del sangue dei
bambini innocenti. Esso dichiara di non accettare questo mondo se
comporta anche solo la lacrima di un bimbo innocente:
Immagina che tocchi a te innalzare l’edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli
uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma imma gina pure che per far questo sia
necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si
batteva il petto con il pugno, immagina che l’edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di
quella bambina accetteresti di essere l’architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non
mentire!»
«No, non accetterei», disse Alëša sommessamente.43
La figura di Iván è una delle creazioni più interessanti di Dostoevskij, molto
complessa grazie alla sua profonda struttura metafisica. Non si può vivere in
un mondo in cui domina la sofferenza immeritata. Iván si sente tormentato
dal problema di Dio, nel suo tormento, si aggrappa esclusivamente alle
forze umane, secondo lui sarebbe meglio applicare la legge della vendetta e
usa solo la ragione (o mente euclidea, come la chiama Dostoevskij).44
Per la mente euclidea di Iván la sofferenza nel mondo e l’esistenza di Dio
devono esclusivamente eliminarsi a vicenda: seguendo questa sfasatura del
ragionamento, sembra essere convincente la tesi, secondo la quale se Dio
esistesse, come potrebbe volere o permettere tanto male e tanta sofferenza
nel mondo? E proprio da qui che nasce la teodicea semplicemente umana,
poiché dalla bontà di Dio si fa discendere l’idea del negativo come
privazione. A partire da tale tesi, Iván ipotizza una nuova teodicea, una
teodicea capovolta, ch’è quella dell’inesistenza di Dio.45
Adesso proviamo ad approfondire la visione del mondo di Iván: tra le
figure di Dostoevskij, quella di Iván Karamazov è importantissima per la
visione profonda della metafisica della natura umana. In questo personaggio
la libertà diventa arbitrio e ribellione contro Dio. Nel celebre dialogo fra
Iván e Alëša nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij mette in bocca a Iván la più
violenta contestazione del trionfo del bene che la storia della filosofia abbia
mai registrato: l’avvio alla discussione è dato dalla protesta di Iván che
afferma l’incompatibilità di un mondo come il nostro, così pieno di
sofferenze, con l’idea di Dio. Un mondo insensato, in cui non soltanto gli
adulti, che hanno mangiato dell’albero del bene e del male e che continuano
a mangiarne, ma anche i bambini questo l’argomento forte che egli usa)
continuano a soffrire. C’è una sofferenza inutile, quella dei bambini e dei
malati, che non può tradursi in alcun modo in arricchimento spirituale per
chi la prova. La sua protesta si fa ribellione.46
Sergio Givone sottolinea come sia forte l’accusa di Iván rivolta a Dio
quando afferma:
Cancellazione che, in Iván, appare particolarmente raffinata. Essa non è basata, come nel
nichilismo tradizionale, sull’accusa rivolta a Dio di non poter render conto del male, della
sofferenza e dell’ingiustizia che regnano sulla terra. Proprio al contrario, è il fatto che Dio lo
possa ad obbligarci a rifiutarlo.47
Non si può accettare quindi un mondo in cui il male e la sofferenza non solo
sono una realtà incomprensibile ed inammissibile, ma secondo Iván, hanno
il loro posto nel cuore dell’universo e della storia umana. Certamente
l’esistenza di Dio e la questione della sofferenza ingiusta, cioè di quella
inutile non sono per niente compatibili. Sulla linea del ragionamento di
Iván è sufficiente l’esistenza di un solo bambino sofferente a creare i
presupposti dell’assurdità del mondo creato e, di conseguenza, della
negazione di Dio. Non si può pretendere di sanare l’armonia finale
desiderata da Iván con la sofferenza inutile alla luce della pura logica.
Karamazov non ammette più il peccato originale: esso viene considerato
come un solo peccato individuale e di conseguenza, secondo tale
ragionamento, i bambini sarebbero quelli a cui spetta scontare un’ingiusta
punizione. Iván chiede perci bambini siano puniti e soffrano per espiare
la colpa dei padri che hanno mangiato il frutto e risulta incomprensibile
come questa punizione possa essere applicata a piccoli innocenti:
Percanch’essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l’armonia futura di qualcun
altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta
punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono
condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale
verità non è di questo mondo e io non la capisco.48
Il rifiuto dello stato attuale del mondo è troppo forte in Iván per non
riconoscervi la posizione dello stesso Dostoevskij. Il progresso (che avrà
come risultato finale il bene stesso) è una soluzione moralmente
inaccettabile. La felicità di domani non giustifica le sofferenze dell’oggi,
perché quelli che esulteranno di felicità domani non sono gli stessi che oggi
soffrono. Il mondo, in tutta la sua realtà brutale, è assurdo. Dostoevskij
insorge, con Iván, contro qualsiasi teodicea ottimistica che sia stata defraudata
dell’elemento tragico, dove il male non sia che un accordo necessario
nell’armonia universale e dove le vie della Provvidenza si accordino troppo
bene con la ragione filosofica. Il mondo deve essere cambiato e Iván ha
ragione rifiutando di accettarlo così com’è. La morale immanente è
inefficace nello squilibrio esistente tra le deboli forze dell’uomo e le energie
del male. E contro questa morale che si erge Dostoevskij.49
Secondo la stessa testimonianza dello scrittore russo, tutto il romanzo
(potremmo aggiungere: tutta la sua opera) è una risposta alla requisitoria di
Iván. Ma Iván non conosce l’amore la libertà e da qui derivano le
difficoltà del suo pensiero. Non è possibile razionalizzare il male e la
sofferenza; la loro origine, la libertà, è un concetto-limite per la ragione.50
La dialettica che si esplica nel discorso di Iván è una dialettica della
necessità, dove, se si ammette l’eterna armonia, le sofferenze sono il prezzo
necessario che si deve pagare per raggiungerla. La dialettica che Dostoevskij
intende far valere contro di essa è quella della libertà. Già il richiamo
all’Agnello di Dio è un richiamo alla libertà: impossibile pensare all’Agnello
di Dio che prende su di i peccati del mondo se non in un orizzonte di
libertà. Impossibile pensare lo stesso concetto di male e di redenzione senza
l’affermazione della libertà: se il male non derivasse dalla libertà
coinciderebbe con la limitazione umana e non vi sarebbe altra redenzione
che il suo annullamento.51
Secondo l’autore non c’è univoca spiegazione della sofferenza a livello
metafisico. L’unica risposta che può essere data al problema del dolore e
della sofferenza è la stessa sofferenza di Dio. Allo scandalo della sofferenza
inutile, Alëša contrappone lo scandalo del Redentore, cioè del Figlio Dio
che soffre e muore. La risposta di Alëša è breve ma incisiva: consiste in un
semplice rimando all’Agnello di Dio che innocente ha preso su di tutte le
colpe e le sofferenze del mondo.52 Dal punto di vista cristiano il mistero
della sofferenza non si spiega razionalmente (come vediamo nel pensiero di
Iván) ma si accetta nella fede. In questo caso, indubbiamente, senza l’aiuto
della fede, si perviene alla ribellione.
Ciò che può aiutarci per approfondire la risposta di Alëša, è che ogni
sofferenza partecipa alla sofferenza di Gesù. Sulla terra ogni episodio di
autentica unione rispecchia gli incontri mistici con Dio e la partecipazione
alla sofferenza di Dio. Dunque le lacrime non sono quelle prive di riscatto di
un bambino martirizzato che fanno da sostrato ai destini dell’umanità, ma
sono le lacrime di Dio: «L’Agnello che è stato immolato fin dalla fondazione
del mondo» (Ap 13,8).53
Dostoevskij risponde a Iván facendo emergere la dimensione tragica e
misteriosa del cristianesimo, per cui non c’è altra via alla salvezza se non
nell’accettare il mistero della sofferenza. Il compito del lettore consiste nel
riconoscere, con Alëša, che tutto ciò che ha scritto Iván non è una
condanna, ma un elogio del Cristo: «Ma questa […] questa è un’assurdità!
gridò arrossendo. Il tuo poema è un inno di lode a Gesù, non una
denigrazione […] come volevi che fosse».54
5. Valore positivo del male
Il male ha il suo valore positivo solo nella misura in cui attraverso il dolore si
capovolge. Ciò significa che esso vale come purificazione interiore capace di
preparare la rinascita ed elargire la felicità. Dostoevskij non ha troppo
timore delle cadute dei delitti purc attraverso la sofferenza
appaiano l’essenza e il significato del male, e l’uomo trasformi, attraverso di
sé, il male in redenzione. Questa concezione del male spiega perché
Mefistofele, apparendo a Faust, affermi che vuole il male e fa il bene. È il
castigo insito nel male; come agente della lotta e della resistenza spirituale,
questo manifesta dolorosamente la sua impotenza e la sottomissione allo
Spirito divino.55
L’affermazione del valore positivo del male, viene dalla stessa vita dello
scrittore: difatti, anche nella sua vita Fëdor Dostoevskij percepiva la
sofferenza come la via della salvezza. L’esperienza che segnò
profondamente la vita di Dostoevskij, sta nella commutazione della sua
condanna a morte a pochi passi dal patibolo: lo scrittore russo fu arrestato il
23 aprile 1849, a causa della sua partecipazione al circolo socialista di
Petraševskij. Dostoevskij doveva essere privato di ogni grado e fucilato: il 19
dicembre 1849 la Giustizia militare pronunciò ventuno condanne a morte.
Tuttavia, visto il pentimento di molti, la loro benevola confessione, nonché
la loro giovinezza e il mancato inizio dell’esecuzione, i condannati vennero
graziati dallo zar e furono proposte una serie di commutazioni di pene, dai
lavori forzati a vita (kátorga) fino alla deportazione. Nicola I scrisse sul dossier
di Dostoevskij: «Quattro anni di lavori forzati, poi soldato semplice senza
diritto di promozione». La grazia imperiale con commutazioni vennero
annunciate ai prigionieri solo al palo d’esecuzione, il 22 dicembre 1849.56
Graziato della vita, il 24 dicembre venne deportato in Siberia, giungendo
l’11 gennaio 1850 a Tobol’sk per poi essere rinchiuso il 17 gennaio nella
fortezza di Omsk. Dalla drammatica esperienza della reclusione matura una
delle sue opere più crude e sconvolgenti: Memorie dalla Casa dei Morti.
Nell’opera varie umanità degradate vengono descritte come personificazioni
delle più turpi abiezioni morali, pur senza che manchi nell’autore una vena
di speranza. Anche i due capitoli dell’epilogo diDelitto e castigosi svolgono in
una fortezza sul fiume Irtiš, identificabile con Omsk.
Seppur difficilissima l’esperienza che visse lo scrittore russo, come
affermerà in seguito, era da considerarsi positiva e molto ricca. Nei quattro
anni di lavori forzati trascorsi in Siberia, tra sofferenze e umiliazioni d’ogni
genere, unica consolazione era stata la lettura del Vangelo. Il Vangelo era
stato regalato, a lui e agli altri condannati, dalle mogli dei decabristi (che
avevano seguito volontariamente i loro mariti in Siberia) nel viaggio verso la
prigionia. Dostoevskij ricorda che esse li benedissero sulla nuova via e con
un segno di croce regalarono ad ognuno un Vangelo, l’unico libro permesso
nella prigione. Durante i quattro anni di lavori forzati, esso rimase sotto il
suo cuscino in galera. A contatto con la Sacra Scrittura e col dolore di tanti
disgraziati, molte sue fantasie erano crollate determinando nel suo spirito un
vuoto ricco di promesse nuove. La fede religiosa era diventata più vicina
nonostante la bruta realtà del male e lo sconfinato squallore di quella casa dei
morti. Quando lascia la prigione (1854) e poi la Siberia (1859) è ancora
“figlio dei dubbi”, ma il Vangelo gli fermenta nell’anima con progetti e
traguardi.57
Possiamo dire che proprio in questo periodo, Dostoevskij ha riscoperto il
cristianesimo, non quello ufficiale, ma quello che H.U. von Balthasar ha
chiamato “nudo e crudo”,58 in cui Cristo dimora tra i condannati, i
malfattori e gli assassini. Il Cristo, ritrovato da Dostoevskij in Siberia è il
Cristo crocifisso, che non elimina il problema del male dalla vita degli
uomini, ma per la sua croce si solidarizza con tutti gli uomini invischiati nel
male, con tutti coloro che soffrono. Vuole essere con l’uomo sempre e
ovunque, dividendo la drammatica situazione dell’uomo dopo il peccato
originale. È vulnerabile, perché nella divina libertà rispetta la libera risposta
dell’uomo, sigillando in questo dialogo, attraverso la follia della croce, il suo
amore infinito verso l’uomo.59
Il valore positivo del male e della sofferenza viene tante volte descritto
nelle sue opere: nell’incubo di Iván il diavolo esprime adeguatamente il
momento positivo del male. Il suo destino tragico si riflette nei tratti di un
personaggio triviale e volgare e pertanto: «Il mio destino è ben più grave»,60
confessa il diavolo, che per una sorta di decreto inspiegabile la sua
missione è negare. Senza questa negazione non ci sarebbe critica e che cosa
diventerebbe la stampa senza la pagina della critica? Senza critica tutto
sarebbe un osanna. Ma perc ci sia vita non basta che ci sia l’osanna,
bisogna che l’osanna passi attraverso il crogiolo del dubbio.61
Romano Guardini sottolinea il valore positivo della sofferenza per tutto il
popolo quando afferma,che tutta l’esistenza, pur conservando tutta la sua
realtà terrestre è posta sotto la maestà del volere di Dio. Essa parla all’uomo,
sotto la potenza della protezione sicura della sua Provvidenza. Quest’azione
trasformatrice appare soprattutto nel dolore. Il popolo di Dostoevskij soffre
terribilmente e tutta la sua esistenza è segnata dal dolore. Ma esso è
accettato e sofferto come espressione della volontà di Dio. Anche se talvolta
qualcuno mormora o si ribella, questo non toglie nulla al significato decisivo
di quell’accettazione. In tal modo si compie una continua trasformazione
del mondo, da realtà puramente naturale, in creazione che ha un linguaggio
cristiano.62
Secondo Fёdor Dostoevskij non c’è felicità nello star bene: «l’uomo non è
creato per la comodità».63 Pavel Evdokimov afferma queste parole del
grande scrittore:
Formulando l’idea del suo romanzo Delitto e castigo Dostoevskij osserva: È attraverso le sofferenze
che l’uomo trova la felicità. Non c’è, qui, nessuna ingiustizia, perc la coscienza vivente
immediata, che proviene da tutto il percorso della vita, può essere raggiunta solo passando per
dei Pro e dei Contra che sono inevitabili.64
Il modo dello scrittore russo per includere la teodicea nelle riflessioni religiose,
sostanziato di schietto realismo e di profonda spiritualità cristiana è
alquanto suggestivo, perciò non meraviglia che teologi di tutte le confessioni
si rivolgano a lui per imparare questo genere di arte.65 Riassumendo,
possiamo trarre la conclusione di come sia lampante in Dostoevskij
l’apertura della porta della salvezza e la purificazione attraverso l’esperienza
del male e della sofferenza, generata prima dal peccato e poi dal percorso di
redenzione.
III. LIDIOTA COME FIGURA MESSIANICA
Il Cristo come Messia costituisce il punto focale del pensiero di Dostoevskij,
come vincitore sul male. A Lui si riferiscono tutti i suoi personaggi: o
negando la Sua divinità e la forza redentrice o riducendolo ad una idea; o,
dopo lunga e catartica esperienza, scoprendolo come unico senso della vita.
Analizziamo adesso il personaggio che maggiormante rispecchia il
messianismo cristiano: il principe Myškin (protagonista de L’Idiota), una
figura che potremmo definire messianica.
1. L’idea messianica nel pensiero teologico
Michail Tareev, professore dell’Accademia teologica di Mosca, scrisse un
articolo nel 1907 dedicato a Dostoevskij. Prendendo in esame note figure
dei romanzi dostoevskijani, Tareev loda la straordinaria capacità dello
scrittore di descrivere un’immagine viva dell’uomo santo. Come attesta nel
suo articolo, descrivere la vita di un santo usando lo stile classico (bizantino)
è molto facile. Dostoevskij riesce a descrivere una persona santa
mostrandone la vita quotidiana e mettendola in relazione con le altre
persone.66
Confrontando la posizione di Dostoevskij con l’opera Le Sfere di Peter
Sloterdijk (che per primo ha scoperto la valenza dell’idiozia nel pensiero
teologico), si evince che nel primo volume di quest’ultimo egli sostenga
l’arrivo del Messia nel mondo moderno solo come idiota. Sloterdijk analizza
il cambiamento dell’idea di Salvatore nella storia umana e descrive la storia
del concetto messianico, sostenendo che tutti i tentativi volti a provocare il
sorgere delle figure dei redentori si erano inevitabilmente orientati al
modello dell’angelo o del messaggero, cioè si uniformavano all’idea di un
inviato incaricato di portare un messaggio trascendente. Un inviato che si
presentasse ai mortali e, in quanto Eroe-Salvatore, li liberasse dalla
disperazione fisica e dalla perdizione morale. Secondo il pensatore, in un
primo tempo il redentore non è altro che una forma moltiplicata di
messaggero: solamente la cristologia elle nica ha introdotto il salto
categoriale per cui il messaggero non si accontenta più di portare il
messaggio, ma è lui stesso il messaggio. Secondo Sloterdijk nel periodo della
sua fioritura, lo stereotipo del messaggero o dell’angelo era chiaramente
tanto potente da contribuire a creare la teoria del redentore. Ciò detto, per
imporre il redentore quale messaggero di tutti i messaggeri, i teologi
cristiani hanno dovuto farne il figlio della sostanza e proclamarlo unico
segno perfettamente adeguato dell’Essere. Il fatto che loro abbiano saputo
rispondere a questa esigenza, indica la capacità performativa del modello
angelotico. Secondo Peter Sloterdijk la cristologia classica mostra la
metafisica del messaggio e dei messaggeri all’apogeo del suo potere. Essa
deriva da una situazione del mondo e della teoria caratterizzata dal dogma.
Quella struttura discorsiva che abbiamo l’abitudine di qualificare come
metafisica, non è forse altro che un riflesso della sottomissione del pensiero
alla rappresentazione di un Essere che, in quanto mandante assoluto,
monopolizza tutti i troni, le potenze, i poteri, i loro flussi di segni e i loro
intermediari. In questo incondizionato Essere-mittente, il Dio della Bibbia e
quello dei filosofi potrebbero convergere.67
Nell’età moderna, come afferma il filosofo contemporaneo, è
sopraggiunta la crisi dell’idea salvifica, in particolare quella del modello
dell’angelo come messaggero. Il mondo non accetta più l’angelo incaricato
di un messaggio trascendente ma aspetta una persona umana che porterà
un simile messaggio:
Nella modernità, con la moltiplicazione delle potenze mittenti, con l’inflazione di messaggeri sul
libero mercato dell’informazione, un ipermessaggero del tipo del Dio redentore, incarnato da
rappresentanti apostolici, non può affermare la propria posizione feudale di privilegio. Chi vuole
avere in un senso specifico un effetto liberatorio sugli uomini non può più in futuro essere un
messaggero incaricato di portare un messaggio trascendente ma, al contrario, dovrà apparire
come un essere umano, la cui alterità immediatamente visibile nella presenza reale deve
sostituire completamente il latore di un messaggio dall’aldilà.68
Possiamo dire che quello che caratterizza il genio di Dostoevskij nel campo
della filosofia delle religioni è il fatto di essere stato il primo a riconoscere e a
pensare fino alle sue estreme conseguenze la possibilità di riprogrammare la
cristologia su base idiotica, anziché su base angelotica. È proprio perché il
mondo moderno è saturo del rumore dei messaggeri del partito al potere e
del baccano artistico dei geni che attirano l’attenzione sulle loro opere e i
loro sistemi di follia, che non è più possibile sottolineare in maniera
convincente la differenza religiosa nella modalità del messaggero. Il Dio-
Uomo presente non può arrivare ai mortali in quanto messaggero, ma solo
come idiota.69
Non si può dimenticare che tante volte anche Gesù in qualche modo
apparve “pazzo” (juródivyj) agli occhi del mondo. Si può paragonare il Cristo
a un eroe assurdo. Lo studio esegetico mostra che il tema della beffa percorre
tutto il Vangelo: dall’inizio della sua vita pubblica, Gesù è preso per un
posseduto dal diavolo e tutto quello che farà in seguito, sarà da molti
interpretato come diabolico: lo si accuserà di essere un bevitore o un folle.
Allo stesso modo il protagonista del romanzo dostojevskiano L’Idiota compie
una simile funzione: il Principe-Cristo viene crocifisso dalle sue donne per
cui ha nutrito amore puro e che rappresentano l’egocentrismo della natura
umana. Lui non ha cambiato nulla per il destino delle persone con cui ha
vissuto: solo, ha mostrato loro il cammino che poteva condurle verso il
miglioramento di se stesse, verso la negazione del loro egoismo, verso la
Verità. Anche se il protagonista dell’Idiota non può mutare la tragica sorte di
quelli che ama, la sua sofferenza non è inutile. Certo, Myškin non è Gesù,
non è il Salvatore, non redime nessuno; ma compie una funzione a volte
simile a quella che un uomo potrebbe fare. È un Cristo che non sarà che un
uomo, ne conserva i limiti e le colpe, cosa che contribuisce a rendere il suo
personaggio più verosimile. Nella sua persona sempre dimora una parabola
di Cristo.70
Possiamo dire che ciò che caratterizza l’idiota cristiano sono uno spirito
fanciullesco e la semplicità che gli permette di meravigliarsi di quello che
non stupisce gli altri, libero di non meravigliarsi affatto degli aspetti che
suscitano in loro stupore. «Siete un fanciullo, principe, un vero fanciullo»,
dice un uomo ponderato a Myškin, dopo che questi ha denunciato il fatto
che i suoi contemporanei siano diventati così complessi.71Così caratterizza il
Messia – Idiota cristiano Peter Sloterdijk:
L’idiota è un angelo senza messaggio colui che completa intimamente e senza distanza ogni
entità che incontra casualmente. Anche la sua entrata in scena è legata all’apparenza ma non
perché nell’aldiquà essa richiami alla mente lo splendore trascendente, piuttosto perché nel cuore
di una società di attori e di strateghi dell’ego essa incarna un candore inatteso e una benevolenza
disarmante. Quando parla, non è mai con autorità, ma solo con l’energia della sua franchezza.
Benché per discendenza sia un principe, è un essere privo del segno del suo status e in ciò
appartiene senza riserve alla modernità, poiché se la gerarchia è propria dell’angelo, il tratto
egualitario lo è dell’idiota. Si muove tra le persone dell’alta e della bassa società, come un
bambino cresciuto che non ha ancora imparato a calcolare il proprio vantaggio72.
Anche Nietzsche nel suo testo del 1888 L’Anticristo, ha tratto delle
conclusioni nel campo della psicologia della religione: per Nietzsche, il
Cristo storico può già, in sé, essere ricondotto a un denominatore tipologico
dostoevskiano: è, nella terminologia di Nietzsche, l’incarnazione di un
decadente ante litteram. Secondo Nietzche sarebbero inadeguate tutte quelle
caratterizzazioni che volessero proiettare sul Gesù storico il linguaggio
dell’eroismo e della cultura del genio, tanto quanto il linguaggio del
fanatismo e dell’arroganza apostolica e apologetica. In tutto ciò non si
esprimono che la rabbia del vicario e le ambizioni dell’erede. Quanto al tipo
concreto del redentore evangelico, bisognerebbe infine affrontarlo con
l’unica categoria appropriata: «Ogni nostra nozione, ogni nostro concetto
culturale di “spirito” non aveva alcun significato nel mondo in cui visse
Gesù. Detto con il rigore del fisiologo, una parola totalmente diversa
sarebbe qui al suo posto più idonea: la parola idiota».73
2. Myškin come natura pienamente bella e l’immagine di Cristo
Il romanzo L’Idiota è di estrema importanza per una maggiore
comprensione di tutta l’opera di Dostoevskij. La rivelazione di Cristo è
presente simbolicamente in tutti i romanzi dostoevskiani, ma lo è soprattutto
nel protagonista del romanzo L’Idiota: il principe Myškin. Può sembrare
strano che lo scrittore russo dia dell’“idiota” al Cristo, ma non è più assurdo
che Dio facendosi uomo abbia scelto la figura del servo? Non bisogna
dimenticare che Dostoevskij aveva concepito il personaggio dell’idiota come
tentativo di rappresentare l’essere umano perfettamente bello e il suo inevitabile
naufragio sullo scoglio della bruttura umana.74 Certo, il Principe potrebbe
esser considerato come un’anima bella per la sua ingenuità e il suo candore,
per la sua sprovvedutezza di fronte alle astuzie e alla malvagità degli uomini,
per la delicatezza dei suoi sentimenti e la gentilezza della sua indole, per la
sua natura disinteressata e soccorrevole, nonché per la sua fiducia che si
possano render migliori gli uomini; ma vi sono in lui altri elementi, sia
d’intelligenza che di forza, che invitano a leggere in altra chiave quegli
aspetti d’innocenza e di soavità, sicché ne risulti confermata l’idea di
considerarlo come simbolo del Cristo.
Lo stesso Dostoevskij vuole rappresentare l’uomo bello eppure è
consapevole della difficoltà di tale rappresentazione, in quanto il bello è un
ideale e l’ideale difficilmente può essere concretizzato. Ama follemente
quest’idea, ma teme, che possa essere superiore alle sue forze. Lavorando sul
romanzo L’Idiota, Dostoevskij scrive nella lettera alla nipote Sofja Ivánova
del gennaio 1868 che l’idea principale del romanzo è quella di
rappresentare una natura umana pienamente bella. Non c’è nulla di più
difficile al mondo, specialmente oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto russi,
ma anche gli europei, che si sono dedicati alla rappresentazione di un
carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare.
Come scrive Dostoevskij, al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e
positivo: Cristo, tantoché l’apparizione di questo personaggio
smisuratamente, incommensurabilmente bello, costituisce naturalmente un
miracolo senza fine. Tutto il Vangelo di Giovanni è concepito in questo
senso: egli trova tutto il miracolo nella sola incarnazione, nella sola
apparizione del bello. Secondo lo scrittore russo, tra tutti i personaggi
umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è
rappresentato da Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente
perché è allo stesso tempo ridicolo. Nel lettore si determina un sentimento
di compassione nei confronti del personaggio umanamente bello che viene
deriso e che non è cosciente del proprio valore, questo genera un sentimento
di simpatia verso di lui. Dostoevskij conclude la lettera affermando che il
segreto dell’umorismo consiste appunto nel provocare la compassione.75 In
un’altra lettera scritta da Ginevra ad Apollon Majkov il 31 dicembre 1867,
Dostoevskij manifesta l’inquietudine suscitata dall’idea di rendere il
protagonista del romanzo un debole, ma è scettico perché si tratta di un’idea
troppo complessa e non si sente pronto ad attuarla, sebbene gli appaia
straordinariamente seducente.76
Basta conferire sin dall’origine a questo personaggio un’aura di
ambiguità, tanto più che la soluzione inventata da Dostoevskij geniale sul
piano artistico e incomparabilmente profonda sul piano filosofico e religioso
fu di fare del principe Myškin il simbolo del Cristo. Il principe Myškin è
diverso e straniero, in quanto partecipa dell’Eterno. Ciò non fa che
aumentarne l’enigmaticità e l’ambiguità, se non altro con l’assegnargli sia
una vita terrestre, che una identità celeste, capace di caricarne ogni minimo
aspetto d’una risonanza trascendente e di un significato ulteriore. Nel
mondo quotidiano egli è uno sciocco che ha la peggio, mentre nel mondo
superiore è un sapiente vittorioso: da questa sua doppia natura, fra l’altro, le
ambigue reazioni ch’egli suscita, sia di attrazione che repulsione, di amore e
odio, di stupore e scherno, di ammirazione e irritazione, di entusiasmo e
insofferenza.77
Peter Sloterdijk, affermando il ruolo cristologico di Myškin, caratterizza il
protagonista del romanzo affermando che nei normali sistemi angelotici, il
redentore si presenta davanti agli uomini come un informatore metafisico e
li scuote con un messaggio penetrante, assumendo un’attitudine di forza che
deriva dal suo essere un messaggero. Nel sistema idiotico, di contro, il
redentore è un signor nessuno, che non ha dietro di sé alcun mandante elevato.
Le sue affermazioni vengono percepite dai presenti come futilità infantili e
la sua presenza come una cosa casuale e non obbligante. Dostoevskij non
lascia alcun dubbio su questo punto. Ganja, uno dei personaggi del
romanzo, dice: «Non si faceva alcun riguardo del principe, proprio come se
fosse solo nella propria stanza, poiché lo considerava meno di zero».78 Ciò
non toglie che la presenza del principe Myškin sia la condizione iniziale di
tutti gli avvenimenti che si sviluppano nelle sue vicinanze; questi catalizza in
maniera decisiva i caratteri e i destini di quelli che lo incontrano. In quanto
non-messaggero egli risolve, attraverso un metodo impenetrabile, i problemi
dell’accesso all’interiorità del suo prossimo. sirena, angelo, il principe
schiude le orecchie degli interlocutori. Non è il suo carattere infantile, nel
senso corrente del termine, che gli apre una particolare via d’accesso verso
gli esseri umani, a parte il caso in cui si dia all’espressione infantile un senso
eterodosso. È possibile qualificare come infantile la propensione nelle
relazioni con gli altri a non mettere in gioco il proprio Sé, ma a rimanere
a disposizione quale complemento dell’altro. Quando la possibilità
dell’essere infantile così compreso si trasforma in attitudine, ci si trova di
fronte a quello che Dostoevskij ha espresso col termine “idiozia”,
espressione che, in modo evidente, può figurare come espressione di
denuncia solo nel suo uso più superficiale. Scegliendo la parola idiota quale
titolo del romanzo, Dostoevskij, come filosofo della religione e come critico
della soggettività, segna una posizione dell’Io che gli sembra nobile e
(almeno nel suo legame con gli altri) salutare, benché non possa essere in
alcun modo ricondotta a una capacità angelotica. Interessante quando Peter
Sloterdijk sottolinea, che il soggetto idiota è evidentemente colui che può
comportarsi come se fosse non tanto se stesso, quanto il doppio di e,
potenzialmente, il complemento intimo di tutti quelli che incontra.79
E ch’egli sia realmente il simbolo del Cristo è ribadito dalle molte
somiglianze che lo avvicinano a lui: come il Cristo egli è mite e mansueto,
umile e compassionevole, infinitamente capace di perdono e d’amore; come
il Cristo trasforma gli uomini con la sua sola presenza; come il Cristo,
capisce e comprende tutti nel profondo del cuore, pur rimanendo per tutti
un enigma. Come la vita pubblica del Cristo è stata breve, altrettanto fugace
è l’apparizione di Myškin: emerso dall’oscurità della sua alienazione, egli
percorre una breve stagione nella chiarezza della coscienza, ma non tarda a
ricadere nelle tenebre d’una follia or mai senza cura (segno di non
appartenenza a questo mondo, in cui pure ha esercitato un’azione
indimenticabile e decisiva).80 Egli rappresenta il quadro del Cristo
vulnerabile, tuttavia resta mera figura iconica. Secondo H.U. von Balthasar,
già la sua malattia psichica ha soprattutto una funzione velante di coprire il
mistero cristiano davanti agli occhi propri e altrui.81 Hanno lo stesso
significato secondo R. Guardini gli attacchi di epilessia del
protagonista.82
Oltre queste indicazioni fatte dai noti teologi, ci sono altre caratteristiche
più evidenti, che costruiscono il quadro del Cristo il quale, per Dostoevskij
non è eroe, vittima, un capo, un vincitore. La prima cosa che
risalta subito, all’inizio del romanzo, è il fatto che il principe sia un uomo
verace e che viva nella verità fino alle conseguenze più dolorose del suo
atteggiamento. Egli non sa mentire e perciò si trova sempre nei guai, ma
questo non gli impedisce di trattare tutti gli uomini con apertura assoluta,
senza giudicarli. Ogni uomo, con il suo destino, è per lui importante. La
disposizione verso le altre persone è assoluta e viene marcata dall’oblio di se
stesso. Questo oblio si manifesta tra l’altro con il fatto che non conosce cosa
significhi in pratica possedere. Infatti, dopo aver ricevuto una grande
eredità, egli comunque preserva la sua semplicità.83
La stessa critica interpretava, a volte, questa figura a causa della
assoluta incapacità del personaggio di reagire e di difendersi – descrivendola
come una creazione artistica mal riuscita. Secondo l’intento di Dostoevskij,
invece, si tratta della vulnerabilità kenotica, che non usa la forza e non
risponde con la prepotenza alla violenza ma nell’irrilevante atteggiamento
per gli schemi umani – fornisce una risposta. Nella follia però, l’uomo, come
nota von Balthasar, si può cingere talvolta d’uno splendore di inconsapevole
e non intenzionale santità e il suo essere indifeso diventa la realtà di vita
dell’apertura verso l’altro, di realistica trascendenza.84 Analizziamo ora la
sovrana libertà interiore che permette di dominare ogni situazione e che
conferisce quel parlare franco, quella parresia, che esercitano con
disinvoltura con tutti:
Fece d’un tratto rivolto alla generalessa, «il vostro viso non soltanto mi sembra, ma sono
addirittura sicuro che siete una vera bambina, in tutto, in tutto, in tutto ciò che è buono e in tutto
ciò che è cattivo, nonostante la vostra età. Non ve la prendete se parlo così, sapete bene, infatti,
in che gran conto io tenga i bambini, e non pensate che vi abbia parlato tanto francamente dei
vostri visi solo per dabbenaggine, no, assolutamente no! Forse anch’io avevo una mia idea.85
Così, nella tradizione religiosa, l’uomo di Dio è un padre spirituale. Legge
nei cuori, ne indovina i segreti; guida e conduce alla sua conoscenza. Si può
scoprire in Myškin colui che, in modo profetico, riconcilia le nozioni del
mondo temporale e di quello sovrannaturale.86 Pertanto, molti interpreti
approfondendo l’analisi del profilo di questo personaggio dostoevskiano,
notano numerose caratteristiche che evocano in lui la somiglianza con
Cristo. Tali considerazioni nascono dalla sua limpida trasparenza del
mistero di Cristo, poiché, dietro l’esistenza di Myškin, come dice Guardini,
appare l’immagine di un’altra esistenza che non è umana: quella
dell’Uomo-Dio. Il noto teologo si chiede, se la vita dell’Uomo-Dio possa
essere tradotta in una vita umana ed essere raccontata senza che
quest’uomo cada nel ridicolo o il Figlio di Dio venga spogliato della sua
divinità? Se la nostra interpretazione non è errata, a Dostoevskij è stato
concesso di risolvere questo problema. Psicologicamente la figura di Myškin
forse è irreale. Forse un uomo come lui non può neppure esistere. Eppure è
un personaggio significativo in ogni suo atteggiamento. Lo ascoltiamo, lo
osserviamo, lo seguiamo e d’un tratto scopriamo l’unità inferiore ed entro
questa ogni aspetto particolare s’illumina; dietro quest’esistenza d’uomo si
profila l’immagine di Cristo.87
IV. LA FEDE IN GESÙ CRISTO COME RISPOSTA AL PROBLEMA DEL MALEE DELLA
SOFFERENZA
Per Dostoevskij l’uomo raggiunge la sua dimensione autentica solo amando
e volgendo lo sguardo a Cristo.88 Come abbiamo visto, solo l’idea del Figlio
di Dio sofferente può resistere di fronte all’argomento della sofferenza
inutile. La tesi principale di Dostoevskij si sviluppa sulla linea secondo la
quale, per un verso, l’umanità è liberata dalla sofferenza perc la stessa
sofferenza è portata da Dio incarnatosi sulla terra e, per l’altro verso, il
senso della sofferenza dell’umanità è la sofferenza col redentore che col suo
dolore ha soppresso quello dell’umanità. Per Dostoevskij l’accettazione della
sofferenza è solo il primo gradino di una redenzione che si raggiunge con
l’espiazione, la purificazione e infine la conversione, che mira a togliere il
peccato e le sue conseguenze. Per lo scrittore la redenzione è il risultato di
un’azione divina cui l’uomo può partecipare solo nell’umile riconoscimento
della propria colpa.89
Pavel Evdokimov afferma che secondo Dostoevskij tutte le nostre
simpatie e ricerche, anche quelle apparentemente più astratte e oggettive,
sono guidate dalla fede. Nei preziosi momenti di silenzio, quando ci
addentriamo nel deserto della nostra autoconsapevolezza e, liberi da ogni
costrizione raggiungiamo finalmente la completa sincerità con noi stessi,
solo allora la fede ci offre una risposta.90
Personalmente, ritengo che Dostoevskij sia in grado di stimolare il lettore
a una profonda riflessione alla luce della persona di Cristo come unico
Salvatore e Messia, nonché a spingere alla ricerca e alla conoscenza di colui
che è “la Via, la Verità, la Vita” (Gv 14,6). In quest’ottica la figura del
Cristo diventa non solo immagine per il cammino di fede dei personaggi
dello scrittore russo, ma anche per il cammino di fede di ogni cristiano per
entrare nella meditazione adorante del mistero di Dio Padre. A tal riguardo
vale la pena esaminare gli scritti di Dostoevskij, ascoltando anche la voce
della letteratura nella riflessione sul mistero di Dio. Nel proporre l’invito alla
riscoperta del pensiero dostoevskiano, della dimensione cristologica dei suoi
scritti, si richiamano le parole di Solov’ёv pronunciate sulla tomba del suo
amico il febbraio del 1881, quando il celebre filosofo russo caratterizza
Dostoevskij dicendo che, avendo sperimentato la forza divina nell’anima
una forza che si manifesta vittoriosa attraverso ogni infermità umana –,
Dostoevskij sia giunto alla conoscenza di Dio e del Dio-Uomo. È mediante
la forza dell’amore e del perdono universale che Dio e Cristo gli si
rivelarono nella loro realtà; e proprio per questa forza benefica che tutto
perdona – che egli ha ostinatamente predicato e proposto quale fondamento
atto a realizzare anche esteriormente sulla terra il regno della verità –, a cui
egli anelò e verso cui si protese durante l’intera sua vita.91
L’affermazione del valore della fede cristiana viene allo scrittore dalla
propria vita. Nella sua infanzia, Fëdor Dostoevskij aveva ricevuto
un’educazione religiosa, frequentato il catechismo e acquisito l’abitudine
alla preghiera. Aveva conosciuto prestissimo il Vangelo. Questo fondamento
cristiano gli rimase persino quando alla Scuola d’Ingegneria, per le sue
letture e poi per le sue relazioni, fu messo di fronte al mondo intellettuale
moderno: romanticismo, problemi metafisici e morali, dottrine politiche,
questioni sociali... La Chiesa della sua infanzia non gli aveva insegnato
soluzioni risposte, perciò a poco a poco perse i contatti con essa per
riscoprire e trovare la fede di nuovo durante e dopo kátorga (lavori forzati in
Siberia).92 A seguire, un estratto della lettera che lo scrittore scrisse a
Natalija Dmitrievna Fonvizina in cui manifesta tutta la sua fede:
Quali terribili sofferenze mi è costata e mi costa tuttora questa sete di credere, che tanto più
fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa
contrari! Ciononostante Iddio mi manda talora degl’istanti in cui mi sento perfettamente sereno;
in quegl’istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl’istanti io ho
concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è
molto semplice, e suona così: credete che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più
simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma
addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se
qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità
non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità.93
Cristo è la Verità incarnata, tanto che per Dostoevskij è un punto
assolutamente irremovibile quello che viene espresso in uno degli appunti
preparatori de IDemòni:
Molti pensano che sia insufficiente credere nella morale di Cristo, per essere cristiano. Non la
morale di Cristo, l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in
ciò, che il verbo si è fatto carne. Questa fede non soltanto è il riconoscimento mentale della
superiorità del suo insegnamento, ma spontanea inclinazione. Bisogna precisamente credere che
l’ideale definitivo dell’uomo è sempre il verbo incarnato, il dio incarnato. Poiché con questa fede
soltanto noi perveniamo all’adorazione, a quell’estasi, che più di tutto c’incatena a lui
direttamente e ha il potere di non far deviare l’uomo. Con un minore entusiasmo l’umanità forse
senz’altro avrebbe deviato, dapprima nell’eresia, poi nell’ateismo, poi nell’immortalità e infine
nell’ateismo e in uno stato di trogloditi sarebbe marciata e scomparsa.94.
Soffermandoci sulla contraddizione tra Alëša e Iván Karamazov, si evince
come per uno la sofferenza e il dolore nel mondo rafforzino la fede, mentre
per l’altro quella stessa realtà rimane incomprensibile e veicola verso
l’ateismo. Secondo Iván l’amore di Dio dovrebbe eliminare ogni sofferenza
e quindi proteggere da essa. Più volte nelle sue opere, Dostoevskij sottolinea
che solo la fede potrà colmare le lacune dell’intelletto umano, ma se
l’intelletto rimane fedele a se stesso come vediamo in Iván Karamazov –,
le lacune non si colmano e l’irrazionale resta tale.95 Senza la grazia una
preghiera innalzata a Dio non può ricevere nessuna risposta. Per tutti i
cristiani Gesù non solo ha sofferto ingiustamente, ma si è offerto a quella
sofferenza per salvarci; la sua offerta è volontaria, come atto di obbedienza e
di kenosi. Alëša ricorda a Iván che c’è un Essere che può perdonare tutto a
tutti e per conto di tutti, poiché Lui stesso ha dato il suo sangue innocente
per tutti e per tutto. Ma la replica di Alëša rimane inutile ed
incomprensibile per Iván.
L’umanità è afflitta da dolore incomprensibile, ma è altrettanto vero che il
Redentore si sia fatto carico di questo dolore sulle sue spalle (anche umane,
incarnandosi). Alëša supera lo scandalo, riconoscendo la sofferenza di
Cristo, il quale non ha spiegato la sofferenza, ma l’ha presa su di sé. Si tratta
di accettare la sofferenza, nel riconoscimento di una comunione
universale.96
La sofferenza rimane uno scandalo, Alëša non banalizza la sofferenza,
non si limita alla banale tesi che nessuno ha diritto di lamentarsi di soffrire
di fronte alle sofferenze del Cristo. La posizione di Alëša è del tutto nuova e
si fonda su due elementi: lo scandalo e il perdono. Anche Alëša si
scandalizza e non accetta il mondo, ma questa non accettazio ne non
implica la negazione dell’esistenza di Dio. Pertanto, lo scandalo può avere
due esiti: quello affrettato e semplicistico di Iván, che dallo scandalo trae
immediatamente la conclusione dell’inesistenza di Dio e quello di Alëša, per
il quale l’affermazione dell’esistenza di Dio si manifesta incorrotta e
rafforzata da questo stesso scandalo.97
1. Ateismo e nichilismo fanno parte del cammino della fede
Per Dostoevskij, chi sceglie il male ancora non è perduto. Lo scrittore ritiene
che l’ateismo contrariamente ai luoghi comuni non sia il contrario della
fede, bensì una esperienza di essa. L’ateismo e il nichilismo nell’opera
dostoevskiana non sono l’opposto della fede, ma un momento del suo
cammino. L’ateismo e il nichilismo possono costituire l’ultimo approdo, ma
possono anche essere il penultimo gradino della fede, come dirà Tichon.98
Andando invece alla riscoperta del cristianesimo al di del nichilismo,
Dostoevskij giunge a riconoscere che la sola professione di fede possibile è
quella che passa attraverso il crogiuolo nichilistico. Come fa notare Alëša,
Dio non viene a giustificare il male, ma a prenderlo su di sé. Dmitrij
Karamazov a sua volta va in Siberia a pagare una colpa non sua. Ecco la
risposta che converte lo scandalo in espiazione.99
Il nichilismo, secondo Dostoevskij, viene oltrepassato da un pensiero in
grado di contemplare entrambi gli abissi: quello che mette capo, da una
parte, alla negazione di Dio e, dall’altra, alla fede in Dio redentore.
Sostenendo questa tesi, forse Dostoevskij (per dirla alla maniera di Berdjaev)
era più avanti rispetto all’ateismo di Nietzsche.100
2. L’amore che fa parte del cammino della fede
Dopo l’ateismo e il nichilismo non si può dimenticare che soprattutto
l’amore, come carità cristiana, fa parte del cammino della fede. Nella
conclusione della Leggenda del Grande Inquisitore Gesù rimane muto a tutte le
accuse rivoltegli. La sua risposta è un mite silenzio, accompagnato da un
profondo gesto d’amore, un bacio che oltrepassa il linguaggio euclideo del
Grande Inquisitore. L’unica risposta per il Figlio di Dio è riaffermare
l’amore, solo l’amore ha una vera forza affermativa. Cristo non può che
rispondere che con un bacio, ribadendo l’amore di cui incarna il messaggio.
Il silenzio appare qui come la qualità ontologica del bene contro cui la
rumorosità del male sembra infrangersi, il bacio come parola gestuale che
vanifica tutto il discorso del Grande Inquisitore. Il bacio di Dio significa il
suo operare nella storia, la fedeltà di Dio all’uomo nonostante le sue
infedeltà e che sempre rimane aperta la via alla conversione e alla
salvezza.101
Ovviamente, per il pensiero razionale, tutto questo è assurdo: l’amore
come dirà Zosima è una forza potentissima, ma al contempo difficile da
vivere.102 L’amore attivo richiede uno sforzo, ma solo l’amore realizza il
paradiso in terra, la comunione universale. Lo scrittore russo è convinto che
l’uomo possa realizzare se stesso e trovare la felicità soltanto nell’amore per
il prossimo, nel donarsi agli altri. In Iván manca l’umiltà del cuore, come
osserva giustamente Guardini, che potrebbe aprire all’amore e risanare la
frattura nata in lui a causa della giustizia di Dio.103 Fëdor Dostoevskij
dimostra nel suo racconto Il sogno di un uomo ridicolo, che solo attraverso la
sofferenza noi possiamo amare.104
Il metropolita Antonij Chrapovickij sottolinea che, secondo Fëdor
Dostoevskij, la nostra capacità di amare viene dalla forza e dalla vita divina.
Antonij fa presente che per lo scrittore la carità non è soltanto uno stato
d’animo personale, ma una cosmica e divina forza, la vita di Dio, vibrante
nei cuori di coloro che amano i fratelli e, tramite essi, pulsante in coloro che
sono amati. Tale carità non esiste fuori di Dio ed è data solo a quelli che
credono nella Sua esistenza e beatitudine; tuttavia essa, nella coscienza del
credente, si manifesta come la più basilare legge della vita.105
Nel caso di Dostoevskij è chiaro che la tessitura dei discorsi religiosi è
fatta con un unico ago, da identificare con il Vangelo sulla bontà infinita di
Dio, ossia con la verità su Dio che nel Cristo umile e povero si è
manifestato come Amore universale, misericordioso e compassionevole. I
toccanti insegnamenti dello starec Zosima de I Fratelli Karamazov sono, da
questo punto di vista, una giustificazione proprio dell’unificante
ermeneutica della carità che lo scrittore russo, in molte altre occasioni, ha
riconosciuto come il suo credo, la sua personale concezione della fede
cristiana.106
3. Divinizzazione attraverso la kenosis
Un’altra risposta allo scandalo della sofferenza e del dolore è la
divinizzazione dell’uomo attraverso la kenosis, che diventa una via per la
salvezza. La kenosis biblica diventa la manifestazione massima del cuore di
Dio, della sua compassione filantropica che rende possibile la divinizzazione
dell’uomo. Il tema della divinizzazione dell’uomo nasce in Dostoevskij
attraverso il contesto della religione e teologia ortodossa russa, che proviene
daiPadri Greci, dovediventa dominante l’idea che la grazia di Dio opera
una divinizzazione (théiosis, theopóiēsis) dell’uomo. La totale divinizzazione
dell’uomo in Dostoevskij è possibile attraverso l’annientamento kenotico.
L’uomo nell’annientamento della propria personalità si rende disponibile
interiormente e lascia lo spazio necessario all’iniziativa di Dio.
Quest’esperienza dell’incontro e della compenetrazione dell’umano con il
divino è stata ben messa in risalto da Dostoevskij nei suoi ultimi romanzi:
nell’assassino Raskolnikov, nel violento Dmitrij Karamazov e anche nei
personaggi positivi: l’innocente Alëša, nel santo starec Zosima, nell’umile
Sonja e nella figura del principe Myškin. In questi personaggi si possono
facilmente riscontrare alcuni elementi della spiritualità dei grandi santi russi
la cui vita è stata modellata sul Cristo kenotico.107
L’annientamento kenotico è possibile grazie alla precedente umile apertura
a Dio. Tutte le conversioni dei personaggi dostoevskiani non avvengono
secondo una modalità intellettuale, ma iniziano con l’umilenie
(l’intenerimento evangelico), che rende possibile la compenetrazione
dell’umano con il divino. Il protagonista di Delitto e castigo, inizialmente senza
dubbio, esprime qualcosa del superuomo di Nietzsche108 e sembra rivelare
in alcuni momenti la sua futura, addirittura perfetta incarnazione. Egli
tuttavia nel suo incontro dell’umano con il divino non resiste più,
abbandona la sua anteriore teoria di fronte al Trascendente. Raskolnikov
nella conversione sulla via dell’annientamento kenotico si apre a un’altra
teoria (divinizzazione) ed ha ben altro da comunicare.109
Soltanto la kenosis permette piena divinizzazione, rendendo possibile la
trasparenza divina nell’uomo. La risurrezione e la vita nuova cominciano in
Dostoevskij quando l’uomo sa accettare la croce, come l’espressione
massima dell’annientamento kenotico di Cristo. Nell’abbassamento di Myškin
e nel vivere la stessa esperienza da parte di Alëša, di Sonja, di Dmitrij, dello
starec Zosima, l’autore ribadisce la verità fondamentale della nostra fede
che il Cristo si è fatto dono dell’amore di Dio Padre per gli altri. Così
descrive l’evento della divinizzazione Pavel Evdokimov:
La concezione di Cristo come ideale dell’uomo non è altro che un’affermazione della realtà
concreta dell’uomo che vive ένΧριστω. Non ha nulla in comune con la concezione moralistica.
Non si tratta dell’imitazione ma dell’incarnazione dell’immagine di Cristo, della théosis e per
questa l’uomo deve morire e nascere di nuovo come il «chicco di grano» dell’epigrafe dei fratelli
Karamazov. La teonomia non accoglie così l’idea di un dato nel senso naturalistico: il regno dei
cieli è dentro di noi, nell’umiltà, nel possesso del proprio io liberato, nella vittoria
sull’egocentrismo.110
Secondo Dostoevskij, nell’esperienza dei limiti umani (forgiati dalle espe
rienze morali e psichiche negative) si attiva tutta la sfera dei valori religiosi
che suscitano nell’uomo dotato della libertà, la concreta decisione
d’immergersi con la propria esistenza nella vita in Dio. Egli ha affidato
all’uomo non soltanto la possibilità di scegliere tra bene e male, ma gli è
andato pure incontro, offrendogli il suo amore ed aspetta che l’uomo lo
accetti liberamente: nel caso di risposta positiva, l’uomo scopre che tutta la
sua esistenza, in connessione con gli altri, è nelle mani di Dio. Proprio
attraverso la sofferenza, catartico cammino di purificazione, l’uomo
possedendo dentro di la grazia giunge allo stato di essere divinizzato. Tra i
vari personaggi, che evidentemente dimostrano questa logica nell’opera di
Dostoevskij, desta la nostra attenzione la persona di Markel, il fratello
maggiore dello starec Zosima. Egli aveva diciassette anni, quando soffrendo
di tisi aveva vissuto l’esperienza della conversione spirituale (trasformazione
questa che anche i vicini avevano notato, sostenendo che la malattia gli
stava prendendo il cervello). Non è possibile citare tutto ciò che il
moribondo aveva detto negli ultimi giorni, ma erano parole che
provocavano veramente stupore: «Non piangete, la vita è un paradiso, e noi
siamo tutti in paradiso, solo che non vogliamo vedere, ma se volessimo
vederlo, domani stesso tutto il mondo diventerebbe un paradiso».111
Come conferma Vladimir Solov’ёv, l’umanesimo di Dostoevskij poggia la
sua consistenza sul fondamento mistico sovrumano del vero cristianesimo. E
proprio così, in quanto cristiana, si mette in evidenza la sua riflessione
antropologica, racchiusa nell’opera artistica. Essa condiziona soprattutto il
suo pensiero etico e morale. Il vero cristianesimo nell’ambito del discorso
morale significa per lui la decisa opposizione alla morale autonomistica,
significa che la morale è fondata sulla conversione e sulla rinascita religiosa
dell’uomo e che unico criterio della salvezza dell’uomo e della sua morale
può essere solo Cristo.112
4. Riconciliazione con la Madre Terra
La vittoria sul male si svolge per la riconciliazione con Dio. Qui ci troviamo
di fronte a una bellissima supposizione, la quale nell’esperienza religiosa
russa lega la riconciliazione con Dio nel rapporto con la Madre Ter ra.
Tante religioni consideravano la terra come santa e madre di tutti,113 ma
Dostoevskij scopre questo concetto anche nel cristianesimo: l’uomo, prima
di riconciliarsi e di ristabilire il suo rapporto con Dio è chiamato a
riconciliarsi con la terra. L’inchino verso la terra precede l’inchino verso
Dio Padre che perdona l’uomo. Con il delitto la terra viene macchiata di
sangue, di conseguenza viene offesa l’opera creatrice di Dio. In questa
prospettiva la terra assurge a simbolo di tutta la creazione, ma non è ad essa
rivolta l’espiazione, bensì alla sua santità d’incorrotta opera divina. Un
abbraccio profondo ed umile con la terra è il momento culminante della
conversione di Raskolnikov.114 Chiedere perdono alla terra è anche chiedere
il perdono al popolo che per Dostoevskij è l’assioma dell’unità universale.
Chiedere perdono significa ritrovare la propria dimensione dell’essere
umano. Dio è il creatore e le origini della vita si trovano in Lui, quindi
l’uomo non può che riconoscersi come sua creatura. Si evince anche una
fortissima trasformazione spirituale attraverso la riconciliazione con la Madre
Terra di Alëša, descritta nel romanzo I Fratelli Karamazov:
Il silenzio della terra sembrava fondersi con quello del cielo, il segreto della terra faceva tutt’uno
con quello delle stelle… Alëša stava in piedi, ad osservare la notte, quando ad un tratto si gettò di
colpo per terra. Non sapeva perché stesse abbracciando la terra, non si spiegava perché
desiderasse così irrefrenabilmente baciarla, eppure la baciava, piangendo, singhiozzando, la
irrorava con le sue lacrime e giurava appassionatamente di amarla, di amarla nei secoli dei secoli.
“Irrora la terra con le lacrime della tua gioia e amale quelle tue lacrime…” risuonò dentro di
lui […] Quando era caduto a terra era un giovane fragile, ma quando si alzò era ormai un
guerriero risoluto per tutta la vita, questo lo avvertì subito, ne fu subito consapevole, in quello
stesso momento di estasi. E mai, mai nel corso della sua vita, Alëša poté dimenticare
quell’istante. “Qualcuno visitò la mia anima in quell’ora”, diceva credendo fermamente alle
proprie parole.115
La trasformazione spirituale di alcuni personaggi di Dostoevskij è il risultato
di una drammatica lotta interiore, che passa attraverso l’accettazione della
sofferenza, uno dei temi fondamentali dell’opera dostoevskiana. Lo scrittore
accoglie la tradizionale dottrina cristiana del dolore, scavandone
l’insondabile profondità. È bellissima la descrizione della conversione di
Raskolnikov, quando le ultime parole del romanzo Delitto e castigo superano
l’intera opera dicendo che “qui comincia un’altra storia...” passaggio
graduale da un mondo ad un altro. E Raskolnikov, tira fuori un vangelo da
sotto il suo giaciglio di galeotto:
Ma egli era rinato e lo sapeva, lo sentiva con certezza in tutto il suo essere rinnovato; e lei, lei
non viveva che della vita di lui! […] Sotto il suo guanciale c’era il Vangelo. Lo prese
macchinalmente. Quel libro apparteneva a lei, era lo stesso dal quale lei gli aveva letto i versetti
sulla resurrezione di Lazzaro […] Ma qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della
rinascita di un uomo, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a
un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente
ignorata. Potrebbe essere l’argomento di un nuovo racconto; ma il nostro, intanto, è finito.116
Vale la pena di prestare l’attenzione al cambiamento (conversione) di
Dmitrij – uno dei fratelli Karamazov: questo rinnovamento interiore, questa
trasformazione spirituale è il risultato di una lotta profonda e drammatica
entro se stessi. Non a caso lo starec Zosima si inchina di fronte a Dmitrij,
presentendo il profondo dolore che l’attende. Inizia a nascere in Dmitrij un
uomo nuovo, come dichiara al fratello Alëša, un uomo pronto a cantare un
inno non solo alla gioia, ma alla gioia in Dio. Dal vecchio Dmitrij
Karamázov è nato un uomo nuovo. Tali parole verranno rivolte dallo starec
Zosima a Dmitrij, infatti, è proprio quest’ultimo personaggio a subire nel
corso del romanzo l’evoluzione più ampia. La trasformazione dello spirito è
forse il segreto più intimo suggerito dalle opere di Dostoevskij:
Fratello, in questi due mesi, nel mio intimo, mi sono sentito un uomo nuovo, in me è risorto un
uomo nuovo! Era rinchiuso dentro di me, ma non si sarebbe mai manifestato se non fosse stato
per questo colpo. […] Si può far rinascere e risuscitare in quell’ergastolano un cuore raggelato, si
può curarlo per anni e portare dal buio alla luce un’anima sublime, una coscienza sofferente, si
può dare la vita a un angelo, resuscitare un eroe! E ce ne sono molti, a centinaia, e noi siamo
tutti colpevoli per loro! Altrimenti perché avrei sognato quella “creatura” proprio in quel
momento? “Perché è povera quella creatura?” È stata una profezia per me in quel momento! È
per quella “creatura” che sono pronto ad andare. Perché siamo tutti colpevoli per tutti gli altri.
Per tutte le “creature”, percci sono i bambini piccoli e quelli adulti. Sono tutte “creature”. Ci
andrò per tutti, poiché qualcuno ci dovrà pure andare. Non ho ucciso nostro padre, ma devo
andare. Lo accetto! […] Rakitin mente: se cacciassero Dio dalla terra, noi gli daremmo rifugio
sottoterra. È impensabile che l’ergastolano viva senza Dio, persino più impensabile che per un
uomo libero! E allora noi, uomini del sottosuolo, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico
inno a Dio, presso il quale è la gioia! Evviva Iddio e la sua gioia! Io lo amo!117
La possibilità di rinascere si offre all’uomo, ecco perché l’ultima parola
dostoevskiana non può essere negativa. Non la sconfitta, non le risate
beffarde sull’uomo ingannato dal diavolo, ma la parola vittoriosa che è
incomprensibile, resurrezione è l’ultima parola dei suoi romanzi. In questo
senso Dostoevskij, come sottolinea Berdjaev, deve essere considerato un
immanentista nel senso più profondo: nell’uomo e attraverso l’uomo si
raggiunge Dio.118
5. La bellezza salverà il mondo
Pare che sia proprio Dostoevskij ad offrire alla cultura contemporanea la
possibilità di un ripensamento teologico della bellezza. Egli ha saputo
descrivere in un modo straordinario l’antinomicità della bellezza tra la
possibilità della salvezza e quella rischiosa seduzione demoniaca.119
Nei libri del nostro autore possiamo vedere che i bambini, le donne come
Sonja Marmeladovna e Sonja Andrejevna, alcuni monaci ed altri
rappresentanti del popolo, sono mostrati con una bellezza spirituale che è
tale proprio per la vicinanza di questi all’ideale di Cristo. L’esperienza del
Cristo attraverso la bellezza è radicata fortemente in Dostoevskij: non
dimentichiamo che questi è un uomo dell’Europa orientale. Non è dunque
strano che questa esperienza resti legata all’esperienza dei cristiani orientali,
trovandosi dinanzi ad una icona. Padre Zosima, Tichon, Makarij e Sonja ad
un primo sguardo, vivono come all’ombra dei protagonisti presenti in primo
piano nei romanzi dostoevskijani. Tuttavia proprio queste persone,
attraverso la bellezza spirituale, possono essere definite iconiche perché,
secondo Dostoevskij, sono specchio e trasparenza della divina bellezza. Esse
proprio per la forza della loro bellezza interiore silenziosamente
illuminano, danno un senso di pace, aiutano gli altri a ritrovare la strada
giusta per uscire dalla tragicità del peccato.
Nel romanzo I Demoni, Fëdor Dostoevskij mostra il suo atteggiamento nei
riguardi della bellezza: l’autore sostiene che l’umanità possa fare a meno dei
popoli, della scienza e del pane, soltanto la bellezza le è indispensabile,
perché senza bellezza non ci sarebbe più motivo di stare a questo mondo.120
In queste parole Dostoevskij, esprime il fascino misterioso della bellezza.
Ma questa bellezza, come ben reso evidente dallo scrittore, ha anche il
suo opposto: talvolta è tentatrice e fa perdere l’uomo. L assassino Pёtr
Verchovenskij afferma che «anche i nichilisti amano la bellezza».121 Pavel
Evdokimov sottolinea questo problema, quando afferma che Dostoevskij
evidenzia la profonda disgregazione dell’uomo: non solo la ragione si separa
dal cuore ma nel cuore stesso si spalanca l’abisso. Non solo la bellezza si
manifesta al di del bene e del male, ma anche il male può assumere le
sembianze della bellezza attraendo l’uomo, rendendolo indifferente al bene
e al male, costringendolo a contemplare questa bellezza.122
Possiamo dire che anche la bellezza, che secondo Dostoevskij è l’unica
cosa che può salvare il mondo, sia duplice e ambigua. Attraverso la bellezza
l’umanità si concilia con l’essere sul piano cosmico, spirituale, metafisico e
religioso. Dall’altro, però, la bellezza può portare alla perdizione, in quanto
anche i demoni sanno trovarvi una forza in grado di rovesciare il mondo. La
bellezza può diventare una forza con cui nutrire passioni demoniache e
perverse, una tentazione turbinosa e bruciante, una potenza tenebrosa e
sotterranea. Dmitrij Karamázov è infatti ben consapevole della tremenda
antinomia della bellezza, segno di contraddizione e di lotta, capace
d’innalzarsi sino al celeste ideale della Madonna o di degradarsi sino alla
potenza infernale di Sodoma.123 Per affermare questa ambiguità si può
prestare attenzione alle parole di Hans Urs von Balthasar quando dice: «La
bellezza nel senso di Dostoevskij significa: essa non è affatto una chiara
trasparenza del divino, può essere altrettanto bene una maschera del divino
e un sacramento del diavolo».124
Anche Luigi Pareyson rileva la duplicità e l’ambiguità della bellezza, in
quanto essa può far perdere o salvare. D’altro canto però, la bellezza può
anche essere oggetto di perdizione. L’uomo vi può trovare non la salvezza,
ma una forza con cui alimentare le sue passioni demoniache e perverse; non
l’armonia, non l’ideale, ma una potenza oscura e tenebrosa. Anche i
demoni amano la bellezza. Pertanto, l’ambiguità della bellezza apre un
abisso nel cuore dell’uomo. Non solo la bellezza è posta al di del bene e
del male, ma il male stesso prende l’aspetto della bellezza, e inganna l’uomo
rendendolo indifferente alla distinzione fra bene e male.125
La maschera ingannatrice della bellezza in Dostoevskij viene attribuita
anche alle donne: nel romanzo L’Idiota, Aglaja Ivánovna possiede una
bellezza mediocre, mentre Nastas’ja Filippovna rappresenta la bellezza
seduttrice, demoniaca, che attrae a Rogozin svegliando in lui una folle
passione e suscitando al tempo stesso in Myškin una sconfinata pietà.
Nastas’ja è la figura tipica della profonda ambiguità del volto della bellezza.
La bellezza, per lo scrittore russo, non è soltanto una maschera d’apparenza
o qualche illusione soggettiva, ma è una dimensione ontologica che
appartiene al mistero dell’essere.126
6. La concezione della bellezza come mezzo per la salvezza in Dostoevskij
Quando si parla della bellezza, comunemente si cita la famosa frase di
Dostoevskij, ormai entrata in tutti campi della cultura: «La bellezza salverà
il mondo».127 È proprio Solov’ёv, amico dello scrittore e suo “padre
spirituale”, a fornire il giusto significato del pensiero dostoevskiano nei Tre
discorsi in memoria di Dostoevskij. Vladimir Solov’ёv afferma che Dostoevskij,
essendo un uomo religioso, fu un pensatore pienamente libero e al
contempo un artista potente. Nelle sue convinzioni egli non separò mai la
verità dal bene e dalla bellezza: secondo lui il bene, se diviso dalla verità e
dalla bellezza è soltanto un sentimento indefinito, un impulso privo di forza.
La verità astratta è una parola vuota. La bellezza senza bene e senza verità è
soltanto un idolo. Ma per Dostoevskij questi erano soltanto tre aspetti
indivisibili d’un idea assoluta. L’infinità dell’anima umana rivelatasi in
Cristo, di quell’anima che è capace di accogliere in tutto l’infinito della
divinità: quest’idea costituisce a un tempo il bene più alto, la verità più alta
e la bellezza più perfetta. La verità, il bene, così com’esso è pensato
dall’intelletto umano. La bellezza è quello stesso bene e quella stessa verità,
materialmente incarnata in una forma viva e concreta. E la sua piena
incarnazione si trova nel mistero del Verbo Incarnato; ed ecco perché
Dostoevskij ha detto che la bellezza salverà il mondo.128 La bellezza che
salverà il mondo è la fede in Gesù Cristo come Verbo Incarnato. Questa tesi
penetra l’opera di Dostoevskij, ma come una musica di sottofondo: più che
gridarla, la presuppone. Senza di essa, il messaggio dostoevskiano risulta
impoverito, inconsistente e superficiale.129
Dostoevskij tante volte sottolinea, che non la morale e l’insegnamento di
Cristo (come crede Tolstoj) salveranno il mondo, ma la fede nel Verbo che si
è fatto carne.130 Possiamo dire che questa bellezza salvifica, di per
inaccessibile, sia legata ad una singolarità che, sola, può darci veramente
l’ideale: Cristo. Il tema tradizionale della bellezza e della sua inesprimibilità
si collega così all’altro tema centrale di Dostoevskij: quello di Cristo come
realtà personale unica e concreta, nella quale è dato in maniera irripetibile il
significato universale della storia. Il legame tra la bellezza e Cristo è
anch’esso uno dei temi più ricorrenti in Dostoevskij da quando, nel 1854,
scrive alla signora Fonvizina che «non esiste nulla di più bello, di più
profondo, di più ragionevole e perfetto di Cristo»;131 da questo momento
l’identificazione di Cristo e della bellezza viene ribadita continuamente e
costantemente approfondita nei taccuini, nelle lettere e nelle opere
letterarie: «Cristo è l’incarnazione della bellezza dell’ideale dell’umanità»,132
come si legge in una bozza di articolo del 1865; è «l’ideale della bellezza»133
e come si precisa poi in una lettera del 1876; così che il mondo diventerà la
bellezza di Cristo, secondo quanto si dice in uno degli appunti preparatori
per I Demoni.134
Secondo lo scrittore la Verità, il Bene e la Bellezza rappresentano una
triade metafisica dell’Uno il Cristo. Anche Pavel Evdokimov alla
domanda: «Quale bellezza salverà il mondo?» risponde che se il bello è ciò
che è normale e sano, già nell’idiota Myškin dichiara che la bellezza è un
enigma. Se è vero che la bellezza salverà il mondo, Ippolit si domanda quale
bellezza. La bellezza, nel mondo, ha il suo doppio: essa non solo si offre, ma
può rappresentare una tentazione, perc anche i nichilisti amano la
bellezza, come pure l’assassino Pétr Verchovenskij. Nel suo colloquio con un
giovane contadino sulla bellezza del mondo e il suo mistero, Zosima sostiene
il concetto dell’ispirazione infusa e insita in tutto il creato, che ogni creatura
aspira al Verbo. Tale ispirazione consente di cogliere la vocazione del
mondo, immaginandone una sintesi in cui tutto respiri la pace, la preghiera
e tutto è buono e magnifico perc tutto è verità.135 In questo senso la
bellezza può salvare il mondo con l’incarnazione del Verbo di Dio. Egli è
l’immagine pu rissima dell’Uomo-Dio, (come dice Dostoevskij) la sua
insuperabile altezza morale, la sua divina e miracolosa bellezza.136
Procedendo in questa luce, si può rilevare che per Dostoevskij il Verbo
Incarnato è l’immagine suprema della bellezza.137
Si coglie nell’ermeneutica del pensiero di Dostoevskij la concezione
soteriologica della bellezza. “La bellezza salverà il mondo” dice
Dostoevskij, per lui è la Bellezza del Figlio di Dio, che è l’immagine del
Padre-Sorgente della Bellezza, rivelata dallo Spirito della Bellezza. Si tratta,
quindi, della Bellezza trinitaria contemplata nella Persona del Verbo
Incarnato. Per questa ragione il problema della bellezza in Dostoevskij si
presenta come quello teologico, poiché il bene e il male, prendendo in
considerazione soprattutto la sua ultima opera I fratelli Karamazov, non
esistono fuori della Chiesa. Essi sono in riferimento al Cristo e alla venuta
del Regno di Dio. In questa prospettiva la bellezza, nel suo enigma, tocca il
problema del bene e del male, non tanto in rapporto all’individuo e alla sua
condotta, quanto in rapporto alla salvezza del mondo. Solo nel Cristo la
bellezza ritrova il suo volto autentico, l’immagine perfetta di Dio e la
ricchezza della bellezza in sé. Per Dostoevskij, quindi, non sarà la bellezza
teatrale quella estetica a salvare il mondo, ma la bellezza salvifica.
L’esperienza della bellezza è un’esperienza cristiana di fede. La forza della
Bellezza è l’amore del Cristo kenotico che si dona e salva il mondo.138
Già abbiamo visto che la pienezza della bellezza per Dostoevskij risiede
nel Verbo Incarnato. Egli stesso afferma esplicitamente, che solo il Cristo
recava in se stesso e nella Sua Parola l’ideale della Bellezza. Dai suoi scritti
traspare una bellezza particolare del Cristo così luminosa e intensa, da
mettere in rilievo anche il suo aspetto fisico, come il più bello tra i figli degli
uomini.139 La bellezza è un’entità potente e misteriosa come la vita.
Definirla è difficile, come è difficile definire la vita. La sua origine è ignota e
inesplicabile, ma ha la sua esistenza organica propria e solida. Di fronte alla
bellezza, Dostoevskij ha sempre provato ammirazione e inquietudine,
poiché essa è nella vita e nella natura, ma esercita il suo potere sull’uomo.
Questa bellezza è armonia e regno di pace: ciò di cui l’umanità ha più
bisogno per sopravvivere, più del pane e del progresso. La bellezza è il
principio estetico come dicono i filosofi il principio morale, la ricerca di
Dio, una forza che muove le nazioni. In conclusione di questo intervento
faccio mie le parole di Dostoevskij: la Bellezza salverà il mondo!
V. CONCLUSIONE
Certamente, come si è già rilevato parlando di Dostoevskij, non si tratta di
dare un contributo vero e proprio alla ricerca teologica, ma di muoversi
nell’ambito della riflessione teologica inserita nel campo creativo della
letteratura. È evidente che la sua opera non è un trattato dogmatico,
un catechismo: è il riflesso nell’anima cristiana di un artista geniale dei
tormenti della sua fede, della follia del suo tempo, delle intuizioni del suo
profetismo. Inutile, pertanto, cercare in lui un sistema dottrinale: non ne era
neanche capace. Come tutti i grandi scrittori, Dostoevskij intuisce a volte
dopo lunghi tormenti interiori talune verità di Dio e dell’uomo e le
esprime in maniera convulsa, ipostatizzandole in personaggi che spesso sono
pensieri viventi.140
Si evince che per Dostoevskij non esiste una facile spiegazione alla
sofferenza, ma l’unica risposta che può essere data al problema del dolore è
la sofferenza di Dio. Il problema di Dio ha veramente tormentato tutta la
vita Dostoevskij, così come tormenta i suoi personaggi più tragici e continua
a tormentare i suoi lettori più partecipi. Pertanto, la concezione teologica di
Dostoevskij non è troppo ottimistica, perché non minimizza la realtà della
sofferenza nella vita umana, ma non è nemmeno propriamente pessimistica,
perché non afferma l’insuperabilità del male nel mondo, ma piuttosto
proclama la vittoria finale (escatologica) del bene. Allo scandalo della
sofferenza inutile del puro paziente, Alëša Karamazov contrappone lo
scandalo del Redentore, cioè del Figlio di Dio che soffre e muore. Si deve
sottolineare che Dostoevskij nei suoi romanzi ribadisce la fede come aspetto
fondamentale: l’uomo risorge a vita nuova solo quando crede in Dio.
Nel processo catartico di Dostoevskij, che conduce alla resurrezione, è
importante che l’uomo abbia un atteggiamento di apertura alla Bellezza.
Questo, nella tradizione ortodossa della teologia della bellezza nella quale si
muoveva Dostoevskij, può indicare soltanto una cosa: Dio stesso. Da
proviene la famosa formula dostoevskiana, secondo cui la bellezza salverà il
mondo. Di conseguenza, dall’opera dostoevskiana una soluzione viene
offerta: solo amando e volgendo lo sguardo a Cristo l’uomo raggiunge la sua
dimensione autentica.
Su Dostoevskij sono stati scritti numerosi volumi e l’interesse verso di lui
non diminuisce nel tempo: la sua narrativa attira sempre nuovi lettori. Si
scorgono in essa sincerità e coraggio nella ricerca di Dio, un profetismo che
prevede e avverte, una metafisica che aiuta a salvarsi dalla disperazione,
poesia sulla drammaticità della vita umana e, soprattutto, una teologia che
presenta Cristo amante, che nelle tenebre dello spirito umano porta la luce
della nuova vita in Lui. Vale la pena di continuare a cercare nuove
prospettive nell’eredità di Dostoevskij, perccomprenderla significa anche
capire noi stessi. Tutta l’opera di Fëdor Dostoevskij termina con un inno di
speranza. I suoi romanzi, in generale, non sono altro che un canto di
speranza, poiché l’orrore in cui siamo immersi non è l’inferno. Dostoevskij è
il profeta di una vita nuova.141
1 Melchiorre Cano (1509-1560) concepiva la teologia come riflessione che trova le proprie fonti in
«luoghi» specifici, dentro la Chiesa e fuori della Chiesa, al fine di «trovare» (inventio) la verità. Questi
luoghi, nella riflessione del teologo diventano tutti «teologici», servono cioè a pensare criticamente la
fede. I luoghi, per Cano, erano dieci: i libri canonici della Sacra Scrittura, la tradizione orale di Cristo
e degli apostoli, la Chiesa universale, i concili, la Chiesa romana, i Padri, i teologi, la ragione naturale,
i filosofi, la storia umana. Ma l’aspetto più innovativo della sua concezione stava nel fatto che i luoghi
teologici non devono essere intesi solo come serbatoio di argomenti, ma devono essere compresi
altresì come articolazione della struttura ecclesiale nelle sue varie componenti. Nei luoghi teologici si
manifesta, cioè, il dinamismo strutturale della compagine ecclesiastica attraverso l’interazione di tutti
i luoghi-soggetto che compongono la Chiesa. L’intelligenza teologica non è quindi compiuta dal solo
magistero o dal singolo teologo o dall’esegeta o anche dai soli concili e via dicendo, ma è il risultato
dell’azione spesso dialettica dei vari luoghi, e ultimamente dei vari soggetti, secondo il peso proprio di
ognuno (Cfr. G. RUGGIERI, Chiesa sinodale, Editori Laterza, Bari 2017, 25-26); cfr. «Com’è noto,
l’opera di Dostoevskij rappresenta per i lettori di tutti i continenti, studiosi di letteratura o dilettanti
appassionati di opere letterarie, una straordinaria occasione di sperimentare, nei propri cuori, il
risveglio dell’intuizione teologica, di imparare sempre nuovamente e da vicino le profondità
trascendenti della vita e a “pensare teologicamente”» ( L. ŽAK, «Il romanzo come teologia». Pensare e dire la
fede in dialogo con Dostoevskij, in F. BERGAMINO [a cura di], Dostorevskij. Abitare il mistero, Edusc, Roma
2017, 44).
2 Cfr. ŽAK, «Il romanzo come teologia», 37-38.
3 Cfr. N. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, tr. it. di B. Del Re, Giulio Einaudi editore, Milano 1977,
92.
4 F.DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo, 5 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], in 30 vol. (vol. I-XVII
opere narrative, vol. XVIII-XXX lettere e articoli), Leningrado1972-1986, 83, (tr. nostra).
5 Cfr. F. BARONCINI, La libertà in Dostoevskij, https://www.meetingrimini.org/wp-
content/uploads/2020/12/dostoevski.html> (consultato in data 10-XII-2023).
6 F.DOSTOEVSKIJ, Il giocatore, 5 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 224, (tr. nostra).
7 Ibidem, 292, (tr. nostra).
8 IDEM, L’adolescente, 13 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 48, (tr. nostra).
9 Ibidem, 74, (tr. nostra).
10 IDEM, Delitto e castigo, 6 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 200, (tr. nostra).
11 Ibidem.
12 Ibidem, 322, (tr. nostra).
13 IDEM, “I Demoni”, 10 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 94, (tr. nostra); cfr. Lettera scritta ad
Apollon Majkov il 25 marzo 1870, in IDEM, Lettere. 1832-1859, 29 vol., libro I, [“Polnoe sobranie
socinenij”], 117.
14 IDEM, “I Demoni”, 10 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 470, (tr. nostra).
15 Ibidem, 471, (tr. nostra).
16 Ibidem, 472, (tr. nostra).
17 Ibidem, 470, (tr. nostra).
18 «Il problema dell’uomo e del suo destino per Dostoevskij è prima di tutto il problema della libertà.
La libertà determina il destino dell’uomo, il suo doloroso errare. La libertà sta al centro stesso della
concezione di Dostoevskij. Il suo sacro pathos è il pathos della libertà» (N. BERDJAJEV, La concezione di
Dostoevskij, 67).
19 Cfr. L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, 118-119.
20 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 76.
21 PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, 120.
22 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 76.
23 Cfr. ibidem, 84.
24 F.DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, 14 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 232, (tr. nostra).
25 IDEM, Memorie del sottosuolo, 5 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 119, (tr. nostra).
26 IDEM, I Demoni, 10 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 312, (tr. nostra).
27 Ibidem, 311, (tr. nostra).
28 IDEM, Delitto e castigo, tr. it. di S. Polledro, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, 27.
29 Cfr. «L’uomo nuovo, nato nel cuore di Mitja, si trova al di fuori del campo visivo dei procuratori e
degli avvocati che lo giudicano; il loro “psicologismo” sembra un’arma a doppio taglio. Dostoevskij ci
abitua a considerare Mitja con altri occhi. Dietro l’immagine di un ufficiale debosciato si nasconde
uno spirito profondamente provato, che trova nella sofferenza il Dio della gioia» (P. EVDOKIMOV,
Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995, 33-34).
30 F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, a cura di S. PRINA, Mondadori, Milano 2002, 518.
31 Ibidem.
32 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 107.
33 F.DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. di M.R. Fasanelli, vol. II, Garzanti, Milano 1992, 571.
34 IDEM, I fratelli Karamazov, vol. I, 400.
35 EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 184.
36 Cfr. F.DOSTOEVSKIJ, Itaccuiniper “I Demoni”, 11 vol., [“Polnoe sobranie socinenij], 26.
37 IDEM, I fratelli Karamazov, vol. I, 401.
38 EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 75.
39 DOSTOEVSKIJ, “I Demoni”, 10 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 116 (tr. nostra).
40 IDEM, Delitto e castigo, a cura di S. PRINA, 519.
41 FRANCESCO, Lettera enciclica Fratelli tutti, 3-X-2020, n. 115.
42 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 267.
43 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. I, 340.
44 Cfr. RICONDA, Bene/male, 145.
45 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 178-179.
46 Cfr. RICONDA, Bene/male, 145.
47 S. GIVONE, Introduzione, in EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, XI.
48 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. I, 338-339.
49 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 169.
50 Cfr. ibidem, 180-181.
51 Cfr. RICONDA, Bene/male, 149.
52 «Ancora [Ivan], si ribella “contro ogni teodicea ottimista e spogliata del tragico, dove le vie della
Provvidenza si accordano troppo bene con la ragione del filosofo”. E quando Ivan raccoglie tutta la
sua argomentazione nel pensiero di quella bambina che è stata castigata e che piange di dolore e di
vergogna, Dostoevskij pensa nel suo intimo che, sul piano della ragione, non vi è risposta. Cristo non
è venuto a spiegare la sofferenza a risolvere il problema del male: ha preso il male sulle sue spalle
per liberarcene» (H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, 2 vol., in Opera Omnia in 32 volumi, a cura
di E. Guerriero, Jaca Book, Milano 1992, 238-239).
53 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 185.
54 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. I, 361.
55 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 139.
56 Cfr. P. PASCAL, Dostoevskij: l’uomo e l’opera, tr. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 1987, 68.
57 Cfr. F. CASTELLI, Il Cristo di Dostoevskij. I. Il Verbo si è fatto carne, «La Civiltà Cattolica», 132 (1981) III,
226-227.
58 H.U. von BALTHASAR, Il cristiano come idiota, in Gloria. Nello spazio della metafisica: L’epoca moderna, vol. V,
Milano 1971-1980, 174.
59 Cfr. H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, 222-223.
60 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. II, 880.
61 Cfr. IDEM, Itaccuiniper “I fratelli Karamazov”, 77.
62 Cfr. R. GUARDINI, Religiose Gestaltenin Dostojewskijs Werk, Lipsia 1939; tr. it.: Il mondo religioso di
Dostojevskij, Morcelliana, Brescia 1951, 18.
63 Cfr.DOSTOEVSKIJ, Itaccuiniper “Delitto e castigo”, 7 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 154-155.
64 EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 138.
65 Cfr. ŽAK, «Il romanzo come teologia», 38.
66 Cfr. M. TAREEV, Libertà cristiana. Le origini del cristianesimo, vol. 4, Sergiev Posad 1908, 245.
67 Cfr. P. SLOTERDIJK, Sfere I: Bolle. Microsferologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, 443-444.
68 Ibidem, 444.
69 Cfr. ibidem, 444-445.
70 Cfr. J. LECLERCQ, L’idiota e la tradizione cristiana, in Dostoevskij nella coscienza d’oggi, a cura di S.
Graciotti, Sansoni Editore, Firenze 1981, 99-100.
71 Cfr. ibidem,101.
72 Cfr. SLOTERDIJK, Sfere I: Bolle. Microsferologia, 445.
73 F. NIETZSCHE, L’Anticristo, Mursia Editore, Milano 1982, 60.
74 Cfr. SLOTERDIJK, Sfere I: Bolle. Microsferologia, 445.
75 Cfr. F. DOSTOEVSKIJ, Lettere. 1860-1868, 28 vol., libro II, [“Polnoe sobranie socinenij”], 251.
76 Cfr. ibidem, 240-241.
77 Cfr. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, 160.
78 F. DOSTOEVSKIJ, L’Idiota. Taccuini di appunti per “L’Idiota”, tr. it. di G. Faccioli, L.S. Bochian, 201-203.
79 Cfr. SLOTERDIJK, Sfere I: Bolle. Microsferologia, 446-447.
80 Cfr. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, 161-162.
81 Cfr. VON BALTHASAR, Il cristiano come idiota, 183.
82 Cfr. GUARDINI, Il mondo religioso di Dostojevskij, 278.
83 Cfr. ibidem, 272.
84 Cfr. VON BALTHASAR, Il cristiano come idiota, 182.
85 DOSTOEVSKIJ, L’Idiota. Taccuini di appunti per “L’ Idiota”, 177.
86 Cfr. LECLERCQ, L’idiota e la tradizione cristiana, 100.
87 Cfr. GUARDINI, Il mondo religioso di Dostojevskij, 309-310.
88 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 217-218.
89 Cfr. RICONDA, Bene/male, 151.
90 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 140-141.
91 Cfr. V. SOLOVЁV, Dostoevskij, La Casa di Matriona, Milano 1981, 32.
92 Cfr. PASCAL, Dostoevskij: l’uomo e l’opera, 339.
93 F.DOSTOEVSKIJ, Dalla lettera a N. D. Fonvizina, in Lettere sulla creatività, tr. it. di G. Pacini, Feltrinelli,
Milano 1994, 51.
94 IDEM, I Demoni. Taccuini di appunti per “I Demoni”, 1787-1788.
95 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 140-141.
96 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 86.
97 Cfr. ibidem, 108.
98 Cfr. DOSTOEVSKIJ, Itaccuiniper “I Demoni”, 10.
99 Cfr. GIVONE, Introduzione, in EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, X-XIII.
100 «Dostoevskij l’ha capito. Egli non ne sapeva meno di Nietzsche, ma sapeva anche quello che
Nietzsche ignorava» (BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 60-61).
101 Cfr. RICONDA, Bene/male, 149.
102 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 75.
103 «Quel sentimento di inferiorità dovrebbe esser vinto con l’umiltà che libera il cuore e apre la via
all’amore; la rivolta sceglie la via peggiore perché cerca di compensare quel complesso di inferiorità
con titanica rivolta contro Dio» (GUARDINI, Il mondo religioso di Dostojevskij, 147).
104 «Sulla nostra terra noi possiamo amare veramente solo con la sofferenza e solo attraverso la
sofferenza! Altrimenti non sappiamo amare senza sofferenza e non conosciamo altro amore fuori
dalla sofferenza. Io voglio la sofferenza per amare. Io voglio, io bramo, io anelo ora baciare,
bagnandomi di lacrime, solo quella terra che ho lasciato, e non voglio, non accetto la vita su
alcun’altra!» (F.DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, 25 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 111-
112, [tr. nostra]).
105 Cfr. A. CHRAPOVICKIJ, Polnoe sobranie sočinenij, vol. 3, Tipo-litografija Imperatorskago Universiteta,
Kazan’ 1900, 329.
106 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 131.
107 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 170.
108 «Così l’idea dostoevskiana dell’uomo superiore si rivela solidale con quella nietzskiana del
superuomo, e tuttavia già inchiodata alla sua stessa contraddizione» (GIVONE, Dostoevskij e la filosofia,
162).
109 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 98
110 EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 105.
111 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. I, 400.
112 Cfr. SOLOVЁV, Dostoevskij, 60.
113 Cfr. «L’immagine primordiale della Terra Madre incontriamo ovunque, sotto forme e varianti
innumerevoli. La Terra Mater o Tellus Mater, così familiare alle religioni del Mediterraneo, la vita a
tutti gli esseri. “Canterò la Terra – si legge nell’inno omerico Alla Terra – madre universale dalle solide
radici, antenata venerabile che nutre tutto ciò che esiste […] Spetta a te di dare e togliere la vita ai
mortali […]”. E nelle Coefore Eschilo glorifica la Terra che partorisce ogni essere, lo nutre,
ricevendone poi nuovamente il germe fecondo» (M. ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri
editore, Torino 2006, 89).
114 Cfr. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, a cura di S. Prina, 519.
115 DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, vol. II, 503; cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 215-217.
116 DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, a cura di S. Prina, 676-677.
117 IDEM, I fratelli Karamazov, vol. II, 811-812.
118 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 33-34.
119 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 77.
120 «Ma lo sapete, lo sapete voi che senza l’Inghilterra l’umanità potrebbe vivere, senza la Germania
pure, senza l’uomo russo potrebbe vivere e vivrebbe anche troppo bene; potrebbe vivere senza la
scienza senza il pane…; solo senza la bellezza non potrebbe viver (F. DOSTOEVSKIJ, I Demoni.
Taccuini di appunti per “I Demoni”, 1057).
121 IDEM, “I Demoni”, 323, (tr. nostra).
122 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 83.
123 Cfr. BERDJAJEV, La concezione di Dostoevskij, 110-111.
124 VON BALTHASAR, Il cristiano come idiota, 174.
125 Cfr. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, 113-114.
126 «Per Dostoevskij la bellezza non è apparenza un’illusione soggettiva, ma è reale; il suo
fondamento ontologico, inoltre, risiede nella natura: “la bellezza è l’armonia”. La bellezza della
natura, sebbene sia impersonale, rimane sempre pneumophora. Ora, all’apice della gerarchia di questo
valore si trova la bellezza di un principio personale come, ad esempio, quello dell’uomo spirituale o
del santo. E questo il modo in cui la bellezza naturale del mondo si santifica, nel senso che l’uomo
santo ne diviene il centro ipostatizzato. È troppo poco, infatti, rimirare la bellezza. Bisogna arrivare a
possederla. Così alla concezione del mondo, nella sua bellezza originaria, deve unirsi una forza
trasfigurante che trasformi il mondo nel luogo ontologico dell’uomo santo. Qui, nella perfetta intimità
con Dio, nella realizzazione della somiglianza con Lui, l’uomo diventa microtheós e nell’armonia
universale, microcosmo» (EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 84-85).
127 DOSTOEVSKIJ, L’Idiota. Taccuini di appunti per “L’Idiota”, 905.
128 Cfr. SOLOVЁV, Dostoevskij, 65.
129 Cfr. F. CASTELLI, Il Cristo di Dostoevskij. I. Il Verbo si è fatto carne, «La Civiltà Cattolica» 132 (1981) III
232.
130 «Molti pensano che sia insufficiente credere nella morale di Cristo, per essere cristiano. Non la
morale di Cristo, l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò,
che il verbo si è fatto carne» ( DOSTOEVSKIJ, I Demoni. Taccuini di appunti per “I Demoni”, 1787).
131 IDEM, Lettere. 1832-1859, 28 vol., libro I, [“Polnoe sobranie socinenij”], 176, (tr. nostra).
132 IDEM, Articoli e note. 1862-1865, 20 vol., [“Polnoe sobranie socinenij”], 192, (tr. nostra).
133 IDEM, Lettere. 1875-1877, 29 vol., libro II, [“Polnoe sobranie socinenij”], 85, (tr. nostra).
134 Cfr. A. DELL’ASTA, La terribile bellezza di Dostoevskij, in Dostoevskij, a cura di A. Vicini, Electa, Milano
1997, 20.
135 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 81.
136 «Rimaneva però la luminosa personalità di Cristo, contro la quale era più difficile che mai lottare.
La dottrina di Cristo egli, come socialista, doveva necessariamente distruggerla, chiamarla falsa ed
ignorante filantropia, condannata dalla scienza moderna e dai principi economici; ma, nonostante
ciò, rimaneva l’immagine purissima dell’Uomo-Dio, la sua insuperabile altezza morale, la sua divina
e miracolosa bellezza» (F. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, tr. it. di E. L. Gatto, in Il pensiero
occidentale, dir. da G. Reale, Bompiani, Milano 2007, 11).
137 «Bisogna precisamente credere che l’ideale definitivo dell’uomo è sempre il verbo incarnato, il dio
incarnato» (IDEM, I Demoni. Taccuini di appunti per “I Demoni”, 1788).
138 Cfr. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, 82.
139 Cfr. DOSTOEVSKIJ, Lettere. 1875-1877, 29 vol., libro II, [“Polnoe sobranie socinenij”], 85.
140 Cfr. F. CASTELLI, Il Cristo di Dostoevskij. II. Tu volesti il libero amore dell’uomo, «La Civiltà Cattolica» 132
(1981) III 477.
141 «—Karamazov! gridò Koljia è proprio vero quello che dice la religione, che noi tutti
risusciteremo da morte e, tornati in vita, ci rivedremo tutti e vedremo anche Iljuscečka?
—Senza dubbio risusciteremo, senza dubbio ci rivedremo, e con gioia e allegrezza ci racconteremo
tutto il passato – rispose Alëša, mezzo ridente, mezzo estatico.
—Ah, quanto sarà bello! – sfuggì a Koljia.
Con questo dialogo spontaneo, con questa conversazione da bambini che completa l’estasi di Alëša si
concludono i Fratelli Karamazov, ultima opera di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, terminata l’anno
stesso della sua morte. Così tutta quest’opera opera atroce si conclude con un canto di speranza.
Anzi essa è tutta un canto di speranza: è questo il suo significato profondo. L’orrore nel quale ci
immerge non è un inferno. Dostoevskij è il profeta dell’altra vita» (DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo
ateo, 317).
NOTE
«SEROPUS DEIPARA HACER ELOPUS DEI»
ANTONIO ARANDA (†)
Universidad de Navarra, Pamplona
RESUMEN: El autor toma ocasión de una
expresión de san Josemaría para explicar el
carisma y la espiritualidad del Opus Dei, que tiene
en el trabajo el quicio, la base o fundamento
sobre el que ir levantando, con la gracia de Dios,
el edificio de la santificación personal y del
apostolado. La identificación con Cristo, esencia
y meta de la vida cristiana, se concreta –para
quienes han recibido la vocación al Opus Deien
imitar sus años de vida oculta en los que inició la
redención de los hombres, trabajando en un
oficio y llevando una existencia igual a la de los
demás. El Opus Dei ha sido suscitado dentro de la
Iglesia con unas características propias entre las
que destacan su esencial secularidad y esa
particular perspectiva cristocéntrica. Para
demostrarlo, el autor se sirve de textos de san
Josemaría, muchos de ellos inéditos y en fase de
publicación.
PALABRAS CLAVE: Espiritualidad del Opus Dei, San
Josemaría Escrivá de Balaguer, Cristocentrismo,
Secularidad, Santificación del trabajo.
ABSTRACT: The author considers a statement by
Saint Josemaría to elucidate the charisma and
spirituality of the Opus Dei, which positions work
as the cornerstone upon which one constructs,
with the grace of God, the structure of personal
sanctification and apostolate. For those who have
received the vocation to the Opus Dei,
identification with Christ—the essence and goal
of Christian life—is realized through the
imitation of his years of hidden life when he
began redeeming human beings by working in a
profession and leading a life akin to others. The
Opus Dei emerged within the Church with
distinct characteristics, notably its essential
secularism and particular Christocentric
perspective. To illustrate this, the author draws
upon texts by Saint Josemaría, many of which
are unpublished and in the process of
publication.
KEYWORDS: Spirituality of Opus Dei, Saint
Josemaría Escrivá de Balaguer, Christocentrism,
Secularity, Sanctification of Work.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 91-117
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202403
SUMARIO: I. Introducción: un lema habitual del fundador del Opus Dei. II. «Ser Opus Dei». III. El Opus Dei
ha sido suscitado por Dios con unas características propias. IV. Poner a Cristo en la cumbre de las actividades humanas.
V. Santificar el trabajo ordinario, santificarse en esa tarea y santificar a los demás con el ejercicio de la propia profesión.
VI. Esencial secularidad y especial perspectiva cristocéntrica. VII. Formación específica.
I. INTRODUCCIÓN: UN LEMA HABITUAL DEL FUNDADOR DEL OPUS DEI
San Josemaría Escrivá utilizaba a veces la expresión ʻidea madreʼ, para
calificar algún principio básico, teórico y práctico al mismo tiempo,
necesario para la justa comprensión del espíritu del Opus Dei, y más aún,
como es lógico, para su puesta en ejercicio. Uno de estos podría quedar
reflejado en la fórmula: «Ser Opus Dei para hacer el Opus Dei»,1 que cabría
proponer también con enunciados análogos, como, por ejemplo: ʻPara hacer
el Opus Dei hay que ser Opus Deiʼ, o bien: ʻSólo siendo Opus Dei se puede
hacer el Opus Deiʼ. A cualquiera de esas posibles formulaciones habría que
añadirle siempre, para mayor precisión, un epígrafe como el siguiente:
‘Dentro del cuerpo de la Iglesia y al servicio de su misión’.2
Este breve preámbulo ilustra ya de modo sintético el contenido de las
siguientes consideraciones, cuyo objetivo es traer de nuevo a la luz,
siguiendo la enseñanza de san Josemaría, algunas claves de fondo de lo que
un fiel del Opus Dei ya conoce y procura vivir.
Se trata de ahondar en los aspectos teóricos y prácticos del tema
enunciado, lo que significa que se han de abordar también sus dimensiones
teológicas, aunque no sea preciso entrar en análisis detallados.
Para completar el preámbulo y enmarcar adecuadamente la cuestión,
conviene dejar señaladas desde el principio dos ideas, elementales por su
sencillez y necesarias por su importancia.
Los miembros del Opus Dei:
a) Son sencillamente fieles cristianos. Esa es su vocación primordial: la
bautismal. La posterior vocación divina al Opus Dei –sembrada en el interior
de la primera: «Hijas e hijos míos, no olvidéis que tenéis una vocación
íntegra de cristianos»–,3 les pone en condiciones de entender mejor y de
amar más lo que es, lo que significa ser cristiano, pues desde entonces se
saben llamados –ese es el contenido esencial de la vocación cristiana– a la
identificación personal con Cristo, es decir, a la santidad de vida y al
apostolado. Como cualquier cristiano, su persona y su vida deberían estar
orientadas hacia Cristo: Él es su fuente de valor y de sentido. Personas que
desean tener la cabeza y el corazón centrados en Cristo –personas
cristocéntricas– que, por ese motivo, aman a la Iglesia, Esposa de Cristo y
Madre nuestra. El ideal que late en ellos, en cuanto cristianos, es asemejarse
cada vez más al Hijo de Dios encarnado, ser cada vez en mayor medida (en
la santidad y en el apostolado) alter Christus, y más aún, con una expresión
característica del fundador, ipse Christus.
b) Son fieles cristianos en el Opus Dei. Esa es la llamada divina que han
recibido, que configura enteramente su vocación cristiana primordial en el
sentido de que conforma de modo preciso –como Dios ha querido– el
camino de su identificación con Cristo, es decir, de su búsqueda de la
santidad y de su compromiso apostólico. Por la vocación divina acogida se
saben requeridos por el Señor a hacer el Opus Dei con su propia vida, y saben
también que para lograrlo hay que ser Opus Dei.
Así lo confirma el fundador cuando escribe: «Hemos sido llamados por
Dios para hacer el Opus Dei en la tierra, siendo cada uno Opus Dei»,4 o bien,
de modo semejante: «Cada uno de nosotros, con su vida de entrega al
servicio de la Iglesia, debe ser Opus Dei –es decir: operatio Dei–, trabajo de
Dios, para hacer el Opus Dei en la tierra».5
El primer pasaje alude de modo directo a la llamada personal y el
segundo de modo más elaborado. Pero ambos formulan de igual manera la
finalidad, razón de ser o exigencia que dicha vocación divina comporta: ser
Opus Dei para hacer el Opus Dei en la tierra. La idea puede expresarse así: cada
fiel de la Prelatura es llamado por Dios a hacer el Opus Dei en la tierra (en la
historia, en la Iglesia, en la sociedad) –esa es la finalidad, el para qué de su
vocación–, lo cual supone y exige ser Opus Dei –esa es la entidad o esencia de
la misma–.
II. «SER OPUS DEI»
El contenido de la expresión ʻser Opus Dei’ –ʻser uno mismo, yo mismo, Opus
Deiʼ, en el caso de quien ha recibido esa llamada de Dios–, aunque su
sentido pueda ser captado intuitivamente (sobre todo si se cuenta con la
gracia de la correspondiente vocación), no es de por evidente, sino que
exige conocimiento previo del predicado. El Opus Dei es una realidad
eclesial, fruto de una voluntad divina dispositiva, que precede a quien le es
dada vocacionalmente a conocer y a amar. Comprender lo que significa
identificarse con dicha realidad (ʻser Opus Deiʼ) pide hacer una reflexión que
encierra, sin duda, cierta dificultad, porque ¿cómo puede uno identificarse
con algo que le precede y que es de Dios? Cabe anticipar ya la respuesta:
sólo amándolo.
Para razonarlo sirve de ayuda traer a la memoria un singular ejemplo,
aunque lo que en él se contempla es de tal envergadura que sólo cabe una
consideración puramente analógica con lo que ahora tratamos. Recordemos
la escena, o quizás mejor la sucesión de escenas que tienen lugar con
ocasión de las diversas apariciones de la Virgen María en Lourdes a
Bernardette. Ante la visión de aquella Señora tan hermosa, la joven vidente
le pregunta en distintas ocasiones quién es –cuál es su nombre, podríamos
decir–, y aunque encuentra siempre una mirada cariñosa y sonriente sólo
obtiene la respuesta pedida en la decimosexta aparición, el 25 de marzo de
1858, cuando la Señora, elevando la mirada y las manos hacia el cielo
revela con alegría: «Yo soy la Inmaculada Concepción».6
Esa es Ella, así expresa su más profunda identidad, ese es su nombre. Yo
soy como criatura humana –cabe glosar–, como persona, lo que Dios me ha
dado ser: la Inmaculada Concepción. La Virgen identifica plenamente su
personalidad con el don que Dios –en su voluntad salvífica– ha querido
otorgarle de cara a la misión para la que ha sido elegida: ser la Madre de
Dios. Se acepta y se reconoce en lo que ama sin medida: lo que Dios ha
querido que Ella sea como criatura, lo que le ha dado ser. Yo soy la
Inmaculada Concepción: amo y me identifico con lo que Dios ha querido
que yo sea para llevar a cabo mi misión de Madre de Dios y de los hombres.
Pues bien, en la inmensa, inabarcable distancia de la analogía, eso es lo
que una persona llamada por Dios para realizar una determinada misión, y
dotada por tanto con los dones necesarios, debe poder afirmar de sí. Amo lo
que Dios me ha dado ser, con lo que me identifico plenamente. Viniendo a
nuestro caso concreto, lo que un cristiano llamado a hacer el Opus Dei debe
poder decir de mismo, pues es lo que ha aprendido del fundador, es que
para eso hay que ser Opus Dei: comprendo que mi identidad profunda, la que
Dios ha querido otorgarme en vistas a la misión de hacer el Opus Dei en la
tierra, es ser Opus Dei. Eso es lo que amo plenamente y con lo que me
identifico, pues el amor engendra identidad: uno se identifica
espiritualmente con lo que ama, y sobre todo con aquellos a los que ama.
«…A me lo hicisteis», dice el Juez escatológico, Señor del cielo y de la
tierra, identificándose con el más pequeño, al que ama (cfr. Mt 25,40).
Así, pues, concretando, para hacer el Opus Dei, que es a lo que Dios llama a
algunos cristianos, se les pide ser Opus Dei: identificarse plenamente con lo
que Dios les ha dado ser. O diciéndolo de otro modo, se les pide amar el
Opus Dei, tal como Dios lo ha querido: tal como ha querido suscitarlo en la
Iglesia y en el mundo a través de san Josemaría. Por la gracia de la vocación
lo aman, y ese amor es conocimiento Amor ipse intellectus est»,7 el amor es en
mismo principio de conocimiento), pero como es lógico quieren conocer
con más hondura lo que profundamente aman: lo que Dios les ha dado ser y
están llamado a hacer personalmente en la tierra con su sincero y humilde
obrar ante Dios y ante los hombres.
Llegados aquí, brota de forma inmediata una doble pregunta: ¿qué es,
pues, el Opus Dei para poder amarlo e identificarse con él? Y de acuerdo con
la respuesta que se haya dado: ¿cómo se concreta la misión de hacerlo en la
tierra?
Respecto de la primera pregunta (¿qué es el Opus Dei?), y para captar su
sentido, es preciso hacer una observación. La pregunta se refiere a su
naturaleza propia como realidad suscitada por Dios en el seno de la Iglesia
en un momento preciso, al tiempo de inspirarla a su fundador. San
Josemaría solía utilizar, en efecto, el verbo ʻsuscitarʼ para expresar el origen
del Opus Dei como tal, es decir, como misión que Dios le inspira y le
encomienda, no buscada por él sino recibida, confiada a él para comenzar a
llevarla a cabo. Nos llevaría lejos continuar por esta vía –ya muy estudiada–,
y no es además necesario para nuestro interés inmediato. Conviene
simplemente resaltar que, de una realidad carismática, es decir, inspirada
por Dios y dotada como tal de una naturaleza teológica propia, no cabe dar
una respuesta directa a la pregunta sobre qué es (sólo puede darla Dios),
sino más bien a qué no es, o quizás mejor a cómo es. Y esto es lo que vamos
a considerar siguiendo sucesivamente algunas afirmaciones del fundador:
¿cómo es el Opus Dei?
III. EL OPUS DEI HA SIDO SUSCITADO POR DIOS CON UNASCARACTERÍSTICAS
PROPIAS
¿Cómo ha querido Dios que sea el Opus Dei para que alguien –como
persona llamada a hacerlo en la tierra– pueda conocerlo y amarlo, e
identificarse con él? He aquí una respuesta precisa de san Josemaría:
«Cuando Dios Señor Nuestro, el día 2 de octubre de 1928, suscitó su Obra,
dentro del Cuerpo Santo de la Iglesia, le dio una finalidad específica; y con
ella, un espíritu peculiar y el modo apostólico de trabajar, que le es propio».8
En estas tres características inseparables finalidad específica, espíritu peculiar,
modo apostólico propio, que por su mismo origen y tal como están expresadas
forman unidad– compendia el fundador la realidad profunda, teológica, del
Opus Dei tal como Dios lo ha hecho surgir, dentro del Cuerpo Santo de la Iglesia.
Estas últimas palabras enuncian una cuarta característica innata y esencial
como las tres anteriores: el Opus Dei, con su finalidad, su espíritu y su modo
apostólico, ha sido suscitado por Dios en la Iglesia y para el bien de la
Iglesia, a su servicio, para contribuir al cumplimiento de su misión de ser
«signo e instrumento de la íntima unión con Dios y de la unidad de todo el
género humano».9
Un primer punto en el que detenerse de la citada frase del fundador es la
finalidad específica del Opus Dei, el ʻpara quéʼ ha sido suscitado por Dios o, en
otras palabras, su concreta contribución al servicio de la misión de la Iglesia.
Ésta, en su conjunto, como «sacramento universal de salvación»,10 tiene la
misión de continuar con Cristo la obra de la redención por Él ya
consumada, aplicando sus frutos en el permanente despliegue de la historia.
Esto significa sencillamente ocuparse de la salvación de las almas y, en
consecuencia, trabajar en la orientación del mundo (las personas, los
ambientes y las obras de los hombres) hacia su fin propio, que es Dios
mismo. Diciéndolo con terminología clásica, la Iglesia tiene la misión de
empeñarse en el retorno a Dios de la entera creación. Esa misma es, en
consecuencia, la misión apostólica del Opus Dei, la finalidad para la que
existe, regulada a su vez –porque así lo ha querido Dios– por unas
características específicas. ʻSer Opus Deiʼ, significa asumir esa finalidad como
algo propio, identificarse con ella, amarla.
Tales características específicas han sido manifestadas por el fundador en
diversos momentos y contextos, siempre con firme unidad de sentido. Con
objeto de concretar nuestra reflexión nos fijamos en un párrafo
particularmente significativo de una de sus Cartas:
Ciertamente nuestra Obra –la Obra de Dios– surgía para hacer que renaciera una nueva y vieja
espiritualidad de almas contemplativas, en medio de todos los quehaceres temporales,
santificando todas las tareas ordinarias de esta tierra: poniendo a Jesucristo en la cumbre de
todas las realidades honestas en las que los hombres están comprometidos, y amando este
mundo, que huía del Creador.11
Es una frase descriptiva y muy densa, que podría ser también considerada,
en cierto modo, por proceder de labios del fundador, como definitoria. En
ella quedan resaltados con claridad los aspectos que estudiamos, es decir, la
finalidad específica, el espíritu peculiar y el modo apostólico de trabajar
propio del Opus Dei.
Sin romper la unidad de conjunto, la frase, a efectos de nuestro análisis,
puede ser descompuesta en cinco elementos:
a) hacer que renaciera una nueva y vieja espiritualidad:
hacer que renaciera tiene el sentido de hacer que resurgiera o reviviera una
espiritualidad que, por consistir, en cuanto cristiana, en la puesta en
práctica del espíritu del Evangelio, es ya vieja en el tiempo;
pero es también, al mismo tiempo, una espiritualidad nueva, por estar
originada en un carisma fundacional nuevo, y modulada en consecuencia
con los oportunos acentos y matices, detallados a continuación;
b) [una espiritualidad] de almas contemplativas:
almas está aquí empleado en el sentido de personas cristianas, sin más
determinaciones, aunque por lo que añaden las frases sucesivas, ha de
entenderse que son personas de condición secular;
– pero personas calificadas expresamente como contemplativas, es decir, que
practican en su vida la contemplación cristiana, que buscan a Dios en las
diversas circunstancias de su existencia, que le tratan confiadamente, que
dialogan con Él;
personas, en definitiva, que pueden ser denominadas almas de oración,
como acostumbra también a denominarlas el fundador.12
c) [contemplativas] en medio de todos los quehaceres temporales, esto es, en el
desempeño de las obligaciones personales cotidianas de todo tipo;
temporales, ha de entenderse no en el sentido de transitorias, sino en el de
seculares, realizadas en el mundo.
d) [en los quehaceres temporales] santificando todas las tareas ordinarias de esta
tierra,
la expresión tareas ordinarias de esta tierra permite ser sintetizada en un
solo término: trabajo, el de cada cual, sea el que sea (siempre que sea
honesto);
– podría pues decirse: santificando el trabajo o quehacer ordinario;
como en todo lo anterior, pero ahora especialmente, estamos ante un
punto central del espíritu y de la espiritualidad del Opus Dei, que junto
con proclamar la vocación universal a la santidad ayuda a entender que
el trabajo cotidiano es su piedra angular;
tal afirmación, como es lógico, es inseparable en el espíritu y la
espiritualidad del Opus Dei de esta otra: ʻmientras se santifican en ese
trabajoʼ, pues en materia de santificación personal del cristiano no
pueden disociarse el ser y el obrar;
santificar el trabajo y santificarse en él supone buscar el encuentro con
Dios en el propio quehacer, realizarlo en diálogo con Él, ofrecérselo,
convertirlo en ʻlugarʼ de oración, hacerlo con perfección.
e) Como epílogo encontramos una frase que pide ser comprendida como
meta u horizonte al que todo lo anterior, conforme al espíritu que
analizamos, ha de tender: poniendo a Jesucristo en la cumbre de todas las realidades
honestas en las que los hombres están comprometidos, y amando este mundo, que huía del
Creador;
poner a Cristo en la cumbre de las actividades humanas significa ponerlo en alto
–su Persona, su enseñanza–, levantándolo a la vista de todos en los
distintos ámbitos del obrar humano, exaltándolo, colmando dichos
ámbitos (en realidad, las personas y sus obras) de sentido cristiano y
conduciéndolos con Cristo (desde dentro y amorosamente) a su fin propio
según los designios de la voluntad del Creador, es decir, siempre en
conformidad con su propia naturaleza, con su propia verdad. No se deje
de advertir la misteriosa unidad entre exaltación y cruz (alzar la cruz,
levantar la cruz, y antes tomar la cruz).
Así, pues, la finalidad específica del Opus Dei dentro de la misión de la Iglesia,
el objetivo que le ha asignado Dios al suscitarlo con un espíritu peculiar y un
modo apostólico propio de trabajar, puede ser expresado con san Josemaría como
un: poner a Cristo (su Persona, sus obras, su enseñanza) en la cumbre de las
actividades humanas (o análogamente, en la entraña del mundo), actuando desde
dentro de la dinámica de esas actividades con el espíritu del Opus Dei,
trabajando apostólicamente en ellas con responsabilidad personal, sin
apartarse nunca de ellas. Consiste, pues, en hacer presente a Jesucristo y su
Evangelio (en síntesis: el sentido cristiano de la persona y de la vida
humanas, y por tanto de la entera creación) en el dinamismo relacional del
mundo, en el realizarse de las actividades humanas, principalmente las
pertenecientes al ámbito laboral –sincrónicas por lo demás, en razón del
sujeto que las realiza, con las propias del ámbito familiar, o en sentido
amplio del ámbito social–. Pero siempre con espíritu secular, desde dentro
de ellas por derecho propio, con ocasión de su desenvolvimiento y sin
abandonarlas.
Ser Opus Dei significa estar identificado, amar, esa finalidad, ese espíritu,
ese estilo apostólico de personas contemplativas, centradas en Jesucristo,
seculares, ciudadanos corrientes, normales trabajadores con ideal de
santidad allí donde se encuentran, amantes de la Iglesia como hijos,
copartícipes de su misión evangelizadora. Sólo así, con la gracia de Dios, se
puede hacer el Opus Dei en la tierra.
IV. PONER A CRISTO EN LA CUMBRE DE LAS ACTIVIDADES HUMANAS
La formulación de la finalidad específica del Opus Dei que acabamos de
considerar (poner a Cristo en la cumbre de las actividades humanas) tiene una
historia particular, bien conocida. Como narró en diversas oca siones el
fundador y es referido por sus biógrafos,13 esa fórmula nació como
consecuencia de una intervención extraordinaria de Dios en su alma. Lo ha
dejado registrado también por escrito en distintos pasajes de sus obras, de
los que escogemos tres sustancialmente similares, aunque con interesantes
matices propios.
a) Relato datado en 1931
7 de agosto de 1931: Hoy celebra esta diócesis la fiesta de la Transfiguración de Nuestro Señor
Jesucristo. –Al encomendar mis intenciones en la Santa Misa, me di cuenta del cambio interior
que ha hecho Dios en mí, durante estos años de residencia en la exCorte… Y eso, a pesar de
mismo: sin mi cooperación, puedo decir. Creo que renoel propósito de dirigir mi vida entera
al cumplimiento de la Voluntad divina: la Obra de Dios. (Propósito que, en este instante, renuevo
también con toda mi alma). Llegó la hora de la Consagración: en el momento de alzar la
Sagrada Hostia, sin perder el debido recogimiento, sin distraerme […] vino a mi pensamiento,
con fuerza y claridad extraordinarias, aquello de la Escritura: et si exaltatus fuero a terra, omnia
traham ad me ipsum (Ioann. 12-32). Y comprendí que serán los hombres y mujeres de Dios,
quienes levantarán la Cruz con las doctrinas de Cristo sobre el pináculo de toda actividad
humana… Y vi triunfar al Señor, atrayendo a Sí todas las cosas.14
Esta primera narración por escrito de la intervención extraordinaria de
Dios en el alma del fundador desvela cuatro esenciales e indivisibles
elementos integrantes:
El singular contexto inmediato en el que tuvo lugar, que es la
recentísima venida de Cristo al altar tras la consagración eucarística y su
elevación o exaltación en las manos del sacerdote-fundador.
La conformación exacta de la acción divina –una locución interna,
como sugiere este pasaje y confirman los otros dos que analizamos–, que
hizo resonar en el alma del fundador (con fuerza y claridad extraordinarias) las
palabras de Cristo recogidas en el versículo de Jn 12,32 según el texto de
la Vulgata: «et si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum» («cuando
sea levantado de la tierra, atraeré todo hacía mí»).
La expresiva intelección que la acción divina dejó impresa en el alma
del fundador (comprendí que serán los hombres y mujeres de Dios, quienes levantarán
la Cruz con las doctrinas de Cristo sobre el pináculo de toda actividad humana), que
iluminó aún más el horizonte de la misión encomendada.
Y, finalmente,
La comprensión global (expresada en términos de visión intelectual) de
los frutos apostólicos de dicha misión: la exaltación-atracción de Cristo
sobre toda la realidad creada.
La lectura de los otros dos relatos que hemos escogido sobre el mismo
acontecimiento nos permitirá resaltar nuevos detalles y penetrar más
hondamente en su contenido.
b) Relato datado en 1932
Ahora comprenderemos la emoción de aquel pobre sacerdote, que tiempo atrás sintió dentro de
su alma esta locución divina: et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Ioann. XII, 32);
cuando seré levantado en alto sobre la tierra, todo lo atraeré a mí. A la vez, vio con claridad la
significación que el Señor, en aquel momento, quería dar a esas palabras de la Escritura: hay que
poner a Cristo en la cumbre de todas las actividades humanas. Entendió claramente que, con el
trabajo ordinario en todas las tareas del mundo, era necesario reconciliar la tierra con Dios, de
modo que lo profano –aun siendo profano– se convirtiese en sagrado, en consagrado a Dios, fin
último de todas las cosas.15
Este segundo relato presenta los hechos de manera semejante al anterior,
aunque con matices propios:
– La intervención divina, presentada antes de modo más amplio (vino a mi
pensamiento, con fuerza y claridad extraordinarias), es ahora calificada con
precisión: sintió dentro de su alma esta locución divina; como tal locución, deja
en el alma una impresión clara, profunda, iluminante de lo comunicado,
que es el mismo texto de Jn 12,32 (versión Vulgata).
El significado preciso de la acción divina está expresado con la misma
nitidez (vio con claridad la significación que el Señor, en aquel momento, quería dar a
esas palabras de la Escritura), pero poniendo más énfasis en el deber de
realizar la misión apostólica encomendada: hay que poner a Cristo en la
cumbre de todas las actividades humanas.
Con palabras de alto perfil teológico, queda enunciada la certidumbre
que la locución divina deja grabada en el alma del fundador (entendió
claramente), acerca de la necesidad (era necesario) de asumir la tarea confiada
de reconducir el mundo a Dios (reconciliar la tierra con Dios), a través del
trabajo ordinario santificado y santificador (con el trabajo ordinario, de modo
que lo profano –aun siendo profano– se convirtiese en sagrado, en consagrado a Dios).
Estas últimas palabras piden una breve glosa. Que lo profano se convierta,
por medio del trabajo ordinario, en algo sagrado en el sentido de algo
consagrado a Dios, es un modo de expresar el significado y el fruto de la
santificación del trabajo y en el trabajo. La relación del sujeto con el objeto
de su trabajo puede ser también –porque toda la realidad creada lo permite
y siempre que así lo quiera el trabajador– ocasión de relación personal con
Dios, es decir, de ofrecimiento, de encuentro, de servicio, de amor. Quien
ama a Dios quiere también que todas sus acciones –y en concreto su
trabajo, su relación con la verdad de las cosas, de las realidades profanas–,
lleven impreso ese sello personal de “hecho para Dios”: sean obras de amor.
Y Dios, que es Amor, acepta siempre lo que le es ofrecido por quien le ama.
El Amor de Dios y el amor del hombre se encuentran mutuamente en aquel
trabajo, en aquella obra así realizada, que queda, en ese sentido, santificada,
y es también al mismo tiempo santificante para quien la realiza en cuanto
ámbito concreto de amorosa relación personal con Dios.
c) Relato datado en 1966
Aquel día de la Transfiguración, celebrando la Santa Misa en el Patronato de enfermos, en un
altar lateral, mientras alzaba la Hostia, hubo otra voz sin ruido de palabas. Una voz, como
siempre, perfecta, clara: et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum! (Ioann. XII, 32). Y el
concepto preciso: no es en el sentido en que lo dice la Escritura; te lo digo en el sentido de que
me pongáis en lo alto de todas las actividades humanas; que, en todos los lugares del mundo,
haya cristianos, con una dedicación personal y libérrima, que sean otros Cristos.16
La nueva narración detalla con mayor precisión el acontecimiento: el
sitio, la situación, el momento. Que tenga lugar dentro de la celebración
eucarística del fundador empareja este acontecimiento con otros de
especial importancia en su misión fundacional, como son los que están en
el origen, respectivamente, de la sección de mujeres del Opus Dei (14-II-
1930) y de la Sociedad sacerdotal de la Santa Cruz (14-II-1943).
– El momento concreto en que sucede, la elevación de la Sagrada Hostia,
es portador de un alto significado, pues todo cuanto sigue (la locución
divina, con el texto de Jn 12,32, y el sentido que esas palabras adquieren
en el oyente) hablan también de alzar a Cristo, de ponerle en alto, de
mostrarlo, de darlo a conocer tal como es: crucificado y resucitado,
glorioso y atrayendo hacia Sí a todos.
La expresión como siempre, que acompaña a la descripción de la locución
(Una voz, como siempre, perfecta, clara) desvela la experiencia del fundador en
esas acciones divinas a lo largo de toda su vida, antes y después del
acontecimiento de 1931 que comentamos (este pasaje está fechado en
1966).
Se pone en este tercer pasaje de manifiesto la lúcida impresión
intelectual adquirida por el fundador, o como él mismo escribe: el concepto
preciso, entonces develado; se trata evidentemente de un dato valioso para
quienes analizamos este hecho casi un siglo después.
La primera aserción sobre dicho concepto preciso consiste en señalar cómo
no ha de entenderse el versículo joánico: no es –escribe el oyente– en el
sentido en que lo dice la Escritura. Es una afirmación de gran interés, que
quizá hace referencia a una interpretación inmediata y común de Jn
12,32, no infrecuente en la tradición, que, en el levantamiento o
alzamiento material o físico de la cruz en el Calvario con Cristo
enclavado, contempla ya también su triunfo y exaltación como vencedor
del pecado y de la muerte.
Y a continuación –he aquí la aportación principal del pasaje– es
desvelado el sentido peculiar con el que el versículo joánico ha quedado
impreso en la mente del fundador: te lo digo en el sentido de que me pongáis en
lo alto de todas las actividades humanas; que, en todos los lugares del mundo, haya
cristianos, con una dedicación personal y libérrima, que sean otros Cristos.
La atribución de este sentido a Jn 12,32 es única en la historia del
pensamiento cristiano, en el que nunca ha cesado –desde la época
patrística hasta nuestros días– la reflexión sobre ese versículo. Al menos
no conocemos otra interpretación como ésta, y lo hemos estudiado
largamente dentro de una línea de investigación que ya ha dado frutos de
calidad,17 y que continúa abierta.18
En el terreno en el que estamos, que es el de conocer mejor la
naturaleza teológica del Opus Dei (su finalidad, su espíritu, su modo
apostólico) para facilitar la comprensión de lo que significa ser Opus Dei, y
sabiendo que hacer el Opus Dei consiste en poner a Cristo en la cumbre de todas
las actividades humanas, resulta manifiesta la importancia del sentido que el
fundador asigna al versículo joánico objeto de la locución.
Así, pues, conforme a esta intelección carismática del texto de Jn 12,32,
la misión de poner a Cristo en lo alto, ha de ser comprendida en el sentido de
que en todas las encrucijadas del trabajo humano (en todas las actividades
humanas), o lo que es igual en medio de las sociedades humanas en todos los
lugares del mundo, pueda ser visto, conocido –y en consecuencia amado,
pues quien en verdad le conoce es también atraído por Él, y le ama–,
porque haya otros Cristos. Esto es, porque haya hombres y mujeres
identificados por la gracia con Él, que lo pongan en alto, que hagan
manifiesta su belleza (la belleza de su Persona, de su Cruz, de su doctrina)
a través de su propia vida, de su conducta, de sus obras. Cristo presente en los
cristianos es precisamente el título de una conocida homilía de san
Josemaría.19
V. SANTIFICAR EL TRABAJO ORDINARIO, SANTIFICARSE EN ESA TAREAY SANTIFICAR
A LOS DEMÁS CON EL EJERCICIO DE LA PROPIA PROFESIÓN20
Sin que sea necesario detenerse ahora más en el análisis de los textos recién
transcritos, cabe hacer hincapié en las palabras con las que san Josemaría
desvela la iluminación recibida en aquella intervención de Dios en su alma.
Tales palabras, de modo explícito o implícito, hacen referencia, por
ejemplo, a la presencia del cristiano en todas las actividades humanas, al
enaltecimiento o exaltación de Cristo a través de esa presencia cristiana
operativa, a la reconciliación o reconducción del mundo –es decir, de los
hombres y sus obras– con Dios, etc. Conjugadas en unidad cabe
sintetizarlas en la noción de ʻtrabajo santificadoʼ del cristiano, que al tiempo
de realizarlo también se santifica en él. En este sentido, la misión de hacer el
Opus Dei en la tierra siendo Opus Dei, queda perfectamente explicada con estas
palabras del fundador: «¡Lo he dicho sin cesar, desde que el Señor dispuso
que surgiera el Opus Dei! Se trata de santificar el trabajo ordinario, de
santificarse en esa tarea y de santificar a los demás con el ejercicio de la
propia profesión, cada uno en su propio estado».21
La segunda parte de la frase, en su expresividad y concisión, es una
síntesis perfecta de la finalidad, del espíritu peculiar y del modo apostólico
propio del Opus Dei, y a fortiori de lo que significa serlo y hacerlo. Estudiar la
relación trabajo–santidad según los términos señalados en esa frase significa
enfocar y examinar la clave teológica más característica y profunda del
espíritu fundacional. Ahondar en este punto es tarea necesaria.22 Los textos
de san Josemaría sobre esta temática central son abundantes.23
Aunque esa importante cuestión no sea el objetivo propio del estudio que
estamos desarrollando, es oportuno sin embargo aludir a uno de sus
aspectos principales, como es en concreto la relación entre vocación
personal al Opus Dei y trabajo profesional. Elegimos al respecto, entre otros
muchos semejantes, tres pasajes de san Josemaría –característicamente
suyos, cabría decir– en los que se descubren nuevos interesantes matices.
En el primero de estos pasajes, el trabajo es presentado como el eje en
torno al cual se acrisola el progreso en la santidad personal (la perfección
cristiana) del fiel corriente, con su correspondiente influjo apostólico. Dice
así:
Dentro de la espiritualidad laical, la peculiar fisonomía espiritual, ascética, de la Obra aporta
una idea, hijos míos, que es importante destacar. Os he dicho infinidad de veces, desde 1928, que
el trabajo es para nosotros el eje, alrededor del cual ha de girar todo nuestro empeño por lograr
la perfección cristiana. Al buscar en medio del mundo la perfección cristiana, cada uno de
nosotros ha de buscar también necesariamente la perfección humana, en su propia labor
profesional. Y, a la vez, ese trabajo profesional es eje alrededor del cual gira todo nuestro empeño
apostólico.24
La idea del trabajo de cada día como eje de giro y de sostén para el que
busca la santidad en medio de la vida de cada día, es característica del
fundador. El trabajo cotidiano, el propio quehacer diario, no ocupa
necesariamente todas las horas del día, pero las ordena y convierte a
algunas en el escenario principal de la jornada: es decir, si se quiere, en el
escenario principal de encuentro personal con Dios, de práctica de la virtud
(caridad, justicia, templanza, humildad…; en suma, vida de persona de fe),
y puede ser siempre ofrenda aceptable a Dios.
En ese sentido, un importante punto a destacar en ese texto, y
consecuentemente en la doctrina fundacional que expone –destacable
asimismo de cara a la cuestión de qué es ser Opus Dei y hacer el Opus Dei–,
consiste en la afirmación de que para alcanzar la perfección cristiana a través
del propio trabajo (perfección de buen cristiano, perfección de la caridad, es
decir, la santidad: esto ha de ser siempre lo primero en la intención), se
requiere necesariamente buscar la perfección humana en dicho trabajo (esto,
aunque inseparable de lo primero, ha de ser intencionalmente lo segundo):
hacerlo bien, como el mejor («mis hijos procuran realizar bien el trabajo
ordinario, ser –por amor de Dios y en servicio de todos los hombres– como
el mejor de sus colegas»).25 Como siempre que se habla de trabajo
santificado del cristiano conforme al espíritu del Opus Dei, la referencia
cristológica está implícitamente presente.
En el segundo de los pasajes que hemos elegido, san Josemaría reemplaza
la imagen del eje por la del quicio, igualmente reveladora de su pensamiento.
Lo expresa así:
Lo propio de nuestra entrega, hijas e hijos míos, no es algo artificioso: es la sencilla naturalidad
de quien, en medio del mundo, ha recibido la llamada de Dios para elevar su vida al plano
sobrenatural, permaneciendo después de la llamada divina en el mismo lugar que tenía en la
sociedad de los hombres, y encontrando –precisamente en el trabajo profesional, conciudadano
igual a sus conciudadanos– el quicio sobre el que se apoya todo un camino de santidad y de
apostolado.26
No es necesario repetir lo ya señalado al comentar la idea del trabajo como
eje de la cotidiana búsqueda de la santidad, pues con la imagen del quicio se
pretende expresar la misma idea. Pero el texto depara otro importante
toque de atención: el trabajo de cada cual, en medio del mundo, el mismo
antes y después de recibir y aceptar la vocación divina al Opus Dei, ha
pasado a tener ante uno mismo, ante la propia autoconciencia, un
significado nuevo y profundo. Sin cambios en su propio estatuto, ese trabajo
ha sido elevado por Dios a otro ámbito de realidad y de sentido. Ya no es
solo trabajo mío sino también, y por encima de todo, quicio de un camino de
santidad y de apostolado, camino de identificación con Cristo.
En el tercer y último pasaje, las imágenes del eje y del quicio se encuentran
sustituidas por otra, aún más expresiva y concluyente, a nuestro entender: la
de piedra angular. El trabajo es mostrado como base o fundamento sobre el
que va levantando el edificio de la santidad personal y del apostolado: «La
Obra, inspirada por Dios, ha venido a traer un espíritu específicamente
laical, enseñando que el trabajo es piedra angular de la vida interior y
apostólica: la materia que hay que santificar y el instrumento para la
santificación propia y ajena».27
Contienen esas palabras un nuevo matiz a resaltar: el espíritu del Opus Dei
es un espíritu específicamente laical, en el sentido de secular, civil, propio de
cristianos que están en el mundo como en su lugar nativo, como ciudadanos
entre ciudadanos.
VI. ESENCIAL SECULARIDAD Y ESPECIAL PERSPECTIVA CRISTOCÉNTRICA
a) Esencial secularidad
En todo lo que llevamos dicho está latiendo con fuerza la noción de
secularidad, esencial para comprender qué es ser Opus Dei y hacer el Opus Dei.
Es este un tema de máxima importancia.
La secularidad es presentada siempre por san Josemaría como nota
básica y definitoria de su espíritu. Calar en su contenido específico es
condición sine qua non para comprender también la especificidad de la
vocación al Opus Dei y de la misión evangelizadora llevada a cabo por sus
miembros, radicadas ambas en su ordinaria condición de ciudadanos, esto
es: en su empeño en buscar la santidad en la vida corriente; en la
comprensión de que el trabajo cotidiano realizado con perfección es quicio
de la santificación; en su amor al mundo; en el compromiso apostólico
dentro del propio ambiente personal, familiar, profesional, social.
Los fieles del Opus Dei (laicos o sacerdotes) gozan una vocación íntegra de
cristianos seculares, para cooperar gustosamente con Jesucristo en la obra
de la redención (la salvación de las almas, el hacerse de la Iglesia),
santificando el trabajo ordinario y santificándose en él, ayudando también
con él a los demás a santificarse.
Todo está claramente expuesto en el siguiente amplio pasaje de san
Josemaría:
La secularidad es otra característica importantísima de nuestra llamada. Está constituida por el
conjunto de actividades personales, profesionales, intelectuales o manuales, que forman el munus
publicum –es decir, conocido por todos– con el que obtenemos los medios, a través de ese trabajo
profesional […].
Con esos medios debe vivir cada ciudadano […], sostener su hogar y su familia, y contribuir a la
vida pública del país, pagando sin buscar privilegios los impuestos, cumpliendo todos los otros
deberes de ciudadano y ejercitando sin cobardía todos los derechos.
La secularidad, hijos míos, es la presencia efectiva, real y jurídica, sin limitaciones canónicas
una presencia de pleno derecho–, de estas almas dedicadas al servicio del Señor y de la Iglesia,
en el mundo: en cualquiera de las actividades honestas de los hombres, sin ninguna
diferenciación jurídica de los otros fieles o ciudadanos, si se trata de laicos. Y lo mismo si se trata
de sacerdotes, porque los miembros del Opus Dei que son sacerdotes viven la vida corriente
secular de todos los demás sacerdotes seculares.
La Iglesia, en nuestro derecho peculiar, ha conservado a los miembros del Opus Dei la misma
personalidad que tenían antes de venir a la Obra, para que puedan santificarse y santificar en el
mundo con la gracia divina, con su esfuerzo y con los medios que les da su entrega.28
Cada uno de esos párrafos aborda la sencilla realidad de la secularidad del
cristiano corriente del Opus Dei, la de su estar en el mundo como uno más,
desde alguna de sus características propias. En primer lugar –párrafo
primero– se destaca la realidad humana que le acomuna con los habitantes
del mundo secular: la actividad laboral que desempeña, que le cualifica y de
la que vive. A continuación –segundo párrafo–, se acentúa la justa carga
familiar y social que como normal ciudadano sostiene con su trabajo,
contribuyendo al bienestar de los suyos y al bien común de la sociedad. En
tercer lugar –párrafo tercero–, se pone de relieve la sustancial dimensión
jurídico-canónica secular que le identifica, como laico o sacerdote, en el
ámbito civil o eclesial. Finalmente –párra fo cuarto– se hace notar el
reconocimiento de los anteriores aspectos por parte de la Iglesia, y su
adecuada autentificación en los Estatutos o Código de derecho particular de
la Prelatura del Opus Dei.
La plena secularidad es, pues, una cualidad originaria y radical del
espíritu y de la vocación al Opus Dei. No se trata de un elemento accidental
sino de algo que les pertenece sustancialmente:
Nuestra vocación –manifiesta el fundador– hace precisamente que nuestra condición secular,
nuestro trabajo ordinario, nuestra situación en el mundo, sea nuestro único camino para la
santificación y el apostolado. No es que tengamos esa ocupación secular para encubrir una labor
apostólica, sino que es la ocupación que tendríamos si no hubiésemos venido al Opus Dei; y la que
tendríamos si tuviéramos la desgracia de abandonar nuestra vocación.29
De ahí que se pueda afirmar, como enseña san Josemaría –y como se viene
manifestando en las páginas anteriores–, que la vocación profesional de un
miembro del Opus Dei, su trabajo, sea el que sea, es parte, y parte
importante, de su vocación divina. Dios le ha llamado a ser y a hacer el Opus
Dei precisamente ahí, en su vida y en su ámbito profesional. Nunca se
subrayará suficientemente la importancia de este punto esencial, en el que
resalta a la vez, como es lógico, la primacía de la llamada a la santidad.
La secularidad del espíritu de santificación recibido, así como la de su
trabajo y la de su vida entera, la realidad de ser antes de acoger su vocación
personal un ciudadano más entre sus conciudadanos y lo mismo después,
pero siendo ahora además una persona totalmente entregada al servicio de
Dios y de la Iglesia en el Opus Dei, es asimismo el fundamento de la tarea
apostólica encomendada en el seno de la sociedad:
Recordad, queridísimos hijos e hijas, lo que desde el comienzo de nuestra Obra os he enseñado:
la vocación profesional, cualquiera que sea, es para nosotros parte de nuestra vocación divina.
De palabra y por escrito, continuamente os he explicado de qué modo la profesión o el oficio
que cada uno de nosotros ejerce en el mundo– es base y fundamento de nuestra santidad y de
nuestra acción apostólica.30
No ha cambiado nada en cuanto al modo de estar en el mundo y de
ganarse la vida, pero al mismo tiempo se ha de afirmar que con la vo cación
divina ha cambiado el sentido de la entera realidad profesional y de la
propia existencia. Lo que antes era mi trabajo y mi mundo –podría afirmar
un fiel del Opus Deiha adquirido con la vocación, sin dejar de ser lo que
era, un nuevo y profundo sentido de servicio a Dios:
Hijas e hijos míos: Dios se ha metido en nuestro camino, con su omnipotencia soberana nos ha
complicado la vida, dándole un sentido nuevo. Sin embargo, sabéis bien que en lo exterior nada
ha cambiado; el Señor quiere que le sirvamos precisamente donde nos condujo nuestra vocación
humana: en nuestro trabajo profesional: unusquisque, in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat (I Cor.
VII, 20), permanezca cada uno en la vocación que tenía, en el momento en que Dios le llamó.31
La solidez de permanecer en el propio estado y de ganarse la vida en medio
de la sociedad, junto con la novedad de haber encontrado ahí, sin
abandonar esas coordenadas de la propia existencia, la llamada a abrazar
plenamente la fe cristiana, la identificación con Jesucristo y con su mensaje
de salvación, pone al fiel del Opus Dei en una situación excelente para influir
apostólicamente en todos los ambientes de la sociedad y ayudar a
transformarlos en lugar de encuentro con Cristo. Lo formula agudamente
san Josemaría: «Somos una inyección intravenosa, puesta en el torrente
circulatorio de la sociedad, para que vayáis –hombres y mujeres de Dios–
[...] a inmunizar de corrupción a todos los mortales y a iluminar con luces
de Cristo todas las inteligencias».32
O, con otras palabras: «podremos fácilmente ser –ya os lo he dicho– […]
una transfusión continua de la fuerza vital cristiana en el torrente
circulatorio de la sociedad».33
La fuerza vital que un cristiano está en condiciones de transfundir en la
sociedad es justamente su testimonio personal –palabras y obras– de Cristo.
En el horizonte de la existencia del hombre sobre la tierra ha encendido
Dios la poderosa luz de Jesucristo. Bajo el resplandor de su claridad, sólo
bajo él, nuestra existencia individual y colectiva, nuestras relaciones
interpersonales, nuestro mundo, superan y dejan atrás toda suerte de
tinieblas, y manifiestan por el contrario la armonía originaria con la que
fueron concebidos por el Creador: su consonancia con la amorosa
Sabiduría de Dios. Bajo la luz de Jesucristo, el hombre y su mundo, sin dejar
de ser lo que son, alcanzan su pleno sentido y muestran su verdadera
condición: ser un testimonio viviente de la Bondad, la Verdad y la Belleza
de Dios: un testimonio de su gloria.
Jesucristo, Verbo encarnado, es para los hombres vida, verdad, luz: «luz
verdadera que ilumina a todo hombre que viene a este mundo» (Jn 1,9),
añadiendo san Juan en el Prólogo de su Evangelio unas palabras que
contienen –como comenta san Juan Pablo II– «la verdad más profunda que
le ha sido dado a conocer al hombre respecto a la vida»,34 que suena así: «Y
el Verbo se hizo carne, y habitó entre nosotros» (Jn 1,14). Ahí se encuentra
también, en consecuencia, el fundamento en el que se sostiene el sentido
cristiano de la vida. Su contenido esencial se puede expresar diciendo: el
significado pleno del hombre y de la existencia humana sólo se halla en
Jesucristo, y por tanto la vida del hombre pide ser vivida bajo el signo y la
luz de Jesús, inspirada en Él, identificada con la suya. Este es también el
núcleo de la verdad que ilumina la conciencia cristiana, que es básicamente
conciencia de pertenecer a Cristo, de ser uno de los suyos y existir en su
entorno vital.
En el discurso antes citado señala también san Juan Pablo II: «Cristiano
es el que libre y gozosamente imprime a la propia existencia el nuevo ritmo
que la venida de Cristo ha dado a la vida humana. Tened siempre la
valentía de emplear así vuestra libertad, dejando que en vuestra existencia –
inteligencia, sensibilidad, afectos– pulse este nuevo ritmo de vida
inaugurado por el Hijo de Dios hecho hombre».35 Si esa es la condición y la
convicción personal que especifica la existencia de los cristianos, su principal
aportación –la fuerza vital transmitida– a la convivencia social estribará,
lógicamente, en vivir en pleno acuerdo con ella. Desde el comienzo del
cristianismo rige, como es bien sabido, este mismo principio: la tarea
apostólica primordial de los creyentes consiste en dar testimonio de su
sentido de la persona y de la existencia humana individual y colectiva
conforme al modelo de Jesucristo. Al cristiano se le pide la audacia de
asumir el ʻritmo de vidaʼ impuesto por el Hijo de Dios hecho hombre y
mostrarlo con valentía a la sociedad para tratar de moverla a emulación,
según la expresión paulina (cfr. Rm 11,11-14).
b) Especial perspectiva cristocéntrica
Para realizar la misión encomendada hacer el Opus Dei siendo cada uno Opus
Dei– le es necesario al fiel de la Prelatura:
en cuanto cristiano –ya ha sido comentado– identificarse amorosamente
con Jesucristo, tener la cabeza y el corazón centrados en Él
(cristocentrismo);
en cuanto cristiano en el Opus Dei, imitar e identificarse especialmente con
Él en su vida corriente de trabajo como uno más durante treinta años
(singular luz cristocéntrica del espíritu fundacional).
Es obvio que el trabajo ordinario de Jesús en Nazaret, por razón de Quien
lo realizaba y por la intención con la que era realizado –la gloria del Padre–
era un trabajo santo y santificador, labor redentora, operatio Dei.
Acudimos a la enseñanza de san Josemaría transcribiendo dos nuevos
pasajes de sus escritos. El primero dice así:
Esos años ocultos del Señor no son algo sin significado, ni tampoco una simple preparación de
los años que vendrían después: los de su vida pública. Desde 1928 comprendí con claridad que
Dios desea que los cristianos tomen ejemplo de toda la vida del Señor. Entendí especialmente su
vida escondida, su vida de trabajo corriente en medio de los hombres: el Señor quiere que
muchas almas encuentren su camino en los años de vida callada y sin brillo».36
Como parte integrante de la ejemplaridad para el cristiano de toda la vida del
Señor, lógicamente una verdad conocida por el fundador, pero comprendida
sin embargo por él con claridad –es decir, con particular lucidez– desde el
momento de la inspiración carismática del 2 de octubre de 1928, subraya
san Josemaría en el pasaje lo que ha entendido especialmente. Y esto es la vida
de trabajo corriente en medio de los hombres de Jesucristo en sus treinta años de vida
callada y sin brillo. Todo en Cristo es ejemplar y, como tal, fuente de imitación
y de santificación, pero la luz fundacional del Opus Dei recae de modo
especial sobre su trabajo cotidiano, trabajo santo del Hijo de Dios que es ya
glorificación de su Padre y redención de los hombres. He ahí la enseñanza a
propagar: el Señor quiere que muchas almas encuentren su camino de identificación
con Cristo (santidad y apostolado) en su diario trabajo de cada día.
El tenor del segundo pasaje anunciado es muy similar, aunque más
explícito. El fundador se dirige de manera expresa a quienes han recibido y
acogido la llamada al Opus Dei –a serlo y a hacerlo, como estamos
considerando– y les exhorta, como gente corriente que son, a imitar la
cotidianidad santificada de Jesús:
Hemos, pues, de imitar a Jesús en sus treinta años de vida oculta, aunque –precisamente porque
no somos raros– nos llamen raros: ya estamos acostumbrados a oír estos despropósitos. Imitadle,
repito, en aquellos largos treinta años. Vedlo cómo pasa casi toda su vida, como escondido en un
pequeño pueblecito galileo, dedicado siempre al mismo trabajo, viviendo siempre en el mismo
ambiente, donde los mínimos detalles cotidianos son también siempre los mismos.
No olvidéis que es notable la desproporción numérica que hay entre los treinta años de vida
oculta –dedicados a una tarea igual, continua y monótona, en medio de unos pocos hombres– y
los tres años de vida pública, de predicación, de contacto inmediato con el pueblo, de viajes
frecuentes de ciudad en ciudad.37
Es patente, para el que quiera prestar atención –y san Josemaría nos ayuda
a hacerlo–, que el Señor ha querido dejar a sus discípulos y a todos los
hombres un mensaje claro con esa notable desproporción numérica. Y su
contenido es éste: tan propiamente suyos son los treinta años de Nazaret,
dedicados a una tarea igual, continua y monótona, en medio de unos pocos hombres,
como los tres de predicación y manifestación mesiánica, previos a la
culminación de su misión. Aquellos treinta como estos tres son los años del
Hijo de Dios hecho hombre ʻpor nosotros y por nuestra salvaciónʼ, llenos de
amor filial al Padre y de amor fraterno a los hombres. Todos alcanzan su
plenitud de sentido en la Cruz, tanto los tres inmediatos a ella como los
previos treinta informados también por ella. Esa plenitud es la de llevar a
cumplimiento de la voluntad de Padre, que es la intención manifiesta de
Jesús a los doce años (cfr. Lc 2,41-50), como en el Calvario y, siendo Él el
mismo, durante todo el periodo intermedio vivida bajo el signo de la Cruz.
La vida cotidiana del cristiano –al que se le pide tomar su cruz de cada día
(cfr. Lc 9,23)–, los largos años de su existencia en esta tierra, llenos de días
semejantes, han de tomar ejem plo de la cotidianidad filial de Jesucristo
durante sus treinta años de Nazaret, años de normalidad y de trabajo,
iluminados y orientados hacia la Cruz, es decir, digámoslo una vez más,
hacia el pleno cumplimiento de la voluntad salvífica de Dios, Padre suyo y
nuestro.
VII. FORMACIÓN ESPECÍFICA
Conviene señalar por último, para cerrar estas páginas, que a fin de ser Opus
Dei y hacer el Opus Dei, los fieles de la Prelatura reciben una profunda
formación espiritual, teológica y apostólica, adecuada en cada caso a sus
circunstancias personales, y encaminada a ayudarles a progresar en la
identificación personal con Cristo (ser otro Cristo), en una unidad de vida
enteramente cristocéntrica, madurada con ayuda de la gracia en la
búsqueda y el encuentro con el Señor en el trabajo bien hecho, en la
convivencia amable con todos y con un sentido apostólico despierto.
Por expresarlo sintéticamente –podría también expresarse de otras
muchas maneras–, cabe decir que en el Opus Dei se les enseña a:
a) Revestirse de Cristo, en el significado paulino de la expresión: conformarse
con Él, identificarse con su modo de ser y obrar, reflejarlo en la propia
conducta, imitar con obras su caridad, integrados en el dinamismo de su
amor al Padre, a todos los hombres y a la entera creación. Un buen ejemplo
son estas palabras del fundador:
Seguir a Cristo: este es el secreto. Acompañarle tan de cerca, que vivamos con Él, como aquellos
primeros doce; tan de cerca, que con Él nos identifiquemos. No tardaremos en afirmar, cuando
no hayamos puesto obstáculos a la gracia, que nos hemos revestido de Nuestro Señor Jesucristo
(cfr. Rm XIII, 14). Se refleja el Señor en nuestra conducta, como en un espejo. Si el espejo es
como debe ser, recogerá el semblante amabilísimo de nuestro Salvador sin desfigurarlo, sin
caricaturas: y los demás tendrán la posibilidad de admirarlo, de seguirlo.38
b) Vivir en Cristo, es decir, vivir según el Espíritu Santo: dóciles a sus
estímulos. Vivir de fe, de esperanza y de caridad, como los primeros
cristianos, como contemplativos en medio del mundo, encontrando a Cristo
en la oración y en la Eucaristía, confiando filialmente en Santa María y
buscando su cercanía: «En la vida espiritual no hay una nueva época a la
que llegar. Ya está todo dado en Cristo, que murió, y resucitó, y vive y
permanece siempre. Pero hay que unirse a Él por la fe, dejando que su vida
se manifieste en nosotros, de manera que pueda decirse que cada cristiano
es no ya alter Christus, sino ipse Christus, ¡el mismo Cristo!».39
c) Dar a conocer a Cristo, esto es, llevar a cabo una constante labor de
evangelización en el propio ámbito profesional, familiar y social: una
catequesis amplia, adecuada a las circunstancias de los oyentes. Todo fiel de
la Prelatura está capacitado, por la formación recibida, a desarrollar un
audaz apostolado personal de amistad y confidencia, en y a través, principalmente,
de la tarea profesional de cada uno. Está preparado y dispuesto para ser
testigo de Cristo, para darlo a conocer y atraer a otros al encuentro personal
con Él:
El Señor quiere que seamos pueblo con el pueblo, ciudadanos entre los ciudadanos, trabajando
codo con codo –porque el trabajo profesional es nuestro medio específico de santidad y de
apostolado– con quienes precisamente así, trabajando, hacen evolucionar el mundo.
Ahí comienza nuestra catequesis, nuestra exposición de la sabiduría de Cristo a los hombres,
dando testimonio de solidaridad humana y de caridad social: concretamente, de solidaridad y de
caridad con el compañero de profesión o de oficio.
Después viene –nace espontáneamente– la amistad y la confidencia y, con el trato, la posibilidad
fácil y natural de llevar a las almas, y también a la actividad profesional que os es común con los
demás ciudadanos, la luz de la doctrina de Cristo. ¡Qué sencillo y evangélico –y por eso, qué
tradicional: con sabor de primitiva cristiandad– es lo que el Señor nos pide!40
De este modo, en definitiva, siendo Opus Dei van haciendo el Opus Dei, del que
sabemos que –«mientras haya hombres en la tierra»41 continuará
edificándose, pues la misión encomendada es como un mar sin orillas, «que
actúa –desde dentro– en todas las profesiones y en todos los oficios, desde
los más altos hasta los más humildes, con el mayor respeto a la libertad
individual de cada hombre».42
1 «¡Si nuestra vida es ser Opus Dei y hacer el Opus Dei!» (Meditación, 5-IV-1955, en Archivo General de
la Prelatura [=AGP], serie A.4, 67-3); «Te doy gracias por haberme llamado a ser Opus Dei y a hacer
el Opus Dei» (Meditación, 3-X-1952, en AGP, serie A.4, 66-3). Los textos en los que no se señala el autor
son siempre de san Josemaría Escrivá de Balaguer.
2 Son muchos los textos de san Josemaría que recogen este sentir de identidad eclesial. Escogemos un
par de una de sus cartas, pero antes señalamos una premisa: los textos de san Josemaría que él mismo
denominaba Cartas, y cuyos primeros destinatarios son los miembros del Opus Dei, están comenzando
a ser puestos al alcance general de los lectores a través de ediciones críticas incluidas en la Colección
de sus Obras Completas. Ya han visto la luz dos primeros volúmenes que contienen un total de ocho
Cartas (Cartas I, ed. crítica y anotada, preparada por L. CANO, Rialp, Madrid 2020; y Cartas II, ed.
crítica y anotada, preparada por L. CANO, Rialp, Madrid 2022), a los que seguirán sucesivamente
otros. Los textos a los que nos referíamos son: «La única ambición, el único deseo del Opus Dei y de
cada uno de sus hijos es servir a la Iglesia, como Ella quiere ser servida, dentro de la específica
vocación que el Señor nos ha dado» (Carta 8 [datada 31-V-1943], n. 1/a, en Cartas II, 191); «Los
miembros del Cuerpo Místico son ciertamente variadísimos, pero todos pueden resumir su misión en
el servicio a Dios, a la totalidad del Cuerpo Místico, a las almas» (ibidem, n. 4/b, en Cartas II, 193).
3 Carta 15 (datada 8-XII-1949), n. 58, en AGP, serie A.3, 93-1. En el presente trabajo, además de
otras obras de san Josemaría, citamos pasajes de algunas de esas Cartas ya publicadas –las primeras
ocho–, así como también párrafos breves y contrastados de otras, todavía en trámite de publicación y
de las que señalaremos su colocación en el Archivo General de la Prelatura.
4 Carta nº 25 (datada 28-III-1955), n. 3, en AGP, serie A.3, 94-1.
5 Carta nº 16 (datada 14-II-1950), n. 4, en AGP, serie A.3, 93-2.
6 «A su pregunta repetida cuatro veces, recibe una singular respuesta “Que soy era inmaculada Concepciou”
(Yo soy la inmaculada Concepción). Al párroco no le gusta la respuesta: “¡La Virgen no es su
concepción!”. Necesitará tiempo para comprender ese estilo figurativo: María se define mediante el
primer don por ella recibido» (R. LAURENTIN, Lourdes, en S. DE FIORES, S. MEO (dir.), Nuevo Diccionario
de Mariología, Ediciones Paulinas, Madrid 1988, 1160). Cfr. IDEM, Vida de Bernadette, Herder, Barcelona
1982, 93.
7 «el amor mismo es conocimiento» (GUILLERMO DE SAINT-THIERRY, Exposición sobre el Cantar de los
Cantares, Primer Canto, n. 54, Sígueme, Salamanca 2013, 88).
8 Carta nº 22 (datada 15-VIII-1953), n. 6, en AGP, serie A.3, 93-3.
9 CONCILIO VATICANO II, Const. dogm. Lumen gentium, 21-XI-1964, n. 1.
10 Ibidem, n. 48.
11 Carta nº 19 (datada 14-IX-1951), n. 31, en AGP, serie A.3, 93-2.
12 Un par de ejemplos: «Pero yo, mientras me quede aliento, no cesaré de predicar la necesidad
primordial de ser alma de oración ¡siempre!, en cualquier ocasión y en las circunstancias más
dispares, porque Dios no nos abandona nunca» (Amigos de Dios, n. 247/a, ed. crítico-histórica
preparada por A. ARANDA, Rialp, Madrid 2019, 722-723). «¿No es verdad que has visto la
necesidad de ser alma de oración, con un trato con Dios que te lleva a endiosarte? Esa es la fe cristiana
y así lo han comprendido siempre las almas de oración» (Es Cristo que pasa, n. 8/b, ed. crítico-histórica
preparada por A. ARANDA, Rialp, Madrid 2013, 182).
13 Cfr., por ejemplo, A. VÁZQUEZ DE PRADA, El Fundador del Opus Dei, I (“¡Señor, que vea!”), Rialp,
Madrid 1997, 379-384.
14 Apuntes íntimos, n. 217, en AGP, serie A.3, 88. También en VÁZQUEZ DE PRADA, El Fundador del Opus
Dei, I, 380-381.
15 Carta nº 3 (datada 9-I-1932), n. 2/d, en Cartas I, 162-163.
16 Carta nº 13 (datada 29-XII-1947/14-II-1966), n. 89, en AGP, serie A.3, 92-6.
17 Cfr. J.L. GONZÁLEZ GULLÓN, La fecundidad de la Cruz: Una reflexión sobre la exaltación y la atracción de
Cristo en los textos joánicos y la literatura cristiana antigua, Edusc, Roma 2003. J.F. HERRERA GABLER, Cristo
exaltado en la Cruz. Exégesis y teología contemporáneas, Eunsa, Pamplona 2012.
18 En la Facultad de Teología de la Universidad de Navarra, por ejemplo, se encuentra en fase de
elaboración una tesis doctoral sobre el tema: Exaltación y atracción de Cristo en la cruz, en la teología y en la
espiritualidad de los siglos X-XX.
19 Cfr. Es Cristo que pasa, nn. 102-116 (ed. crítico-histórica, 551-608).
20 La fórmula «santificar el propio trabajo, santificarse en su trabajo y santificar a los demás con el
trabajo» la utilizó también san Josemaría para explicar lo que supone ser santo para la mayoría de los
hombres (cfr. Conversaciones con Mons. Escrivá de Balaguer, n. 55/c, ed. crítico-histórica preparada por J.L.
ILLANES, A. MÉNDIZ, Rialp, Madrid 2012, 284). Señalamos algunos títulos de la bibliografía sobre la
santificación del trabajo en san Josemaría: G. FARO, Il lavoro nell’insegnamento del beato Josemaría Escrivá,
Agrilavoro, Roma 2000; J.L. ILLANES, La santificación del trabajo, Palabra, Madrid 200110; G. FARO (a
cura di), Lavoro e vita quotidiana, Edusc, Roma 2003; J. BOROBIA et al. (eds.), Trabajo y Espíritu. Sobre el
sentido del trabajo desde las enseñanzas de Josemaría Escrivá en el contexto del pensamiento contemporáneo, Eunsa,
Pamplona 2004; E. BURKHART, J. LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, 3,
Rialp, Madrid 2013, 19-221; J. LÓPEZ, F. REQUENA (a cura di), Verso una spiritualità del lavoro, Edusc,
Roma 2018; J.H. LIU, La santificación del trabajo en el Magisterio de la Iglesia y en las enseñanzas de los santos del
siglo XX, Edusc, Roma 2021.
21 Es Cristo que pasa, n. 122/b (ed. crítico-histórica, 640).
22 La bibliografía al respecto es ya muy abundante. Nos limitamos a señalar algunos estudios de
mayor entidad, como, entre otros: P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo, contemplación, Eunsa, Pamplona
1986; F. OCÁRIZ, El concepto de santificación del trabajo, en IDEM, Naturaleza, gracia y gloria, Eunsa,
Pamplona 2000, 263-271; J.L. ILLANES, Existencia cristiana y mundo. Jalones para una reflexión teológica sobre
el Opus Dei, Eunsa, Pamplona 2003; M. RHONHEIMER, Transformación del mundo. La actualidad del Opus
Dei, Rialp, Madrid 2006; E. BURKHART, J. LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San
Josemaría: estudio de teología espiritual, 3 vols., Rialp, Madrid 2010-2013; A. ARANDA, El hecho teológico y
pastoral del Opus Dei, Eunsa, Pamplona 20212.
23 Entre los ya publicados pueden señalarse en particular la Carta 3 (Cartas I, 155-251) y la homilía
Trabajo de Dios, en Amigos de Dios, nn. 55-72 (ed. crítico-histórica, 283-358).
24 Carta nº 31 (datada 25-I-1961), n. 10, en AGP, serie A.3, 94-2.
25 Carta nº 24 (datada 31-V-1954), n. 18, en AGP, serie A.3, 93-3.
26 Carta nº 21 (datada 12-XII-1952), n. 23, en AGP, serie A.3, 93-3.
27 Carta nº 11 (datada 6-V-1945), n. 14, en AGP, serie A.3, 92-4.
28 Carta nº 13 (datada 29-XII-1947 / 14-II-1966), n. 114, en AGP, serie A.3, 92-6.
29 Carta nº 23 (datada 19-III-1954), n. 26, en AGP, serie A.3, 93-3.
30 Carta nº 16 (datada 14-II-1950), n. 6, en AGP, serie A.3, 93-2.
31 Carta nº 14 (datada 15-X-1948), n. 1, en AGP, serie A.3, 92-7.
32 Instrucción, 19-III-1934, n. 42, en AGP, serie A.3, 89-1.
33 Carta nº 6 (datada 11-III-1940), n. 34/c, en Cartas II, 84-85.
34 JUAN PABLO II, Discurso a los participantes en el Congreso Internacional promovido por el Instituto para la
Cooperación Universitaria, 14-IV-1981.
35 Ibidem.
36 Es Cristo que pasa, 20/a (ed. crítico-histórica, 236-237).
37 Carta nº 13 (datada 29-XII-1947 / 14-II-1966), n. 137, en AGP, serie A.3, 92-6.
38 Amigos de Dios, 299/d (ed. crítico-histórica, 841-842).
39 Es Cristo que pasa, 104/c (ed. crítico-histórica, 576-577).
40 Carta nº 32 (datada 25-V-1962), n. 12, en AGP, serie A.3, 94-2.
41 Carta nº 3 (datada 9-I-1932), n. 92/a, en Cartas I, 236.
42 Carta nº 20 (datada 24-XII-1951), n. 78, en AGP, serie A.3, 95-2.
CARISMI IN RELAZIONE:IDENTITÀ E
CONDIVISIONE
FABIO CIARDI
Istituto di Teologia della vita consacrata “Claretianum”, Roma
RIASSUNTO: Il tema si fonda su un duplice
asserto: i carismi trovano la loro piena identità
soltanto nella condivisione del dono che
esprimono, percla condivisione è nella natura
stessa del carisma; la condivisione arricchisce i
carismi consentendo la piena manifestazione
delle potenzialità in essi racchiuse. Nella
reciproca condivisione vi è infatti un “di più”,
che va oltre la somma delle componenti, e che ha
la consistenza nella realtà mistica del Signore
Risorto presente tra quanti sono uniti nel suo
nome. Gli ambiti e le modalità della condivisione
vengono analizzati in cinque momenti: (I) i
carismi personali all’interno del carisma comune,
(II) il carisma comune in relazione alla Famiglia
carismatica, (III) i carismi dei differenti Istituti e
Movimenti in relazione tra di loro, (IV) i carismi
in relazione con le diverse vocazioni ecclesiali,
(V) i carismi in relazione con il mondo.
PAROLE CHIAVE: Carisma, Cammino sinodale,
Famiglia carismatica, Vita consacrata, Comunità
religiosa.
ABSTRACT: The theme is based on a double
statement: the charisms find their full identity
only in sharing the gift they express, because
sharing is in the very nature of the charism;
sharing enriches the charisms allowing the full
manifestation of the potential contained within
them. In mutual sharing there is in fact a
“more”, which goes beyond the sum of the
components, and which has consistency in the
mystical reality of the Risen Lord present among
those who are united in his name. The areas and
methods of sharing are analyzed in five
moments: (I) the personal charisms within the
common charism, (II) the common charism in
relation to the charismatic family, (III) the
charisms of the different Institutes and
Movements in relation to each other, (IV) the
charisms in relation to the different ecclesial
vocations, (V) the charisms in relation to the
world.
KEYWORDS: Charism, Synodal Pathway,
Charismatic Family, Consecrated Life, Religious
Community.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 119-138
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202404
SOMMARIO: I. Carismi personali in relazione all’interno del medesimo carisma. II. Carismi in relazione all’interno
della Famiglia carismatica. III. Carismi in relazione tra di loro. IV. Carismi in relazione con le diverse vocazioni
ecclesiali. V. Carismi in relazione con il mondo. VI. Un metodo per la comunione.
Sono grato e onorato per l’invito rivoltomi ad aprire questa giornata di
studio con una relazione sul tema “Carismi in relazione: identità e
condivisione” 1. Il titolo affidatomi è di una chiarezza cristallina. Mi
basterebbe formularlo in maniera assertiva almeno nel senso in cui l’ho
inteso e sarei esonerato dal trattarlo: i carismi trovano la loro piena
identità soltanto nella condivisione dei doni che esprimono, perché la
condivisione è nella natura stessa del carisma. Nello stesso tempo la
condivisione arricchisce il carisma consentendogli la piena manifestazione
delle potenzialità in esso racchiuse. Nella reciproca condivisione vi è infatti
un di più che va oltre la somma delle componenti, un di più che ha la
consistenza mistica nel Signore Risorto presente tra quanti sono uniti nel
suo nome.
Cosa potrò dunque aggiungere a questa affermazione che, almeno a me,
appare già così chiara? Forse potrei cercare di indicare alcune modalità per
la sua attuazione. In grazia alla mia età – vado ormai per i 75 anni chiedo
inoltre la gentilezza di concedermi come si usa fare con i vecchi di
condividere qualcosa della mia esperienza in merito.
Articolo il tema in cinque momenti:
I. Carismi personali in relazione all’interno del medesimo carisma.
II. Carismi in relazione all’interno della Famiglia carismatica.
III. Carismi in relazione tra di loro.
IV. Carismi in relazione con le diverse vocazioni ecclesiali.
V. Carismi in relazione con il mondo.
Per terminare con una breve indicazione di metodo:
VI. Un metodo per la comunione.
I. CARISMI PERSONALI IN RELAZIONE ALLINTERNO DEL MEDESIMO CARISMA
A metà degli anni Settanta del secolo scorso la mia Famiglia religiosa e
non era la sola stava attraversando un momento particolarmente difficile,
nel ricco e sofferto passaggio del post-concilio. Fra l’altro, dopo appena due
anni dall’elezione, il superiore generale aveva dato le dimissioni. Fu in quel
momento che, al termine del biennio di specializzazione in ecclesiologia
presso la Pontificia Università Lateranense, mi fu chiesto di proseguire gli
studi nel campo della teologia della vita consacrata, per poter offrire un
contributo alla mia Famiglia religiosa.
Fu quello un atto di fiducia, da parte dei miei superiori, che valorizzava
una mia certa propensione allo studio. Con un po’ di pretesa ma mi serve
soltanto per avviare il discorso che vorrei esporre potrei dire che veniva
riconosciuto un mio piccolo carisma. Uno dei più recenti frutti è che da
tredici anni mi trovo ad essere il responsabile del “Servizio generale degli
studi oblati”, deputato all’approfondimento della storia, del carisma e della
spiritualità del mio Istituto: i Missionari Oblati di Maria Immacolata.
Altri miei compagni di noviziato hanno potuto valorizzare le proprie doti,
i propri talenti i propri carismi? in altri campi. Celso ha svolto il suo
ministero apostolico in Camerun, dove ha lavorato in territori vergini, con
una intraprendenza unica, portando alla fede migliaia di persone e creando
la Chiesa dove non era presente. Ora continua in Guinea Bissau con un
prezioso ministero di accompagnamento spirituale. Rino, adesso già in
paradiso, ha messo a servizio la sua vita nella missione in Bolivia e in
Guatemala; Giuseppe in quella dell’Uruguay e del Paraguay.
Quando pensiamo al carisma di un Istituto non possiamo immaginarlo
come una realtà monolitica, anonima. «La vita religiosa ha rilevato papa
Francesco il 7 novembre 2022 parlando ai membri dell’Istituto di vita
consacrata “Claretianum” si comprende solo da ciò che lo Spirito fa in
ciascuna delle persone chiamate»2. In effetti l’esperienza carismatica nella
quale lo Spirito Santo conduce un Fondatore è stata capace di coinvolgere i
primi compagni e gradualmente i successivi membri che sono venuti a
comporre l’Istituto in una dinamica di condivisione dei medesimi elementi
fondanti che caratterizzano l’esperienza iniziale, il carisma: è questo che fa
l’unità del gruppo. Nello stesso tempo ognuno ha offerto e offre un apporto
personale per la comprensione e l’attuazione del carisma. Come ricorda
l’Istruzione Mutuae relationes, «Anche ai singoli religiosi certamente non
mancano i doni personali, i quali indubbiamente sogliono provenire dallo
Spirito [si tratta dunque di “carismi” personali], al fine di arricchire,
sviluppare e ringiovanire la vita dell’istituto nella coesione della comunità e
dare testimonianza di rinnovamento»3.
Il primo livello della relazione tra carismi domanda dunque di essere
vissuto all’interno del comune carisma che caratterizza una famiglia
religiosa, per sua natura comunitario, collettivo, partecipato, condiviso, fatto
dal convergere di una molteplicità di persone attorno al medesimo progetto.
Il bisogno di condivisione carismatica nasce dalla consapevolezza che ogni
membro dell’Istituto è oggetto d’amore personale da parte di Dio, con una
vocazione propria nella comune vocazione, arricchito di doni particolari che
non sono soltanto per lui, ma per essere messi a servizio della medesima
missione, in modo che vi sia un unico convergere di tutti i membri della
Famiglia, in una dinamica di unità che arricchisce e potenzia il comune
carisma, in modo che possa dare la massima efficacia nel servizio alla
Chiesa.
Mi sembrano significativi i verbi dinamici e attivi che Mutuae relationes
impiega per indicare il contributo che i singoli membri di un Istituto sono
chiamati a offrire con i loro personali carismi: “arricchire, sviluppare e
ringiovanire”. Arricchire: il patrimonio carismatico ricevuto occorre farlo
fruttare ulteriormente. Sviluppare: il carisma, nella sua ricchezza, contiene
elementi ancora non pienamente espressi che attendono di essere portati
alla luce con intraprendenza, sperimentazione, creatività. Ringiovanire: il
carisma ha bisogno di essere attualizzato in contesti culturali sempre nuovi,
con la sensibilità del proprio tempo. È il compito di ciascuno, chiamato a
rendersi responsabile, attivo, protagonista nel portare avanti la missione
dell’Istituto.
La storia degli Ordini e delle Congregazione è ricca di esempi di persone
“carismatiche”, figure eminenti oppure ordinarie, a volte sante, che
all’interno dell’Istituto hanno favorito in maniera creativa lo sviluppo di
determinati aspetti della spiritualità o della missione, portando avanti
l’opera, la sua diffusione nel tempo e nello spazio, la sua capacità di
incidenza ecclesiale e sociale.
Occorre offrire spazio alla singola persona, dare la possibilità di
esprimere le diversità, liberare i doni di ognuno: vissuti con coordinazione e
armonia, costituiscono una via per la realizzazione della persona e un
arricchimento per l’intero gruppo.
È un tema particolarmente caro a papa Francesco, che ama fare
riferimento a una Chiesa modellata sul poliedro, piuttosto che sulla sfera.
Mentre nella sfera «ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono
differenze tra un punto e l’altro», nel poliedro confluiscono «tutte le
parzialità che in esso mantengono la loro originalità», capaci comunque di
“fare l’unità” tra loro.4 Di qui la convinzione di un’unità molteplice:
L’uniformità non è cattolica, non è cristiana. […] L’unità non è uniformità, non è fare
obbligatoriamente tutto insieme, pensare allo stesso modo, neppure perdere l’identità. Unità
nella diversità è precisamente il contrario, è riconoscere e accettare con gioia i diversi doni che lo
Spirito Santo ad ognuno e metterli al servizio di tutti nella Chiesa. Unità è saper ascoltare,
accettare le differenze, avere la libertà di pensare diversamente e manifestarlo! Con tutto il
rispetto per l’altro che è il mio fratello. Non abbiate paura delle differenze!5
Il suo pensiero torna costantemente sulla ricchezza carismatica della Chiesa,
espressione della “fantasia” di Dio.
L’esperienza più bella è scoprire di quanti carismi diversi e di quanti doni del suo Spirito il Padre
ricolma la sua Chiesa! Questo non deve essere visto come un motivo di confusione, di disagio:
sono tutti regali che Dio fa alla comunità cristiana, perché possa crescere armoniosa, nella fede e
nel suo amore, come un corpo solo, il corpo di Cristo. Lo stesso Spirito che questa differenza
di carismi, fa l’unità della Chiesa. È sempre lo stesso Spirito. Di fronte a questa molteplicità di
carismi, quindi, il nostro cuore si deve aprire alla gioia e dob biamo pensare: “Che bella cosa!
Tanti doni diversi, perché siamo tutti figli di Dio, e tutti amati in modo unico”. […] Questa è la
Chiesa!6
Ciò vale per i grandi carismi comunitari, ma anche per i doni più piccoli
che lo Spirito elargisce ai singoli e con i quali arricchisce la comunità.
Quante sensibilità diverse, quante diverse sottolineature del medesimo
mistero cristiano! Basta che vi sia l’accoglienza reciproca riconoscendo le
differenze di cui ognuno è portatore, lasciandosi arricchire dalle differenti
prospettive, senza irrigidimenti, esclusioni, condanne. Anche su questo
l’insegnamento di papa Francesco è illuminante:
Le differenze tra le persone e le comunità a volte sono fastidiose, ma lo Spirito Santo, che suscita
questa diversità, può trarre da tutto qualcosa di buono e trasformarlo in dinamismo
evangelizzatore che agisce per attrazione. La diversità dev’essere sempre riconciliata con l’aiuto
dello Spirito Santo; solo Lui può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e, al tempo
stesso, realizzare l’unità. Invece, quando siamo noi che pretendiamo la diversità e ci
rinchiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, provochiamo la divisione e, d’altra
parte, quando siamo noi che vogliamo costruire l’unità con i nostri piani umani, finiamo per
imporre l’uniformità, l’omologazione. Questo non aiuta la missione della Chiesa.7
Quando il dono personale è particolarmente forte e fecondo, la tentazione è
di eccedere, creando iniziative proprie, in autonomia, come se si fosse un
freelance, a volte fino a lasciare l’Istituto per dare piena libertà di iniziativa
alla propria creatività. Oppure, quando si ha l’impressione che il carisma
personale non venga sufficientemente riconosciuto o valorizzato, si può
cadere nella depressione, nel ripiegamento, nell’inedia. La via regale è
quella della “condivisione dei carismi” personali: mettere al servizio del
carisma comune la propria creatività, fantasia, le energie, la passione, i
talenti di cui si è dotati.
Il valore del governo di un Istituto si misura dalla capacità di riconoscere
le doti dei membri, di favorirle, di orientarle costantemente verso la
medesima missione, così da potenziare l’apporto che ogni opera è chiamata
a dare alla Chiesa, evitando fughe solitarie e digressioni che potrebbero
snaturare la natura dell’Istituto, garantendo l’unità della famiglia
carismatica nella varietà dei ministeri e delle culture, mante nendo l’identità
propria. Mutuae relationes invita i singoli religiosi ad agire “nella coesione
della comunità”.
Non c’è futuro per la vita consacrata se non si mettono le persone in
condizione di essere propositive e se le persone non si fanno carico, con
audacia e creatività, della vita e della missione dell’Istituto in tutti i suoi
aspetti.
II. CARISMI IN RELAZIONE ALLINTERNO DELLA FAMIGLIA CARISMATICA
Nella Lettera per l’Anno della vita consacrata (2014) papa Francesco parlò, forse
per la prima volta almeno nella terminologia, di “Famiglie carismatiche”,
composte da Istituti maschili e femminili, religiosi, membri di Istituti
secolari e laici che insieme condividono lo stesso carisma:
Di fatto attorno ad ogni famiglia religiosa, come anche alle Società di vita apostolica e agli stessi
Istituti secolari, è presente una famiglia più grande, la “famiglia carismatica”, che comprende più
Istituti che si riconoscono nel medesimo carisma, e soprattutto cristiani laici che si sentono
chiamati, proprio nella loro condizione laicale, a partecipare della stessa realtà carismatica.8
Gli antichi Ordini hanno una lunga esperienza in merito: il medesimo
carisma è vissuto in modalità consacrata maschile (primo ordine), in
modalità consacrata femminile (secondo ordine), in modalità laicale (terzo
ordine). Attorno ai diversi Ordini è poi sorta una costellazione di Istituti che
si ispirano al medesimo carisma. Ma anche una congregazione come quella
di cui faccio parte, i Missionari Oblati di Maria Immacolata, condivide il
proprio carisma con una quarantina di Istituti di vita consacrata e secolari e
con un numero indefinito di associazioni laicali.
Gli appelli che papa Francesco ha rivolto in questi anni alle Famiglie
carismatiche sono stati un invito pressante alla condivisione dei carismi
all’interno dell’unico carisma. Particolarmente significative le parole rivolte
ai Camilliani in occasione del loro capitolo generale:
Dal carisma suscitato inizialmente in San Camillo, si sono via via costituite varie realtà ecclesiali
che formano oggi un’unica costellazione, cioè una “famiglia carismatica” composta di religiosi,
religiose, consacrati secolari e fedeli laici. Nessuna di queste realtà è da sola depositaria o
detentrice unica del carisma, ma ognuna lo riceve in dono e lo interpreta e attualizza secondo la
sua specifica vocazione, nei diversi contesti storici e geografici. Al centro rimane il carisma
originario, come una fonte perenne di luce e di ispirazione, che viene compreso e incarnato in
modo dinamico nelle diverse forme. Ognuna di esse viene offerta alle altre in uno scambio
reciproco di doni che arricchisce tutti, per l’utilità comune e in vista dell’attuazione della
medesima missione. [...] Cari fratelli e sorelle, vi incoraggio a coltivare sempre tra voi la
comunione, in quello stile sinodale che ho proposto a tutta la Chiesa, in ascolto gli uni gli altri e
tutte e tutti in ascolto dello Spirito Santo, per valorizzare l’apporto che ogni singola realtà offre
all’unica Famiglia, così da esprimere più compiutamente le molteplici potenzialità che il carisma
racchiude. Siate sempre più consapevoli che “è nella comunione, anche se costa fatica, che un
carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo” (Evangelii gaudium, 130).9
Anche in questo campo potrei offrire una personale esperienza, avviata una
decina di anni fa assieme a p. Isidoro Murciego, Trinitario. Consapevoli
dell’importanza della condivisione dei carismi all’interno della medesima
Famiglia carismatica, abbiamo pensato di incontrare alcuni membri delle
curie generalizie presenti a Roma per conoscere le diverse esperienze in
merito. Abbiamo iniziato a trovarci nella mia casa generalizia. Dapprima
eravamo una ventina di religiosi. Poi abbiamo pensato che fosse opportuno
condividere le esperienze anche con delle religiose e infine con i laici. Dopo
un anno non avevo più la possibilità di accogliere il gruppo nella mia casa
perché il numero aumentava. Ci siamo così trasferiti nella Casa generalizia
dei Fratelli delle Scuole Cristiane e gli incontri hanno radunato, duecento,
trecento persone… Si è costituito un comitato ad hoc. La pandemia ha
precluso i convegni in loco, ma ha permesso di tenerli online e quindi di
raggiungere tutti i continenti con numeri molto superiori a quelli in
presenza.
Oggi la Associazione Famiglie carismatiche in dialogo” è riconosciuta e
fatta propria dalle due Unioni di Superiore e Superiori generali e raduna
regolarmente molte Famiglie carismatiche. È una via concreta per facilitare
la reciproca conoscenza, relazione e amicizia tra i membri delle Curie
Generalizie e delle Associazioni che appartengono alle varie Famiglie
carismatiche; per favorire lo studio in comune dell’identità, della funzione e
delle sfide delle varie componenti di ogni Famiglia carismatica; per
condividere le esperienze in atto; per sostenere la ricerca dei metodi più
idonei per un più efficace sviluppo e azione; per promuovere efficacemente
l’impegno nei diversi campi della nuova evangelizzazione.
Senza questo respiro ampio che viene dalle molteplici modalità di vivere
il medesimo carisma, un Istituto rischia di atrofizzarsi. Nella misura in cui
siamo capaci di lasciare che persone di vocazioni diverse attualizzino il
comune carisma nel loro ambiente, e secondo la natura della loro
vocazione, esso potrà esprimersi in modo nuovo, creativo, e quindi aiutare
reciprocamente tutti i gruppi, che a esso afferiscono, a una sua migliore
comprensione. Dunque: carismi in relazione all’interno della Famiglia
carismatica.
III. CARISMI IN RELAZIONE TRA DI LORO
Quando mi è stata affidata questa relazione credo si pensasse soprattutto a
un terzo tipo di relazione, quella tra i differenti carismi di vita consacrata e
le altre esperienze carismatiche, come quelle dei Movimenti ecclesiali.
Mi prendo la libertà di iniziare anche qui dalla mia esperienza. La gioiosa
“scoperta” del mio fondatore, sant’Eugenio de Mazenod, allora non ancora
proclamato beato, iniziò al noviziato, anche se conoscevo gli Oblati già da
una decina di anni. Leggere la sua vita e i suoi scritti fu una autentica
rivelazione. Trovavo con lui una particolare consonanza, mi sentivo espresso
da lui – segno che avevo la vocazione!
Pochi giorni prima di terminare il noviziato partecipai con il maestro dei
novizi e i miei compagni ad un incontro di religiosi tenuto dal “Movimento
dei religiosi”, una espressione del Movimento dei Focolari. Avevo già
conosciuto il Movimento dei Focolari anni prima, assieme alla mia famiglia
d’origine, ma non sapevo che al suo interno esistesse un Movimento di
religiosi. Ciò che mi impressionò di quei religiosi (io, in quanto novizio, non
lo ero ancora) era la varietà di appartenenze, la serietà dell’impegno e del
progetto spirituale, e soprattutto la profonda unità che regnava tra di loro.
Quell’incontro fu per me una scoperta straordinaria, al pari di quella del
mio Fondatore e della mia Famiglia religiosa. Iniziavo a sperimentare la
comunione tra i carismi. Grazie al rapporto che da allora iniziò con tanti
religiosi di tanti Istituti è cresciuta in me, la passione per la mia vocazione,
l’interesse per lo studio delle fonti del mio Istituto e della sua storia.
Un’altra esperienza che mi ha segnato è stato il prolungato periodo di
insegnamento all’Istituto di Teologia della Vita Consacrata “Claretianum”.
Mi ha messo in contatto con moltissime persone appartenenti a tanti Istituti
diversi. Già grazie alla mia tesi di dottorato avevo avuto modo di conoscere
in profondità nove diversi Fondatori. Tutto questo mi ha mantenuto in
contatto costante con molteplici carismi, offrendomi un orizzonte ampio
anche per la lettura del mio.
Sono state esperienze davvero “belle”, che mi fanno sentire in
consonanza con le parole di papa Francesco: «L’esperienza più “bella” è
scoprire di quanti carismi diversi e di quanti doni del suo Spirito il Padre
ricolma la sua Chiesa!». Così pure nell’Udienza generale del ottobre
2014, quando continuava dicendo:
Sono tutti regali che Dio fa alla comunità cristiana, perché possa crescere armoniosa, nella fede e
nel suo amore, come un corpo solo, il corpo di Cristo. Lo stesso Spirito che questa differenza
di carismi, fa l’unità della Chiesa. È sempre lo stesso Spirito. Di fronte a questa molteplicità di
carismi, quindi, il nostro cuore si deve aprire alla gioia e dobbiamo pensare: “Che bella cosa!
Tanti doni diversi, perché siamo tutti figli di Dio, e tutti amati in modo unico”. […] Questa è la
Chiesa!10
I carismi sono dunque fonte di gioia, espressione dell’Evangelii gaudium. Gioia
non è forse una delle accezioni della parola charis? I carismi sono anche la
dimensione estetica della Chiesa; fanno esclamare: “Che bella cosa!”. Una
delle esperienze più “belle” degli ultimi cinquant’anni della vita consacrata
è proprio la riscoperta della sua dimensione carismatica che ha messo in
luce la grande varietà dei doni che lo Spirito ha elargito alla Chiesa nei suoi
duemila anni di storia.
In questa linea si pone un testo della fondatrice Chiara Lubich che mi ha
sempre guidato nella riflessione e nella vita. Esso risale al 1950, ed è
intitolato semplicemente La Chiesa:
Gesù è il Verbo di Dio incarnato.
La Chiesa è il Vangelo incarnato. Così è Sposa di Cristo.
Noi vediamo attraverso i secoli fiorire tanti Ordini religiosi su tante ispirazioni quanti essi sono.
Ogni Ordine o Famiglia religiosa è l’incarnazione d’un’“espressione” di Gesù, di una sua Parola,
d’un suo atteggiamento, d’un fatto della sua vita, d’un suo dolore, d’una parte di Lui.
Vediamo san Francesco e i francescani come espressione della Parola evangelica: “Beati i poveri
di spirito perché...” [Mt 5, 3]. S. Teresina e i suoi seguaci come incarnazione della Parola: “Se
non vi convertirete...” [Mt 18, 3]. Le suore di Betlemme, di Nazareth, di Betania, ecc. come
espressioni concrete d’un atteggiamento o d’un momento della vita di Gesù; gli Stimmatini come
incarna zione del dolore di Gesù nelle sue Sacre Stigmate, ecc.; S. Caterina del Sangue di Cristo;
S. Margherita M. Alacoque del Cuore di Gesù, ecc. Insomma noi vediamo la Chiesa come un
Cristo spiegato attraverso i secoli. [...] La Chiesa è un magnifico giardino in cui fiorirono tutte le
Parole di Dio: fiorì Gesù, Parola di Dio, in tutte le più svariate manifestazioni.11
Commentando questo suo scritto, Chiara Lubich annotava: «la Chiesa
carismatica, descritta in queste pagine non è una parte della Chiesa con
accanto quella gerarchica, ma è piuttosto tutta la Chiesa, nel senso che ne
esprime tutta la realtà. Del resto, anche la Chiesa istituzionale è nata dal
Vangelo, da una parola di Gesù […]. Dunque anch’essa è depositaria di un
carisma».
Dentro la grande varietà di esperienze spirituali, Chiara Lubich scopre
un aspetto che tutte le accomuna. In ognuna di esse vede specchiarsi un
mistero di Cristo, una sua Parola, il rifrangersi della luce che emana dal
volto di Cristo, splendore del Padre: «In tutti gli Ordini è un raggio
dell’Ordine che è Dio. In tutte le spiritualità una luce della luce che è
Gesù». Esse le appaiono sostanziate dal Verbo, una sua espressione, lo
contengono e lo manifestano, quale verbo nel Verbo. «Gli Ordini religiosi si
domandava 13 febbraio 1975 parlando a un gruppo di religiosi tutti
insieme cosa formano? […] se li avessimo tutti, pensando alla Parola di vita
che è stato il loro fondatore, sarebbero la parola incarnata e, messe insieme,
tutte queste parole formano un Vangelo vivo. Ora tutti questi Ordini, queste
spiritualità nate attraverso i secoli debbono ritrovare la loro vera essenza, il
loro principio: tutte sono Gesù, sono Amore Incarnato»12.
Tutti questi carismi trovano la loro unità nella loro origine, nel soffio dello
Spirito, e nella loro destinazione, l’edificazione del Corpo di Cristo. Tutti
hanno un’unica convergenza, un unico scopo: la ricapitolazione in Cristo
(cfr. Ef 1,10), la realizzazione della preghiera di Gesù al Padre, «che tutti
siano una cosa sola» (Gv 17,21). Perc la Chiesa possa adempiere la sua
missione di segno e sacramento dell’unità degli uomini con Dio e tra di loro
è necessario l’apporto specifico di ogni parola evangelica, di ogni carisma e
spiritualità. Grazie a questa circolarità dei carismi la Chiesa potrà
presentarsi come sposa splendente e bella, senza macchia ruga, santa e
immacolata (cfr. Ef 5,20). Grazie a questa sua bellezza sarà anche più
credibile.
È inconcepibile vivere il proprio carisma ed esercitare il ministero ad esso
legato al di fuori della comunione con tutti gli altri carismi e ministeri.
Soltanto nel rapporto di unità si comprende la radice comune che li unisce
tra loro e il “divino” che ognuno di essi esprime. Nello stesso tempo in
questo rapporto di unità si può cogliere la peculiarità di ciascuno e giungere
a una graduale acquisizione sperimentale della “mirabile varietà” di cui la
Chiesa è ricca. Questo fa sentire il proprio carisma e il proprio Istituto o il
proprio Movimento non come una realtà assoluta, ma come parte di una
realtà più vasta, inserita in un organismo vivente.
Ogni carisma, ha insegnato san Paolo, è un dono per tutta la comunità e,
nello stesso tempo, ha bisogno del dono degli altri carismi. Siamo cattolici,
trasparenti, aperti gli uni agli altri, pronti a donare come a ricevere, vivendo
la “comunione dei santi”, la realtà della Chiesa comunione: “tutto è vostro:
Paolo, Apollo, Cefa [attualizzando, potremmo dire: Francesco, Ignazio,
Teresa d’Avila, ma anche padre Pio, Madre Teresa, Escrivá de Balaguer,
Chiara Lubich…] il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è
vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (cfr. 1Cor 3,22-23).
Illuminante questo testo di Paolo dove le molte appartenenze confluiscono
nell’unica definitiva appartenenza, in Cristo, a Dio. Che respiro grande, che
vastità di orizzonti, che liberazione dal miope particolarismo.
La Madre Chiesa nella liturgia ci nutre con gli scritti dei padri e dei santi
di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le correnti spirituali; ci fa celebrare
le loro feste, ce li propone come esempi, sicura che se un francescano è
attento all’insegnamento sull’orazione di Teresa d’Avila con ciò non lascia il
cammino di san Francesco, se un benedettino legge san Francesco di Sales
non devia dalla sua strada.
L’invito rivolto dall’Istruzione Ripartire da Cristo costituisce un chiaro
programma in merito:
La comunione che i consacrati e le consacrate sono chiamati a vivere va ben oltre la propria
famiglia religiosa o il proprio Istituto. Aprendosi alla comunione con gli altri Istituti e le altre
forme di consacrazione, possono dilatare la comunione, riscoprire le comuni radici evangeliche e
insieme cogliere con maggiore chiarezza la bellezza della propria identità nella varietà
carismatica, come tralci dell’unica vite. Dovrebbero gareggiare nella stima vicendevole (cfr. Rm
12, 10) per raggiungere il carisma migliore, la carità (cfr. 1 Cor 12, 31). […] Non si può più
affrontare il futuro in dispersione. È il bisogno di essere Chiesa, di vivere insieme l’avventura
dello Spirito e della sequela di Cristo, di comunicare le esperienze del Vangelo, imparando ad
amare la comunità e la famiglia religiosa dell’altro come la propria. Le gioie e i dolori, le
preoccupazioni e i successi possono essere condivisi e sono di tutti. Anche nei confronti delle
nuove forme di vita evangelica si domanda dialogo e comunione.13
Parlando in particolare dell’apporto specifico delle “nuove comunità” ai
“carismi antichi”, Giovanni Paolo II prospettava un cammino molto
positivo:
Grazie alle energie degli inizi, danno indubbiamente un nuovo slancio alla vita consacrata come
pure alla missione pastorale nelle Diocesi. Possiedono un’audacia che talvolta manca agli Istituti
che esistono da più tempo. Contribuiscono a rinnovare la vita comunitaria, la vita liturgica e
l’impegno nell’evangelizzazione in numerosi ambiti. […] Le nuove Comunità religiose
rappresentano un’opportunità per la Chiesa.14
L’apporto di queste comunità, come anche quello dei Movimenti ecclesiali,
scaturisce dalla loro carica di novità e di freschezza evangelica e carismatica,
dal ritorno semplice e immediato al Vangelo e alle diverse espressioni
concrete di spiritualità della Parola. Spesso offrono anche una ispirazione
per la creatività delle forme apostoliche e aiutano a superare una pastorale a
volte troppo conservativa, senza slancio e fantasia.
Da parte loro i Movimenti, in gran parte laicali, attendono molto dalla
testimonianza gioiosa, fedele e carismatica della vita consacrata per la
ricchezza delle molteplici spiritualità e forme di apostolato; amano i religiosi
e le religiose identificati con la propria vocazione ed il proprio carisma;
hanno bisogno della loro testimonianza come visualizzazione dell’assoluto
di Dio; godono dell’amicizia spirituale e della dottrina dei santi, dei tesori di
sapienza e di esperienza custoditi dalle famiglie religiose. Ne può nascere
davvero una feconda collaborazione fraterna.15
IV. CARISMI IN RELAZIONE CON LE DIVERSE VOCAZIONI ECCLESIALI
Ogni Famiglia carismatica è chiamata a pensare e vivere il proprio carisma
nel più ampio orizzonte della comunione ecclesiale, attenta a tutte le
componenti del popolo di Dio.
L’esortazione apostolica Christifideles laici ha sottolineato, a più riprese, la
circolarità o pericóresi delle diverse vocazioni nella Chiesa, la loro intima
reciprocità, la loro vicendevole dipendenza. Afferma ad esempio:
Nella Chiesa-Comunione gli stati di vita sono tra loro così collegati da essere ordinati l’uno
all’altro. Certamente comune, anzi unico è il loro significato profondo: quello di essere modalità
secondo cui vivere l’eguale dignità cristiana e l’universale vocazione alla santità nella perfezione
dell’amore. Sono modalità insieme diverse e complementari, sicché ciascuna di esse ha una sua
originale e inconfondibile fisionomia e nello stesso tempo ciascuna di esse si pone in relazione
alle altre e al loro servizio.16
L’esortazione apostolica Vita consecrata, a sua volta richiama i «rapporti
reciproci» che intercorrono tra le varie forme di vita, «al servizio l’una
dell’altra, per la crescita del Corpo di Cristo nella storia e per la sua
missione nel mondo».17 Il documento parla anche della necessità di un
mutuo rapporto di comunione per la perfezione della vita e dell’apostolato
fra laici, sacerdoti e religiosi.18
L’Istruzione Ripartire da Cristo nota che la presa di coscienza della
vocazione laicale (che riconosce nei laici dei cristiani a pieno titolo e, per il
fatto di essere cristiani, chiamati alla santità e alla missione al pari delle
persone consacrate) è «motivo di gioia per le persone consacrate; sono ora
più vicine agli altri membri del popolo di Dio con cui condividono un
comune cammino di sequela di Cristo, in una comunione più autentica,
nell’emulazione e nella reciprocità, nell’aiuto vicendevole della comunione
ecclesiale, senza superiorità o inferiorità».19
Una tale visione ecclesiologica ha aperto la strada a un rapporto nuovo di
comunione tra consacrati e laici. L’Istruzione prende atto che «si sta
instaurando un nuovo tipo di comunione e di collaborazione all’interno
delle diverse vocazioni e stati di vita, soprattutto tra i consacrati e i laici».
Rileva poi alcune linee concrete di collaborazione: «Gli Istituti monastici e
contemplativi possono offrire ai laici una relazione prevalentemente
spirituale e i necessari spazi di silenzio e di preghiera. Gli Istituti impegnati
sul versante dell’apostolato possono coinvolgerli in forme di collaborazione
pastorale. I membri degli Istituti secolari, laici o chierici, entrano in
rapporto con gli altri fedeli nelle forme ordinarie della vita quotidiana».20
I laici, da parte loro, cosa offrono a religiose e religiosi? Se in altri tempi
sono stati soprattutto i religiosi e le religiose a creare, nutrire spiritualmente
e dirigere forme aggregative di laici, oggi può succedere che siano i laici e i
nuovi Movimenti ecclesiali, con forte maggioranza di laici, con la loro forza
carismatica e la loro aderenza ai bisogni della Chiesa attuale, a coinvolgere i
religiosi e le religiose, e anche ad aiutarli nel loro cammino spirituale e
pastorale. Lo afferma con naturalezza un passo dell’esortazione Christifideles
laici: «gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi
nel loro cammino spirituale e pastorale».21
Accanto alle singole persone che vivono il loro impegno cristiano in
maniera ordinaria nell’ambito della famiglia, della parrocchia e della
comune vita sociale, la vita ecclesiale conosce molteplici forme di
associazioni laicali. «La ricca varietà della Chiesa leggiamo ancora in
Christifideles laici trova una sua ulteriore manifestazione all’interno di
ciascun stato di vita. Così entro lo stato di vita laicale si danno diverse “vocazioni”,
ossia diversi cammini spirituali e apostolici che riguardano i singoli fedeli laici.
Nell’alveo d’una vocazione laicale “comune” fioriscono vocazioni laicali
“particolari”».22 Si tratta di associazioni di preghiera, caritative, di impegno
culturale, sociale… Spesso nascono e si organizzano in base ad una
autentica vocazione particolare.
In realtà, questa visione della reciprocità delle vocazioni nella Chiesa è
iscritta in una pagina luminosa della Costituzione conciliare sulla Chiesa:
«In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si
accrescono con l’apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre,
e coi loro sforzi si orientano verso la pienezza dell’unità. Ne consegue che il
Popolo di Dio, non solo si raccoglie da diversi popoli, ma in se stesso si
sviluppa mediante l’unione di vari ordini».23
La sfida è dunque quella di ritrovare una più profonda comunione tra
tutte le componenti del popolo di Dio così da rispondere all’unica missione.
Un’unità che non mortifica le pluralità di vocazione e delle modalità di
vivere il Vangelo, ma che anzi le presuppone e le favorisce. Non si possono
condurre cammini paralleli all’interno della Chiesa.
Nel magistero di papa Francesco rimane l’inquietudine che aveva
espresso nel Sinodo del 1994, quando era ancora vescovo di Buenos Aires:
Ci si preoccupa eccessivamente del proprio carisma prescindendo dal suo reale inserimento nel
santo popolo di Dio, confrontandosi con le necessità concrete della storia... e anziché essere “un
dono dello Spirito alla Chiesa”, la vita religiosa, così configurata, finisce per essere un pezzo da
museo o un “possedimento” chiuso in se stesso e non messo al servizio della Chiesa.24
Lo Spirito che ha suscitato i carismi dei differenti Istituti è lo stesso che oggi
vivifica la Chiesa con nuovi carismi, con nuove sensibilità, con nuovi appelli.
Il soffio carismatico presente nelle famiglie religiose deve continuare a
vibrare all’unisono con il soffio carismatico che, oggi, anima la Chiesa.
Tutto ciò che di buono e di nuovo nasce nella comunità cristiana è di tutti e
di ciascuno, è dono dello Spirito anche per le istituzioni nate
precedentemente, le arricchisce e le fa crescere.
Ogni carisma è chiamato a “perdersi” nella comunione ecclesiale
entrando in essa e donandosi, per poi tornare alla propria realtà carismatica
arricchito dalla comunione con tutte le altre vocazioni. Da sola ogni
istituzione religiosa non potrà avere la luce e la forza per affrontare la
complessità della società odierna. Dobbiamo metterci insieme, non tanto
per concertare strategie comuni anche queste se e quando sono necessarie
ma soprattutto perché dall’unità, dalla presenza del Signore che dona il
suo Spirito, venga ad ogni singolo Istituto la luce per leggere i segni dei
tempi, per comprendere l’essenza del proprio carisma, per trovare le vie
della sua attuazione oggi.
V. CARISMI IN RELAZIONE CON IL MONDO
Infine, i carismi sono chiamati a porsi in relazione con il mondo, proprio
secondo la loro natura: il loro respiro è l’umanità intera. Il carisma non fa
vivere per se stessi, ma proietta “fuori di sé”, in costante donazione, unica
via perché esso diventi realmente ciò per cui è nato: vive, si “aggiorna”, si
apre al futuro nella misura in cui si lascia interpellare dalle domande e dalle
necessità sempre nuove a cui è chiamato a rispondere.
L’“essere Chiesa in uscita”, il movimento verso le “periferie”, al pari di
altri analoghi input che papa Francesco lancia, non costituiscono soltanto un
metodo pastorale, un porre in atto il carisma, ma un metodo ermeneutico
per la sua comprensione e il suo sviluppo. Il carisma lo si comprende
mettendolo in gioco con la storia, lasciandolo interpellare da essa, nel
contatto concreto e quotidiano con le persone in mezzo alle quali è
chiamato a vivere e operare e a cui è inviato.
Nel discorso già citato alla comunità accademica del Claretianum il Papa
ha ripreso parole che gli sono familiari:
Vi esorto a cercare sempre nuove strade per servire il Signore e il santo popolo fedele di Dio.
Come vi ho detto altre volte, non abbiate paura, coltivate sempre di più lo stile di Dio. E qual è
lo stile di Dio? È semplice: la vicinanza, la compassione e la tenerezza. […] Non stancatevi di
andare alle frontiere, anche alle frontiere del pensiero; di aprire strade, di accompagnare, radicati
nel Signore per essere audaci nella missione. […] Per incontrare veramente Cristo, bisogna
toccare, toccare il suo corpo nel corpo ferito dei poveri, non guardarli soltanto, toccare; a
conferma della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Quanti fondatori, fondatrici e
persone consacrate hanno vissuto e vivono così!25
Ci si umanizza a contatto con l’umano, con le persone concrete, dove esse
vivono, nelle periferie fisiche ed esistenziali, senza tirarsi fuori in nicchie
protette: toccare le mani del povero al quale si fa l’elemosina, farsi prossimi,
impregnarsi dell’odore delle pecore, senza aver paura di esprimere
tenerezza, affetto, vicinanza, superando la cultura dello scarto, contestando
la globalizzazione dell’indifferenza…
La prima “riforma” della Chiesa, ha affermato il Papa «deve essere
quella dell’atteggiamento… riscaldare il cuore delle persone, camminare
nella notte con loro, saper dialogare e anche scendere nella loro notte, nel
loro buio senza perdersi».26 Sono proposte profetiche, la loro attuazione
sembra difficile, anzi impossibile. Esse devono comunque restare davanti a
noi, con tutta la forza provocatoria, in modo da mantenere viva
l’inquietudine e il desiderio del di più.
Il carisma lo si comprende e conserva la sua profetica vitalità coltivando
la passione per tutto l’uomo e per tutti gli uomini del proprio tempo e nel
proprio ambiente, mettendosi umilmente in atteggiamento di ascolto, di
amorevole ricerca, di assoluta disponibilità. Prossimità con gli uomini e le
donne di oggi significa accogliere e condividere i valori di cui essi sono
portatori, le aspirazioni che li animano, i bisogni e le angosce che li
attanagliano, calarsi nel presente assumendo tutto ciò che è umano, ed
essere uomini e donne accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo,
pienamente incarnati, percsolo dal di dentro si possono portare speranza
e redenzione. Siamo chiamati ad aprire il raggio della carità apostolica a
tutti gli uomini, specialmente ai più lontani, a tendere l’arco del dialogo fin
dove osa la carità che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…
VI. UN METODO PER LA COMUNIONE
Perc la condivisione nella relazione e nel dialogo raggiunga quella
profondità che conduce alla piena identità è necessario un “metodo”, nel
senso originario del termine greco: “un cammino da seguire insieme”.
Subito viene alla mente il cammino paradigmatico dei due discepoli di
Emmaus (cfr. Lc 24,13-32). Il Risorto, accompagnandosi ad essi è lui la
Via –, dierméneusen, letteralmente fece ermeneutica, spiegò, interpretò la
Scrittura. Vi è, in questo accompagnamento, un grande insegnamento
ermeneutico. Quell’unirsi del Risorto al viaggio che i discepoli stavano
compiendo sta a indicare come la vita della Chiesa sia un viaggio, e come
Cristo continui a essere il viaggiatore che ancora vi si accompagna. E se
vedessimo in quei due viandanti i rappresentanti di due carismi? Potrebbe
essere una indicazione per come compiere il “cammino sinodale”.
Sappiamo che questa parola, sinodo, proviene dal greco, col significato di
“percorrere la strada insieme”. Non ricordiamo invece che c’è un’altra bella
parola latina che parla del camminare insieme: “co-ire”, da cui viene
“comes”, il nostro “compagno”, colui con il quale si compie un comune
viaggio: il “compagno di viaggio”.
Camminare insieme, come compagni, con il Compagno che si affianca e
fa ermeneutica, “spiega il carisma”… Come? Possiamo rileggere una
preziosa indicazione di Perfectae caritatis: «Con l’amore di Dio diffuso nel
cuore per mezzo dello Spirito Santo la comunità come famiglia unita nel
nome del Signore gode della Sua presenza».27 Gode indica la stabilità di una
presenza che, secondo il testo conciliare, accompagna il cammino della
comunità, così come il Risorto si era fatto compagno di viaggio dei due
verso Emmaus. Potremmo prenderlo ad emblema del cammino sinodale
all’interno della Famiglia carismatica, tra le diverse vocazioni e carismi
ecclesiali, del cammino stesso con tutti gli “uomini di buona volontà”.
Come allora il Risorto, presente tra persone che vivono diversi carismi,
comunicando il suo Spirito, illumina e fa ardere i cuori; consente,
potremmo dire, una comprensione non soltanto intellettuale della propria
identità spirituale e carismatica, ma un coinvolgimento attivo di tutta la
persona, che aderisce pienamente al progetto di Dio e trova la forza per
tradurlo in vita. Le “parole” evangeliche di cui ogni carisma è espressione
acquistano nuova comprensione e tornano ad essere realtà vive e attuali.
Questo domanda la concordia della carità una “comunità come
famiglia unita nel nome del Signore” –, l’attuazione del “comandamento
nuovo” dell’amore reciproco, “l’amore di Dio diffuso nel cuore per mezzo
dello Spirito Santo”. Il nuovo comandamento dell’amore reciproco può
essere attuato non soltanto tra singole persone, ma tra carismi, tra differenti
vocazioni ecclesiali, e si esprime nel riconoscimento del dono dell’altro, nel
rispetto e nella stima vicendevole, nel dialogo, nella collaborazione.
Domanda il sapersi mettere da parte, il dimenticarsi per mettere in luce
l’altro. Non imporsi, e nello stesso tempo offrire tutta la ricchezza di
esperienza e di vita che il carisma ha operato nei secoli. Accogliere e
valorizzare il dono dell’altro.
È quanto mi aveva affascinato quando, alla vigilia della mia prima
professione, intravedevo tra quella quarantina di religiosi diversissimi, come
mostrava allora la foggia degli abiti, e unitissimi tra di loro, una parabola
dell’identità e della comunione che tutti siamo chiamati a vivere percil
Signore continui a manifestarsi all’umanità di oggi: «Da questo
conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli
altri» (Gv 13,35).
1 Il presente articolo raccoglie l’intervento svolto in occasione della Giornata di studio sulla Vita
Consacrata “Identità e profezia. Nuove e antiche forme di Vita Consacrata in dialogo”, Pontificia
Università della Santa Croce, Roma, 27-IV-2023.
2 FRANCESCO, Andare alle frontiere per essere audaci nella missione, in L’Osservatore romano, 7-XI-2022, 16.
3 SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI, SACRA CONGREGAZIONE PER I
VESCOVI, Istr. Mutuae relationes, 14-V-1978, n. 12.
4 Cfr. FRANCESCO, Esort. ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 236.
5 FRANCESCO, Discorso alle Catholic Fraternity of Charismatic Covenant Communities and Fellowships, 31-X-
2014.
6 FRANCESCO, Udienza generale, 1-X-2014.
7 FRANCESCO, Esort. ap. Evangelii gaudium, n. 131.
8 FRANCESCO, Lettera per l’Anno della vita consacrata, III, 1.
9 FRANCESCO, Discorso alla famiglia camilliana, 18-III-2019. l
10 FRANCESCO, Udienza generale, 1-X-2014.
11 C. LUBICH, La Chiesa, a cura di N. Leahy e H. Blaumeiser, Città Nuova, Roma 2018, 45-46.
12 I testi qui riportati sono inediti.
13 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Istr.
Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, 14-VI-2002, n. 31.
14 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al terzo gruppo di Vescovi della Conferenza episcopale di Francia, 18-XII-2003.
15 Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA,
Istr. Ripartire da Cristo, n. 30.
16 GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Christifideles laici, 30-XII-1988, n. 55.
17 GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Vita consecrata, 25-III-1996, n. 31.
18 Cfr. ibidem, nn. 18-20, e specialmente n. 55 e la fine del n. 61
19 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Istr.
Ripartire da Cristo, n. 13.
20 Ibidem, n. 31.
21 GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Christifideles laici, n. 63.
22 Ibidem, n. 56.
23 CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 21-XI-1964, n. 13.
24 L’intervento al Sinodo, pronunciato il 13-X-1994, è pubblicato in «Il Regno. Documenti» 59 (2014)
n. 1179, 1-XII-2014, 683-688.
25 FRANCESCO, Andare alle frontiere per essere audaci nella missione, 16.
26 FRANCESCO, Intervista concessa a Antonio Spadaro, «La Civiltà Cattolica» 3918 (19-IX-2013), 462.
27 CONCILIO VATICANO II, Decr. Perfectae caritatis, 28-X-1965, n. 15.
RADICI ED ESPANSIONE
DELLA“CONSACRAZIONE” NELLA
RECENTETEOLOGIA DELLA VITA
CONSACRATA1
FERNANDO PUIG
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
RIASSUNTO: La presente disamina sulla recente
vicenda della consacrazione si snoda in tre
passaggi: (1) le radici della consacrazione come
categoria caratterizzante della vita consacrata
risalgono ai testi del Concilio Vaticano II e alla
loro ricezione negli insegnamenti papali e nella
teologia; (2) l’espansione della consacrazione è un
fenomeno più vasto, che va oltre i testi, entrando
nella comprensione abituale della vita consacrata
ma anche oltre la vita consacrata; (3) radici ed
espansione fanno di questa categoria un passaggio
necessario, forse un po’ logorato, non esclusivo, per
una teologia della vita consacrata. Viene formulata
in chiusura la necessità di un livello teologico
elevato di pensiero di ogni forma di vita cristiana,
quindi anche della vita di consacrazione a Dio,
assieme ad una proposta di individuazione di una
tradizione della vita consacrata all’interno della
Tradizione della Chiesa.
PAROLE CHIAVE: Consacrazione, Vita religiosa,
Vocazioni ecclesiali, Teologia della vita consacrata.
ABSTRACT: The present examination of the
recent history of consecration unfolds in three
steps: (1) The roots of consecration as a
defining category of consecrated life go back to
the texts of the Second Vatican Council and its
reception in papal teachings and theology; (2)
The expansion of consecration is a broader
phenomenon, going beyond the texts, entering
into the habitual understanding of consecrated
life but also beyond consecrated life; (3) Roots
and expansion make this category a necessary,
perhaps somewhat worn-out, non-exclusive
passage for a theology of consecrated life. The
need for a high theological level of thinking
about every form of Christian life, thus also the
life of consecration to God, is formulated in
closing, along with a proposal to identify a
tradition of consecrated life within the
Church’s Tradition.
KEYWORDS: Consecration, Religious Life,
Ecclesial Vocations, Theology of Consecrated
Life.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 139-155
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202405
SOMMARIO: I. La consacrazione alla radice della comprensione della vita consacrata nel Concilio Vaticano II e nella
sua ricezione. II. L’espansione della nozione di consacrazione. 1. L’espansione “intensiva” della categoria della
consacrazione. 2. L’espansione “estensiva” o allargamento della categoria della consacrazione. III.
Bilanciamento e necessità di un livello ecclesiale e teologico per pensare e vivere ogni forma di vita cristiana, quindi anche
la vita di consacrazione. 1. Limiti e benefici derivati dalla teologia della consacrazione religiosa. 2. Per un
radicamento teologale (forte) della vita consacrata. 3. Al servizio di una comprensione di tutte le
vocazioni nella Chiesa. IV. Conclusione e proposta: le istanze di una tradizione della vita religiosa.
I. LA CONSACRAZIONE ALLA RADICE DELLA COMPRENSIONE DELLA
VITACONSACRATA NEL CONCILIO VATICANO II E NELLA SUA RICEZIONE
Che la vita religiosa sia una realtà quasi bimillenaria nella vita della Chiesa
non sfugge a nessuno. Potrebbe sfuggire a più di uno invece che la
denominazione “vita consacrata” è molto recente, recentissima se
confrontata con tanti secoli di vita. L’espressione “vita consacrata” è un
neologismo.2
In un modo alquanto inatteso e ancora timido allora, la “consacrazione”
applicata alla vita religiosa comparve nei documenti del Concilio Vaticano
II.3 Infatti, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, nel trattare dei religiosi
usa una tonalità nuova, dentro la nuova musica della Lumen Gentium:
Già col battesimo è morto al peccato e consacrato a Dio; ma per poter raccogliere in più grande
abbondanza i frutti della grazia battesimale, con la professione dei consigli evangelici nella
Chiesa intende liberarsi dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità e
dalla perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al servizio di Dio.4
Nella rinnovata caratterizzazione della vita religiosa, la consacrazione
affianca due denominazioni classiche: “vita secondo i consigli” e “stato
religioso”, prima detto anche “stato di perfezione”. È solo un nome che si
giustappone a quelli precedenti? Non sembra così. I padri conciliari danno
una nuova nota, che non va isolata dalla sinfonia conciliare. In questa
sinfonia si parla della Chiesa come sacramento universale di salvezza, di
popolo di Dio radicato nel battesimo, di missione in senso forte di tutti i
fedeli, anche laici, del valore salvifico dell’attività umana nel mondo, di
chiamata universale alla santità... La caratterizzazione della vita religiosa
come consacrazione è uno degli elementi (non l’unico) che la inserisce nella
nuova armonia avviata dal Concilio.
Per questa ragione, la ricezione degli insegnamenti conciliari anche a
livello teologico darà luogo a una rinnovata teologia della vita religiosa, più
avanti mutata in teologia della vita consacrata, in parte precisamente per la
generalizzazione della consacrazione come fulcro di questa forma di vita.
Naturalmente la posta in gioco non è solo terminologica e intellettuale.
Dopo il Concilio inizia una stagione di rinnovamento ecclesiale complessivo,
non solo della vita religiosa, che richiama un linguaggio e categorie
condivise. La categoria della consacrazione diventa un luogo di passaggio
obbligato per tutti, sia che venga intesa positivamente come una chiave di
comprensione della vita secondo i consigli, sia che venga messa in
discussione come insufficiente o magari fuorviante. In ogni caso, bisogna
avere presente che il dibattito si svolge in un contesto non pacifico della vita
della Chiesa in generale e della vita religiosa in particolare.5
In questo contesto travagliato, diversi documenti del magistero ecclesiale
sulla vita religiosa punteranno fortemente sulla categoria della
consacrazione.6 Su questa stessa scia, il Codice di Diritto Canonico del
1983, adotterà in modo deciso le categorie legate alla consacrazione in
modo tale che verrà formalizzata anche giuridicamente non senza
problemi – la “vita consacrata” come cornice istituzionale per tutte le forme
di vita secondo i consigli evangelici.
Oggi abbiamo una prospettiva sufficiente per affermare che Giovanni
Paolo II ha scommesso molto sulla consacrazione come nozione cardine
della caratterizzazione della vita consacrata.7 Infatti, un importante
momento della riflessione sulla consacrazione è rappresentato dal suo uso
nella Esortazione apostolica Vita Consecrata di Giovanni Paolo II,8 che
riprende i risultati dell’assemblea generale del Sinodo dei vescovi sulla vita
consacrata del 1994. La categoria ha una sua importanza all’interno del
documento, nell’impianto trinitario che viene offerto in apertura, bilanciato
anche da una profonda articolazione con gli elementi della “comunione” e
della “missione”.9 Consacrazione, comunione e missione sono una triade di
elementi che bisogna tenere sempre insieme.
Dopo l’esortazione Vita Consecrata la concentrazione del magistero sulla
consacrazione si è relativamente arrestata. Ciononostante, a livello quasi
istituzionale non va tralasciato il seminario internazionale del 2018
organizzato dalla allora Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e
le Società di Vita Apostolica, oggi dicastero, che ebbe per titolo Consecratio
et consecratio per evangelica consilia”.10
Questo percorso ermeneutico dal testo originario di Lumen Gentium fino
alla situazione odierna è stato alimentato da una ricezione teologica di
notevoli proporzioni. Molti teologi si sono sentiti interpellati dalla nuova
impostazione soprattutto ecclesiologica, ma anche antropologica e spirituale
che emerge dallo sguardo conciliare e post-conciliare sulla vita religiosa.11
Una parte significativa di questa ricezione si è manifestata in un
approfondimento sulla vita religiosa che per certi versi ha portato una
espansione della nozione di consacrazione.
II. LESPANSIONE DELLA NOZIONE DI CONSACRAZIONE
In un modo un po’ approssimativo si può parlare di una espansione
“intensiva” e di una espansione “estensiva” della nozione di consacrazione.
1. L’espansione “intensiva” della categoria della consacrazione
L’idea di espansione “intensiva” della consacrazione vuole esprimere il fatto
derivante dall’accostamento degli elementi portanti della vita religiosa
come i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, la vita comune o
fraterna, la missione e il carisma proprio a questa categoria. Un tale
fenomeno ha portato a caricarla di significati “nuovi”. Questa espansione
“intensiva” ha occupato principalmente la teologia della vita consacrata, e
sulla sua scia, il magistero pontificio. Vediamone alcune manifestazioni.
La professione dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza
come impegno personale suscita la questione, tradotta in termini
consacratori, se l’autore della consacrazione sia la persona nell’atto della sua
donazione o Dio come consacrante della persona stessa. Questo quesito si
pone con l’intenzione di andare oltre formulazioni del proprium della vita
religiosa tipicamente legate alla teologia morale o al diritto canonico. La
teologia morale faceva gravitare la consistenza dell’impegno dei religiosi
sulla virtù della religione, basandosi anche sulla distinzione tra precetti e
consigli. La canonistica prendeva anche spunto da questa distinzione
rilevando inoltre l’ingresso nello stato religioso in forza dei voti, in uno stato
“sacro” dal quale derivano una particolare protezione della persona del
religioso sul piano della tutela penale.
Dopo il Concilio invece gli sviluppi teologici ripropongono la questione
del soggetto della consacrazione al livello della teologia sacramentaria,
biblica e antropologica.
La consacrazione religiosa viene accostata alla consacrazione battesimale,
traendone un fondamento prettamente teologale che si addice ad una
vocazione divina. Un conto diverso sarà delineare in quale preciso senso
quella religiosa è una “nuova” o “ulteriore” consacrazione. Infatti
l’accostamento alla consacrazione battesimale, sebbene irrinunciabile,
attende una delimitazione adeguata che possa mantenere allo stesso tempo
la sua profondità e definitività, anche in ordine alla santità, e la specificità
della vita secondo i consigli.12 Non mancano riflessioni che accostano la vita
religiosa al sacramento della cresima anche in termini consacratori –,
aprendo a considerazioni pneumatologiche fondanti la dimensione
carismatica della vita cristiana e le sue forme.
Sotto la spinta del rinnovamento si è verificato anche un
approfondimento circa la consistenza dei consigli evangelici cercando il loro
fondamento nella Sacra Scrittura, e con esso le basi bibliche della vita
religiosa. I consigli evangelici, inoltre, sono stati inseriti in una cornice
antropologica più ampia, per certi versi inedita nella riflessione ecclesiale.
Benché di per questi sviluppi non facciano direttamente riferimento alla
qualifica degli impegni religiosi come consacrazione non sono indipendenti
dalla spinta all’approfondimento teologico che da essa ne deriva. In qualche
modo la consacrazione è diventata il fulcro della riproposizione della vita
religiosa nella ecclesiologia e quindi nelle diverse basi teologiche dalle quali
dipende.
All’interno di queste riflessioni è stata anche posta la domanda se la
consacrazione debba essere intesa sempre come “consacrazione secondo i
consigli evangelici”. L’idea sarebbe di non lasciarla esposta alla genericità in
rapporto alla consacrazione battesimale e di distinguerla dalla
consacrazione sacerdotale nonché, per alcuni, dalla consacrazione che
deriverebbe dal sacramento del matrimonio. In questo confronto è emersa
la questione della sufficiente capacità dei consigli evangelici di povertà,
castità e obbedienza, di esprimere tutto lo spettro della specifica sequela
Christi dei religiosi. L’esempio più chiaro in questo contesto è la
dissociazione della tradizione monastica, che è esistita per secoli senza
rinvenire i propri profili in una tale triade di consigli evangelici, e che si è
cristallizzata e consolidata nel Medioevo, in un processo nel quale ebbe un
ruolo molto rilevante la sintesi di Tommaso di Aquino.13
Sono anche le istanze ecclesiologiche a rilevare come l’intensificazione del
rapporto con Dio che esprime la consacrazione debba articolarsi con la
missione. La diade consacrazione-missione viene così riproposta nei confronti
delle diverse espressioni della vita consacrata. L’appello alla missione porta
alla ribalta la varietà e la ricchezza delle diverse forme di vita consacrata e
la loro dimensione profetica. Su questo punto emerge anche la domanda se
sia veramente necessaria una comprensione essenziale e onnicomprensiva di
tutte queste forme di vita consacrata sotto una stessa categoria come quella
di consacrazione. La paura è che una tale sintesi possa mortificare il nerbo
carismatico di ogni singola realtà che si riconosce nella vita religiosa,
ognuna a suo modo sotto l’impulso dello Spirito Santo. A mano a mano che
si è sviluppata la teologia dei carismi la questione è diventata sempre più
rilevante. Non si può negare, in ogni caso, che la correlazione tra
consacrazione e missione, che ha delle buone ragioni teologiche in tutto lo
spettro delle vocazioni cristiane, offra una cornice che ha facilitato la sutura
della possibile opposizione tra un nucleo teologico comune e una diversità
di espressioni.14
Ancora un altro elemento ha caricato la nozione di consacrazione.
Laddove la consacrazione sia messa al centro della caratterizzazione della
vita religiosa, le si chiedeva di dar ragione di un’altra dimensione centrale di
questa forma di vita, quella comunionale. Non mancavano i motivi: le
categorie teologali che esprimono la consacrazione forniscono una base più
ampia e profonda di quella che veniva fornita dai principi (soprattutto
canonici) sulla vita comune e sull’appartenenza ad un ordine o
congregazione religiosa in forza dei voti davanti all’autorità.
Forse sono altri ancora gli elementi tradizionali della vita religiosa che
vengono a confrontarsi con la categoria della consacrazione, però bastano
queste considerazioni per porsi la domanda fondamentale se questa
categoria sia in grado di offrirne una base teologica esauriente. Questa
domanda conduce ad un’altra: è necessaria una sola categoria teologica per
abbracciare la profondità e ricchezza della vita religiosa viva nella Chiesa da
secoli? E ancora: non esiste il pericolo di sovraccaricare questa categoria e
che, per questa ragione, si perdano per strada elementi importanti per tutte
le forme o carismi della vita consacrata o per alcuni di essi? Torneremo più
avanti su questi interrogativi.
2. L’espansione “estensiva” o allargamento della categoria della consacrazione
Oltre che di una espansione “intensiva”, si può parlare di una estensione o
allargamento della nozione di consacrazione. Si parla di consacrazione
anche per fare riferimento a impegni personali totalizzanti in forme di vita
cristiana che sono al di fuori della vita religiosa cosiddetta “tradizionale” o
persino in contesto laicale.
In questo senso va ricordato che fu prima del Concilio Vaticano II, nel
contesto della creazione degli istituti secolari, che si iniziò a parlare di una
“consacrazione secolare”. L’avvento di nuove forme aggregative ha portato
in non poche occasioni a individuare, in esse, chiamate alla consacrazione
a volte esplicitamente riferite alla vita consacrata –, che possono persino
prendere una forma istituzionale propria all’interno del fenomeno
aggregativo. Altre volte invece sono la formulazione di un impegno da
svolgersi esistenzialmente in un contesto prevalentemente secolare. In
questo senso, forse inconsapevolmente è stata formulata una correlazione
quasi “necessaria” tra donazione a Dio, specialmente in virtù di un impegno
di celibato, e consacrazione, senza ulteriori indagini sul carisma che vi sia
alla base, che potrebbe essere, come dicevamo, laicale. Probabilmente
questo è un limite dell’impiego della categoria di consacrazione che
andrebbe ulteriormente approfondito.
Un’ulteriore espansione della nozione di consacrazione è derivata dalla
sua valenza istituzionale. La normalizzazione della comprensione della vita
religiosa come “vita consacrata” è stata fortemente motivata dalla sua
formalizzazione nel Codice di Diritto Canonico del 1983, nonc negli
sviluppi ulteriori della prassi della Curia romana. Questo fatto ripropone la
tensione tra vitalità e riconoscimento ecclesiale perché, in virtù della sua
dimensione pubblica, la vita consacrata lo implica necessariamente. In
questo senso il diritto della Chiesa e le autorità che lo applicano hanno
come elementi di riferimento tre realtà che non coincidono con precisione:
una certa nozione di “consacrazione” (c. 607 per gli istituti religiosi; c. 711
per gli istituti secolari), una tipologia di istituti di “vita consacrata” (c. 573)
e, in terzo luogo, una apertura ad altre “forme di vita consacrata” (c. 605)
che alle volte hanno punti di connessione con fenomeni aggregativi più
ampi. Non possiamo dilungarci su questo punto, però va ricordato che la
questione del riconoscimento ecclesiale è stato condizionante, alle volte
mortificante, dell’identità di espressioni di vita consacrata che si ritrovano in
forme giuridiche non pienamente concordi con il proprio carisma e con la
propria missione. La consacrazione delle persone è troppo seria perché i
suoi profili possano essere semplificati e accomunati per motivi
prevalentemente pratici come possono essere non di rado quelli delle istanze
di governo.
Riguardo alla prima espansione della nozione di consacrazione a quasi
ogni forma di impegno totalizzante, ci si dovrebbe chiedere se non si sia resa
troppo astratta la categoria, staccandola dalla sua origine nella vita religiosa,
che implica uno specifico rapporto con il mondo e alcuni tratti di spiritualità
comuni. Riguardo alla seconda espansione ci si dovrebbe chiedere se non si
corra il rischio che le categorie legali e il governo istituzionale della vita
consacrata prendano il sopravvento sul contenuto teologale, e quindi anche
spirituale e carismatico, della ricchezza di espressioni di questo specifico
dono di Dio alla Chiesa che è la vita consacrata.
In sintesi, non sarà forse che si è chiesto troppo alla nozione di
consacrazione in questi sessant’anni, dal Concilio Vaticano II ad oggi?
III. BILANCIAMENTO E NECESSITÀ DI UN LIVELLO ECCLESIALE E TEOLOGICOPER
PENSARE E VIVERE OGNI FORMA DI VITA CRISTIANA, QUINDI ANCHELA VITA DI
CONSACRAZIONE
1. Limiti e benefici derivati dalla teologia della consacrazione religiosa
Abbiamo lasciato in sospeso la domanda se la sola consacrazione fosse in
grado di dar ragione delle importanti dimensioni della vita consacrata come
la professione, la missione, i consigli evangelici, le espressioni della
comunione, ecc. Ci siamo chiesti se fosse veramente necessaria una sola
categoria teologica per avere una visione organica della vita consacrata. E ci
siamo anche chiesti se pretendere tanto da una categoria non rischierebbe di
renderla ambigua o incapace di accogliere tutte le forme o carismi della vita
consacrata.
A queste domande si può rispondere che la teologia della vita consacrata
degli ultimi sessant’anni ha dimostrato che la pretesa di abbracciare
l’insieme della fenomenologia della vita consacrata con un solo sguardo non
è possibile conveniente. Ciononostante, sarebbe poco giusto affermare
che i tentativi fatti siano stati tempo ed energie sprecate.
In primo luogo perché a motivo del rapporto che intercorre tra la
consacrazione religiosa e le altre consacrazioni, in primis con la base
sacramentale di ogni forma di vita ecclesiale, la comprensione della
consacrazione religiosa ha dovuto essere affinata, arricchendo la riflessione
sulla vita consacrata e superando gli stretti limiti della teologia morale e del
diritto canonico.15 Sia a difesa della consacrazione come categoria centrale,
sia per avversarla come troppo generale o insufficiente, la teo logia attorno
ad essa ha allargato questi orizzonti della riflessione sulla vita consacrata
nella misura dell’allargamento di orizzonte che il Concilio Vaticano II aveva
operato sulla Chiesa. Ciò che è avvenuto con ogni vocazione di vita
cristiana, doveva succedere con la vita consacrata; il ricorso alla
consacrazione è stato uno dei tentativi.
In secondo luogo, la teologia della consacrazione ha tentato in diversi
modi di sciogliere una tensione interna alle diverse forme di vita religiosa
che è la resistenza alla uniformizzazione e all’appiattimento. Il fatto di
essere interpellate da una categoria non appartenente alla tradizione di
nessuna forma di vita consacrata si può ritenere una opportunità.16
L’impegno della teologia della vita consacrata si è così riversato in un
approfondimento seriamente orientato alla fedeltà alle diverse forme di vita
religiosa, senza arrendersi all’impiego di una categoria che in parte,
specialmente dopo il Concilio, veniva sponsorizzata dall’autorità ecclesiale,
con i vantaggi e gli inconvenienti che ne derivano.
2. Per un radicamento teologale (forte) della vita consacrata
Comunque sia, non può che essere accolto favorevolmente il modo in cui la
consacrazione ha suscitato gli sforzi per pensare un radicamento teologale
forte della vita consacrata.
Ciardi è stato uno degli autori che hanno allo stesso tempo manifestato
riserve per l’estensione qualitativa e quantitativa della categoria della
consacrazione e spronato ad una seria riflessione su di essa: «dobbiamo
riconoscere che la focalizzazione sulla consacrazione a volte ossessiva e a
mio parere ingiustamente totalizzante ha aperto la riflessione dottrinale su
piste che converrà continuare ad approfondire»,17 sul piano delle dimensioni
non solo teologali, antropologiche, sociali o cosmiche, ma anche
eucaristiche e mariane.18
La comprensione della vita consacrata attorno alla consacrazione è stata
a volte ritenuta troppo “identitaria”. Si può capire questa resistenza qualora
si potesse mettere a repentaglio la centralità della chiamata di Dio, oppure
nella misura in cui, nel delineare la propria specificità, si sottolineassero
eccessivamente le differenze, “orizzontalmente” (tra stati di vita o persino
tra tipi di vita consacrata) o “verticalmente” (tramite i comparativi di
superiorità, così antipatici allora come oggi).19
Ciononostante, in un’atmosfera culturale relativizzante, sembra
opportuno continuare a riflettere sulle basi essenziali e le basi comuni della
vita consacrata. Le basi essenziali ancorano fortemente la vita consacrata
alla condizione cristiana battesimale e le basi comuni, nella ricchezza della
varietà, affermano la potenza del dono di Dio per il mondo e per la storia.
Questi due livelli vanno tenuti insieme.
Il radicamento della vita consacrata nella condizione battesimale
ripropone la chiamata alla santità, come ha ricordato il capitolo V della
Lumen gentium. Ma allo stesso tempo l’evocazione della forza dello Spirito nel
rimandare ai carismi e al vissuto personale di coloro che si sentono
chiamati, non rimanda ad altro che alla santità. E poi la ricerca della santità
richiama radici forti, nella chiamata del Signore e nella determinazione a
seguirlo.
È noto che la santità non è un ideale platonico, ma nemmeno un
concetto puro ispirato ad una figura sbiadita di Gesù. Non c’è spazio per
una considerazione della consacrazione confinata nella linea dei semplici
“mezzi” per una santità generica. Ciò vale anche per i consigli evangelici di
castità, povertà e obbedienza, per la professione e per i voti. Come pure per
la vita comune o la missione propria dell’istituto.
La santità ha mille volti; è sempre personale.20 Ma allo stesso tempo, non
esiste solo l’esperienza unica e incomunicabile di chi vive una vocazione con
certe caratteristiche. Per questa ragione parlare di elementi comuni di un
istituto religioso, di una forma di vita consacrata o della vita consacrata
come tale, non è solo una astrazione che potrebbe minacciare l’autenticità
dell’esperienza di un religioso o una religiosa, di un consacrato o una
consacrata. Che la santità sia personale non significa che sia individuale e
men che meno individualistica. La santità è relazione con Cristo nello
Spirito e, in Cristo, col suo Corpo che è l’insieme della Chiesa, ma
soprattutto nelle relazioni concrete che si stabiliscono nella sequela di
Cristo.
Per queste ragioni, per non perdersi nel vago oppure nell’astrazione, ma
anche per evitare una deriva individualistica sempre fragile, è necessaria,
assieme ad una fede forte, una comprensione ragionata, teologicamente
fondata dell’esperienza dei religiosi nel cuore della Chiesa.
Dopo sessant’anni di riflessione forse bisogna riconoscere che non si può
tentare di racchiudere teologicamente l’insieme della vita consacrata in una
sola categoria onnicomprensiva. Consacrazione, radicalismo, profezia,
segno, o qualche formulazione del primo millennio, magari di radice
monastica, possono continuare a dare una base consistente, solida alla vita
consacrata, a patto che siano opportunamente collegate alla forte
comprensione della Chiesa elaborata dal Concilio.
3. Al servizio di una comprensione di tutte le vocazioni nella Chiesa
Uno dei motivi per cui non solo è legittimo, ma anche necessario formulare
e fondare in modo preciso gli elementi comuni della vita consacrata è che
ogni espressione di vita cristiana deve manifestare la propria correlazione
con le altre vocazioni nella Chiesa. A livello di Magistero, questa relazione
tra le vocazioni è stata formulata sia nell’Esortazione apostolica Vita
consecrata che nell’Esortazione apostolica Christifideles laici.
In Vita consecrata si legge:
Tutti i fedeli, in virtù della loro rigenerazione in Cristo, condividono una comune dignità; tutti
sono chiamati alla santità; tutti cooperano all’edificazione dell’unico Corpo di Cristo, ciascuno
secondo la propria vocazione e il dono ricevuto dallo Spirito (cfr. Rm 12,3-8). L’uguale dignità
fra tutte le membra della Chiesa è opera dello Spirito, è fondata sul Battesimo e sulla Cresima ed
è corroborata dall’Eucaristia. Ma è opera dello Spirito anche la pluriformità. È Lui che
costituisce la Chiesa in una comunione organica nella diversità di vocazioni, carismi e ministeri.
Le vocazioni alla vita laicale, al ministero ordinato e alla vita consacrata si possono considerare
paradigmatiche, dal momento che tutte le vocazioni particolari, sotto l’uno o l’altro aspetto, si
richiamano o si riconducono ad esse, assunte separatamente o congiuntamente, secondo la
ricchezza del dono di Dio.21
Della Christifideles laici, invece, sono queste parole:
Nella Chiesa-Comunione gli stati di vita sono tra loro così collegati da essere ordinati l’uno
all’altro. Certamente comune, anzi unico è il loro significato profondo: quello di essere modalità
secondo cui vivere l’eguale dignità cristiana e l’universale vocazione alla santità nella perfezione
dell’amore. Sono modalità insieme diverse e complementari, sicché ciascuna di esse ha una sua
originale e inconfondibile fisionomia e nello stesso tempo ciascuna di esse si pone in relazione
alle altre e al loro servizio.22
Affermare che le vocazioni alla vita laicale, al ministero ordinato e alla vita
consacrata sono “modalità con una originale e inconfondibile fisionomia”
magari suona un po’ troppo semplicistico. Infatti, può essere così, quando si
prende in considerazione la difficoltà di una delimitazione teologica
condivisa di ognuna delle vocazioni, però non sembra prudente perdere
l’occasione di lavorare in una direzione che non solo dia ragione delle
vocazioni paradigmatiche, ma anche che contribuisca a rinforzarle nella
logica della comprensione della Chiesa come comunione.
È questo uno dei motivi che spingono a continuare il lavoro, per certi
versi avviato attorno alla categoria di consacrazione, di tentare una
caratterizzazione teologica solida e profonda, ma anche nei limiti del
possibile condivisa, della vita consacrata. Ci sembra che ne vada del suo
radicamento nella chiamata alla santità nonché probabilmente, in modo
riflesso e correlativo, della relazione con la santità delle altre vocazioni nella
Chiesa.23
Non ultima, tra le motivazioni per continuare a lavorare alle basi
teologiche della vita consacrata, vi è la necessità di comunicare certezze ai
consacrati e alle consacrate, in virtù della consistente richiesta di certezze
avanzata dai fedeli che si arricchiscono della loro missione. Se non è stato
mai conveniente dare per scontate né i fondamenti della propria condizione
nella Chiesa, la potenza della vocazione battesimale, nei nostri tempi
sembra ancora più pericoloso accontentarsi di formulazioni teologicamente
poco fondate.
D’altronde questo impegno non può che essere corale e condiviso: un
eventuale appiattimento su categorie vaghe o fluide non gioverebbe alla
consistenza della vita consacrata, come nemmeno gioverebbe ad una
comprensione fondata delle altre condizioni di vita cristiana il fatto che una
di esse manchi di un adeguato radicamento nella comprensione della
Chiesa e, complessivamente, del mistero cristiano. Questa è anche una
chiamata all’impegno per una comprensione della condizione laicale nella
Chiesa. Infine, poter contare su una fiorente e matura teologia della vita
consacrata è una delle migliori basi per portare a termine e arricchire una
formazione iniziale e continuativa a sostegno della vocazione alla vita
consacrata.
IV. CONCLUSIONE E PROPOSTA: LE ISTANZE DI UNA TRADIZIONEDELLA VITA
RELIGIOSA
Le considerazioni precedenti sui motivi per cui si è espanso l’uso della
nozione di consacrazione e le ambiguità che talvolta ne sono derivate,
consigliano di riscoprire, accanto alla nozione stessa di consacrazione, altre
categorie che possano illuminare le solide fondamenta su cui poggia la vita
religiosa o consacrata nelle sue diverse declinazioni.
Abbiamo già accennato alla scelta dell’Esortazione apostolica Vita
Consecrata di presentare gli aspetti fondamentali di questa forma di vita
attorno ai tre assi costituiti dalla consacrazione, dalla comunione e dalla
missione. Sembra che questo possa essere il terreno comune per una crescita
organica della comprensione della vita consacrata, magari superando certe
unilateralità tipiche delle prime letture della caratterizzazione della vita
religiosa come consacrazione negli anni a ridosso del Concilio. È chiaro
anche che queste categorie dovranno essere affiancate dalle risultanze di
una teologia dei carismi più consolidata.24
Un ulteriore elemento da considerare ha a che vedere con il rapporto tra
carismi antichi e carismi nuovi che si riconoscono nella vita di
consacrazione secondo i consigli evangelici: un’articolazione adeguata tra
identità e profezia si può, o forse si deve, comprendere all’interno di una
“tradizione” della vita consacrata.
È lecito porsi la domanda se all’interno della Tradizione della Chiesa,
con la maiuscola, esista un soggetto di tradizione che è precisamente la vita
consacrata. Rileggendo il Concilio Vaticano II andrebbero prese con tutta
serietà certe parole, che qualcuno ha interpretato come una formulazione
consolatoria, e che invece sono straordinariamente impegnative: «Lo stato
di vita costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non
concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia
inseparabilmente alla sua vita e alla sua santità» (LG 44).
Il soggetto della Tradizione, con la maiuscola, è la Chiesa, che convoca in
i fedeli nella loro singolarità ma anche nelle loro vocazioni, appartenenze
e, in fin dei conti, nelle loro fonti di identità cristiana. Se la vita consacrata
appartiene alla vita e alla santità della Chiesa, vuol dire che svolge una
missione di conservazione e trasmissione della vita stessa che si addice alla
Tradizione come tale, anche con la maiuscola.
Questa via è stata poco esplorata,25 ma è legittimo chiedersi: quante
espressioni della Tradizione sono state conservate, formulate e tramandate
dalla vita religiosa?
Non si tratta solo di contenuti o sviluppi della fede comune che la vitalità
della vita religiosa ha accolto, protetto e non di rado ripristinato e
riproposto, senza le quali la Chiesa sarebbe inintelligibile. Basterebbe
proporre come esempi la custodia della vita liturgica nei monasteri, la difesa
della parola di Dio da parte dei mendicanti, o la espansione missionaria e
caritativa, operata da tante congregazioni moderne.
Si tratta anche e specificamente della conservazione, formulazione e
consegna alle nuove generazioni della vita religiosa come tale, come forma
di esistenza cristiana,26 alla quale in molti modi la Chiesa attinge per
riscoprire al suo interno un segno.27 Un segno qualificato dell’incarnarsi
della vita cristiana, per ritrovare nella comunione e nella missione che le
sono proprie la spinta che viene dall’Alto. Se questo fosse così, ci sarebbe un
ulteriore motivo per valorizzare la vita consacrata, nel suo donarsi come vita
e segno di santità nella e per la Chiesa (cfr. LG 44).
Sono pertinenti a questo proposito le parole dell’Esortazione apostolica
Vita consecrata:
Il primo compito missionario le persone consacrate lo hanno verso se stesse, e lo adempiono
aprendo il proprio cuore all’azione dello Spirito di Cristo. La loro testimonianza aiuta la Chiesa
intera a ricordare che al primo posto sta il servizio gratuito di Dio, reso possibile dalla grazia di
Cristo, comunicata al credente mediante il dono dello Spirito. Al mondo viene così annunciata la
pace che discende dal Padre, la dedizione che è testimoniata dal Figlio, la gioia che è frutto dello
Spirito Santo.28
E ancora queste altre parole di san Giovanni Paolo II:
La tensione escatologica si converte in missione, affinché il Regno si affermi in modo crescente
qui ed ora. Alla supplica: “Vieni, Signore Gesù!”, si unisce l’altra invocazione: “Venga il tuo
Regno” (Mt 6,10). Chi attende vigile il compimento delle promesse di Cristo è in grado di
infondere speranza anche ai suoi fratelli e sorelle, spesso sfiduciati e pessimisti riguardo al futuro.
[…] La vita consacrata è al servizio di questa definitiva irradiazione della gloria divina, quando
ogni carne vedrà la salvezza di Dio (cfr. Lc 3,6; Is 40,5).29
Queste parole riecheggiano in quelle di papa Francesco nella sua Lettera a
tutti i consacrati in occasione dell’Anno della Vita Consacrata:
Siate dunque donne e uomini di comunione, rendetevi presenti con coraggio dove vi sono
differenze e tensioni, e siate segno credibile della presenza dello Spirito che infonde nei cuori la
passione perché tutti siano una sola cosa (cfr. Gv 17,21). Vivete la mistica dell’incontro: “la
capacità di sentire, di ascolto delle altre persone. La capacità di cercare insieme la strada, il
metodo”, lasciandovi illuminare dalla relazione di amore che passa fra le tre Divine Persone (cfr.
1Gv 4,8) quale modello di ogni rapporto interpersonale.30
1 Il presente articolo raccoglie l’intervento svolto in occasione della Giornata di studio sulla Vita
Consacrata “Identità e profezia. Nuove e antiche forme di Vita Consacrata in dialogo”, Pontificia
Università della Santa Croce, Roma, 27-IV-2023.
2 Cfr. F. CIARDI, Una molteplicità di esperienze di vita, in CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA
CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA (a cura di), Consecratio et consecratio per evangelica consilia:
atti del Seminario internazionale, Pontificia Università Antonianum, Roma, 1-3 marzo 2018, LEV, Città del
Vaticano 2019, 120.
3 Sull’elaborazione dei testi sui religiosi, cfr. P. GUMPEL, P. MOLINARI, Il capitolo VI «De religiosis» della
costituzione dogmatica sulla Chiesa, Ancora, Milano 1985; M.A. ASIAIN, Proceso de elaboración del Decreto
«Perfectae caritatis» en el Concilio Vaticano II, «Analecta calasanctiana» 32 (1990) 337-474; F. SEBASTIÁN,
Historia capitis VI Constitutionis «Lumen Gentium», «Commentarium pro Religiosis» 45 (1966) 349-363; A.
LE BOURGEOIS, Introduzione storica al Decreto, in J.M.R. TILLARD, Y. CONGAR (a cura di), Il rinnovamento
della vita religiosa, Vallecchi, Firenze 1968, 43-60. Per alcune riflessioni a ridosso del Concilio, cfr. Y.
CONGAR, La vie religieuse dans l’Eglise selon Vatican II, «Vie Consacrée» 43 (1971) 65-88; J. GALOT, Il
religioso nel mondo. «Gaudium et spes» e vita consacrata, Queriniana, Brescia 1969; F. WULF, Constitutio
dogmatica de Ecclesia. Kommentar zum VI. Kapitel, in H. VORGRIMLER (a cura di), Das Zweite Vatikanische
Konzil. Dokumente und Kommentare, I, Herder, Freiburg am Breisgau 1966, 303-313; F. WULF, Decretum de
accomodata renovatione vitae religiosae. Einleitung und Kommentar, in H. VORGRIMLER (a cura di), Das Zweite
Vatikanische Konzil. Dokumente und Kommentare, II, Herder, Freiburg am Breisgau 1967, 249-308.
4 CONCILIO VATICANO II, Lumen Gentium. Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 21-XI-1964, n. 44. Dal
canto suo, il Decreto sui religiosi del Concilio Vaticano II, Perfectae caritatis si esprime in termini simili:
«Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli
evangelici vollero seguire Cristo con maggiore libertà ed imitarlo più da vicino, e condussero,
ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio. […] Tutta la loro vita, infatti, è stata posta al suo
servizio, e ciò costituisce una consacrazione del tutto speciale che ha le sue profonde radici nella
consacrazione battesimale e ne è un’espressione più piena» (CONCILIO VATICANO II, Perfectae caritatis.
Decreto sul rinnovamento della vita religiosa, nn. 1 e 5).
5 Cfr. A. RICCARDI, Vita consacrata. Una lunga storia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, 70-93.
6 Lo fa in modo speciale, CONGR. PRO INSTITUTIS VITAE CONSECRATAE ET SOCIETATIBUS VITAE
APOSTOLICAE, Elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa sulla vita religiosa (31-V-1983), «Enchiridion
della vita consacrata (EDB-Ancora)» 1 (2001) 2617-2664.
7 Cfr. X. LARRAÑAGA, La existencia consagrada en la Iglesia: apuntes de eclesiología para la vida consagrada,
Publicaciones Claretianas, Madrid 2016, 152-157.
8 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata. Esortazione apostolica post-sinodale circa la vita consacrata e la sua
missione nella Chiesa e nel mondo, 25-III-1996.
9 A. HERZIG, Weihe-Gemeinschaft-Sendung. Die dreifache Dimension des geweihten Lebens nach dem Apostolischen
Schreiben «Vita Consecrata», «Theologie der Gegenwart» 41 (1998) 264-275.
10 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA (a cura di),
Consecratio et consecratio per evangelica consilia: atti del Seminario internazionale, Pontificia Università Antonianum,
Roma, 1-3 marzo 2018, LEV, Città del Vaticano 2019.
11 Panoramiche interessanti, cfr. S. TASSOTTI, La consacrazione religiosa. Dal Concilio Vaticano II
all’esortazione apostolica «Vita consecrata», OCD, Roma 2003; P.G. CABRA, Tempo di prova e di speranza. Il
cammino della vita consacrata dal Vaticano II ad oggi, Àncora, Milano 2005; A. HERZIG, ‘Ordens-Christen’.
Theologie des Ordenslebens in der Zeit nach dem Zweiten Vatikanischen Konzil, Echter, Würzburg 1991; E.
FERASIN, Un lungo cammino di fedeltà. La vita consacrata dal Concilio al Sinodo, LAS, Roma 1996 («Biblioteca
di scienze religiose», 121); A. PIGNA, La consacrazione religiosa nei documenti conciliari e post-conciliari, in La
consacrazione religiosa (Atti della XXV Assemblea Generale CISM, 5-8 novembre 1985), Rogate, Roma 1985,
38-90; S. RECCHI, Consacrazione mediante i consigli evangelici. Dal Concilio al codice, Ancora, Milano 1988;
B. SECONDIN, Per una fedeltà creativa. La vita consacrata dopo il Sinodo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo
1995. Per un nostro tentativo, cfr. F. PUIG, La consacrazione religiosa: virtualità e limiti della nozione teologica,
Giuffrè, Milano 2010, 91-295.
12 Cfr. M. BEVILACQUA, La consacrazione religiosa. Prospettive di interpretazione nel Magistero e nella riflessione
teologica, in CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA (a
cura di), Consecratio et consecratio per evangelica consilia, 161.
13 Cfr. B.-D. DE LA SOUJEOLE, La vie consacrée dans le mystère du Christ et de l’Église, Parole et Silence, Paris
2020, 133-195.
14 Cfr. J. ROVIRA, La teologia della vita consacrata dal Vaticano II ad oggi, «Vita consacrata» 36 (2000) 6-7.
15 Infatti, gli orizzonti della riflessione sulla vita consacrata si sono allargati oltre i temi in cui si era
cristallizzata, come quello del rapporto tra comandamento e consiglio, o la questione dello stato di
perfezione che presupponeva una ecclesiologia fatta da stati, o il tema dell’autorità che riceve i voti e
della potestà sulla base della quale essa guida la comunità-istituzione, ecc.
16 I precedenti, la “consacrazione” delle vergini consacrate e la consacrazione negli istituti secolari,
non possono essere considerati i paradigmi esplicativi. Semmai sembra che all’origine della scelta di
denominare “consacrazione” l’impegno negli istituti secolari, ci sia stato precisamente il desiderio di
segnare differenze rispetto alla vita religiosa in senso stretto.
17 F. CIARDI, Criticità di alcune teologie della vita consacrata e ricerca di nuove teologie, in ISTITUTO DI TEOLOGIA
DELLA VITA RELIGIOSA «CLARETIANUM» (a cura di), Teologia e teologie della vita consacrata: Simposio, Roma,
13-14 maggio 2015, Claretianum ITVC, Roma 2016, 177-178.
18 Cfr. ibidem, 178.
19 Cfr. ibidem, 179-180.
20 Cfr. FRANCESCO, Esortazione apostolica Gaudete et Exultate sulla chiamata alla santità nel mondo
contemporaneo, 19-III-2018, nn. 1-34.
21 GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, n. 31.
22 IDEM, Christifideles laici. Esortazione apostolica post-sinodale sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel
mondo, 30-XII-1988, n. 55.
23 Non possiamo soffermarci su tale questione, che evoca il servizio reciproco delle vocazioni nel
sottolineare la propria specificità e l’irriducibilità dell’una all’altra. In questo senso, approfondire
l’identità di ogni vocazione serve anche a segnalare la differenza complementare. Per qualche cenno,
cfr. PUIG, La consacrazione religiosa, 343-349.
24 Cfr. lo scritto pioneristico di F. CIARDI, I fondatori uomini dello spirito: per una teologia del carisma di
fondatore, Città Nuova, Roma 1982. Per una prima approssimazione, cfr. D. VITALE, Carisma, in G.
CALABRESE, P. GOYRET, O.F. PIAZZA (a cura di), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010,
108-121. Cfr. J.C.R. GARCÍA PAREDES, La «consacrazione carismatica», in CONGREGAZIONE PER GLI
ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA (a cura di), Consecratio et consecratio per
evangelica consilia, 169-185.
25 Il classico sulla Tradizione Y. CONGAR, La tradizione e le tradizioni: saggio teologico, Edizioni Paoline,
Roma 1965 non contiene piste chiare su questa ipotesi, benché sia aperta a una varietà di
espressioni della Tradizione dipendenti dal vissuto della fede.
26 Cfr. LARRAÑAGA, La existencia consagrada en la Iglesia, 157-187.
27 Cfr. ibidem, 187-249.
28 GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, n. 25.
29 Ibidem, n. 27.
30 FRANCESCO, Lettera a tutti i consacrati in occasione dell’Anno della Vita Consacrata, 21-XI-2014, I.2.
THE JEWISH ROOTS OFDIVINE
CHRISTOLOGY:THE DIVINE WORD BEFORE
JESUS
GONZALO DE LA MORENA
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
ABSTRACT: The Jewish traditions about the
Word of God play a central role in the
development of early Christology. By examining
Philo of Alexandria’s Logos and the Targumim’s
Memra, this article aims to illustrate the
interplay between continuity and discontinuity
of New Testament Divine Christology within its
Jewish context. Within a frame of overarching
continuity, the Incarnation introduces a genuine
novelty, reshaping established notions about the
Word. The radical nature of this novelty
demands a historical explanation. Further
studies could explore the correlation between
historical events and the development of these
ideas.
KEYWORDS: Logos, Incarnation, Divinity of
Christ, Christology, Word of God.
RIASSUNTO: Le tradizioni giudaiche sulla Parola
di Dio hanno un’influenza significativa sullo
sviluppo iniziale della Cristologia. La nozione di
Logos in Filone di Alessandria e quella del
Memra nei Targumim aramaici offrono preziose
prospettive per illustrare il rapporto di continuità
e discontinuità tra la fede neotestamentaria nella
divinità di Cristo e il suo contesto giudaico.
L’Incarnazione, entro un quadro di continuità,
rappresenta una novità che ridefinisce le
concezioni esistenti sul Verbo divino; tale
innovazione richiede una spiegazione storica.
Ulteriori studi potrebbero esplorare l’interazione
fra gli eventi storici e lo sviluppo di queste idee.
PAROLE CHIAVE: Logos, Incarnazione, Divinità di
Cristo, Cristologia, Parola di Dio.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 157-175
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202406
CONTENTS: I. Introduction. II. Perspectives on the Jewish Roots of the Divinity of Jesus. III. The Jewish Divine
Word. 1. Philo’s Logos. 2. The Targumim’s Memra. IV. NT Continuity and Discontinuity with the Jewish
Word. V. Conclusion.
I. INTRODUCTION1
How could a first-century Jew worship a crucified man? Israel worships the
only God YHWH, whose transcendence is such that it doesn’t allow any
representation, whether pictorial or verbal: His face cannot be seen, His
name cannot be pronounced. And yet, in the first century, a group of
people, worshipped the crucified and risen Christ alongside the God of
Israel. This religious practice is manifested, among other places,2 in the
passage of Philippians 2,10-11: «at the name of Jesus every knee should bow,
in heaven and on earth and under the earth, and every tongue confess that
Jesus Christ is Lord, to the glory of God the Father».3 This paradox
constitutes the central theme of our broader investigation, yet to be
published, a historical-theological exploration focusing on the origins of
belief in the divinity of Jesus.
In this paper, we will address one particular aspect of this inquiry: the Jewish
theology of the Divine Word, as one of the roots of Divine Christology.
Arguably, one of the most significant antecedents to early Christology is the
Jewish theology of the Divine Word, which is integrated in the New
Testament concerning the figure of Christ. We question whether this
Christology represents a theological evolution of its Jewish origins or if, in
some sense, it signifies a rupture with them.
To explore this question within these limited pages, we presuppose a
foundational understanding of the intricate theology of the Word in the
Hebrew Bible, a subject extensively addressed elsewhere. Rather than
reiterating this exploration, our focus turns towards two sources that reflect
Jewish interpretations of the Bible –or more broadly, Jewish thought–
roughly contemporaneous with the composition of the New Testament. We
consider Philo of Alexandria, a prominent figure in Hellenistic Judaism, and
the Targumim, focusing solely on their treatment of the concept of “word of
God”. Although these sources do not precede the life of Jesus
chronologically, they provide valuable insights into pre-Christian Judaism,
being recognized as Jewish texts independent of Christian influence. Our
analysis of these sources will be facilitated by the consultation of secondary
literature authored by contemporary scholars. In examining early
Christology, our attention shifts to the New Testament, particularly the
writings of Paul and John.
Our exposition is structured into three sections. First, we provide a concise
overview of the main views about the connection between Ancient Judaism
and early Divine Christology. Second, we explore the Jewish notion of “The
Word of God”, through the lenses of Philo of Alexandria and the
Targumim. Finally, we examine the continuity and discontinuity of New
Testament Christology with these traditions.
II. PERSPECTIVES ON THE JEWISH ROOTS OF THE DIVINITY OF JESUS
The emergence of faith in the divinity of Jesus of Nazareth presents a
compelling question, both from theological and historical points of view. A
central aspect of this inquiry is the connection between the earliest Divine
Christology and its Jewish background. Two opposite viewpoints aim to
explain this relationship: one emphasizing a significant break and the other
highlighting complete continuity.
The first perspective, more prevalent in the past,4 emphasizes
discontinuity. The belief in the divinity of a man appeared simply
incompatible with the Jewish mindset. For instance, the French theologian
Jean Guitton, reflecting on the infinite transcendence and strict oneness of
the Jewish God, wrote in 1964 «a god in human form was doubly
unthinkable, inconceivable». He further remarked: «while the addition or
subtraction of one more god in the Roman pantheon might not surprise
anyone, from the perspective of Jewish tradition, this represented an
unimaginable novelty».5 Consequently, from this point of view, faith in the
Divinity of Christ is portrayed as a striking rupture with Judaism.
Conversely, contemporary historiography stresses the continuity between
early Christianity and its Jewish roots.6 Some historians, examining certain
beliefs in Second Temple Judaism, even dispute or downplay any substantial
innovation in early Christology within its Jewish milieu. According to their
perspective, the presence of some mediating figures suggests that there was
room for a second divinity in the Jewish heaven.7
Our broader yet unpublished research studies the concrete Jewish beliefs
that may align with New Testament Christology. Specifically, if concentrates
on figures mediating between God and His creatures, categorizing them
into two groups: “bottom-up” mediation figures and “top-down” mediations
figures. In the first group we considered those creatures that, at certain
junctures, are elevated by God to a higher status, enabling them to
undertake divine missions or even partake in divine prerogatives, like some
Angels in apocalyptic angelology, some apocalyptic traditions about the Son
of Man, as well as certain high messianic expectations. The latter category
includes several powers or attributes of God Himself that are personified
and describe God’s action or presence in the world. This group contains the
Spirit of the LORD, Wisdom, the name of God, and various traditions
concerning the Word of God, among others.
This unpublished and more comprehensive research investigates the
relationship —whether one of continuity or rupture— between each of
these figures and the Divine Christology depicted in the New Testament. I
will now center my attention on what, in my perspective, is one of the most
significative figures: the Jewish traditions about the Word of God,
particularly in Philo of Alexandria’s Logos and the Aramaic Targumim’s
Memra of God.
III. THE JEWISH DIVINE WORD
In this context, we presuppose a foundational understanding of the rich
theology concerning the Word of God in the Hebrew Bible, and we focus
our attention toward two sources that may bear witness to a potentially
divine Word within Judaism of the first centuries: Philo of Alexandria and
the Memra of the Targumim. While some of these documents postdate the
emergence of Christianity, they remain independent from it, thereby serving
as compelling testimonies of a Jewish non-Christian or conceptually pre-
Christian conception of a Divine Word.8 These documents not only receive
but also extend the Biblical traditions about the Word.
1. Philo’s Logos
The Greek term for “word”, λόγος, propitiates a convergence between the
Jewish and the Greek intellectual contexts, as manifested in the Alexandrian
Jew Philo. In his allegorical commentaries to the Bible, Philo integrates
Middle-Platonic and Stoic’s conceptions of the Logos with the figure of the
Word of God of the Jewish Scriptures.9 For us, the critical question revolves
around whether Philo’s Logos is just an expression of God himself or is a
distinct mediator. Philo’s texts do not offer a straightforward answer.10
In some texts, Philo’s Logos can be perceived as a part, power or act of
God, meaning mind of God, God’s expressed thought or God’s thinking activity.11
Thus, it will not really represent an entity apart from God. For example, in
De Opificio Mundi, Philo likens the process of creation to constructing a city
or edifice, where the architect’s plan exists in his mind before
materialization. Similarly, in the act of creation, God first conceives the
intelligible world in his mind, which contains the ideas as archetypes for the
sensible world. The intelligible world subsists in the Logos, which is
therefore God’s mind or God’s thinking activity, as the place of the ideas.12
So, here, the Logos is God, or at least the Logos is in God.
At first glance, the Logos may appear synonymous with the intellect of
God, and therefore it would not constitute a second entity, apart from God
Himself. It is God’s thought. However, it is not so simple. Some other texts
do distinguish the Logos from God. For instance, in this passage from Quis
rerum divinarum heres sit, the Logos is conceived as a link between Creator and
created:
To his Logos, his chief messenger, senior in rank, the Father who created all things has given as a
pre-eminent gift the privilege of standing on the frontier of being to separate what has been
created from the Creator. The same Word is a continual suppliant to the immortal God on
behalf of mortal man, who is exposed to affliction, and is also the ambassador of the ruler to the
subject race. The Word rejoices in this gift and exulting in it describes it in these words, «I stood
between the Lord and you» [Dt 5:5], that is, being neither uncreated like God, nor yet created
like you, but midway between the two extremes, a pledge to both sides.13
Philo states that the Logos was destined by the Father who created the
universe, so that it may be “in the middle” (μεθόριος) to separate (διακρίνῃ)
what is created from the Creator. Its mediating function works, at the same
time, as bond (δεσμός)14 and as divider (τομέυς).15 According to scholar
Díaz-Lisboa, this paradoxical double function is key to the mediating role of
the Logos: on the one hand, the Logos protects the transcendence of God
over Creation and preserves it from contact with matter; on the other hand,
it allows God to reflect His bounty on Creation.16. According to Williamson,
«it has been suggested that, by the time Philo wrote, the problem of
reconciling the transcendence and the immanence of God had become
acute within Judaism»;17 Philo himself developed a strong doctrine about
God’s transcendence, which «required him to develop the idea of mediation
by the Logos between God and his creation; otherwise there would have
been no kind of communication or relationship».18
In addition to that, Philo attributes titles such as the firstborn son of God,19 the
image of God,20 or even the second God21 to the Logos.22 The Logos can receive
many names, as Philo asserts: «the eldest of his angels, as the great
archangel of many names; for he is called the Authority, and the name of
God, and the Logos, and man according to God’s image, and he who sees
Israel».23 Philo likens the Logos with the manna, the High Priest, the Angel
of the Lord or even with God’s Wisdom.24 He, therefore, merges different
biblical figures of mediation and refers all of them to a single entity, the
Logos.25 So, in these texts, Philo’s Logos emerges as the ultimate mediating
figure between God and the world, akin to the Biblical Wisdom, as a distinct
entity with a certain ambiguity regarding its proper divinity.26
Different perspectives could exist regarding the Logos’ nature and its
relationship with the divine. Some texts of Philo’s could be read as asserting
the Logos’ divinity, interpreting it as an expression of God’s presence, power
or action in the world while maintaining God’s transcendence and
separation from it. Certain scholars, such as James Dunn, interpret all of
Philo’s references to the Logos in this way. According to Dunns perspective,
Philo employed discourse about the Logos merely as a means to articulate
the divine, but never considered it as an ontologically independent entity
distinct from God.27
However, other scholars argue that, at least in certain texts, Philo affirms
the ontological independence of the Logos with respect to its Creator, which
configures it as a real creature and not just a mere projection.28 Notably,
scholars like Giovanni Reale and Roberto Radice remark that, in Philo, the
Logos is a highly polysemic term.29 They have presented a scheme with four
different ways in which Philo talks about the Logos: the Logos in God, the
Logos in itself, the Logos in the world and the Logos in relationship with
men.
According to Boyarin: «Philo oscillates on the point of the ambiguity
between separate existence of the Logos, God’s Son, and its total
incorporation within the godhead polysemy or ambiguity appertains to
Philo’s texts themselves».30 So, attempts to reduce this notion to a single,
univocal meaning —whether created or divine, whether autonomous or a
power of God— appear challenging to undertake without forcing an
interpretation or leaving aside certain texts.31 Of our particular interest,
among the various facets of Philo’s Logos, is its ambiguity regarding its
ontological status: its autonomy or distinction from God, as well as its
personal character and true divinity, remain neither clearly nor explicitly
defined by the Alexandrian Jewish philosopher.
Following the insights of Larry Hurtado, we can delve further into the
divinity of Philo’s Logos, examining not only its ontological status in
speculative theology, but also its hypothetical manifestation in cultic
practice. If the Logos were truly considered a second divine entity, we would
anticipate the emergence of a worship directed towards it as a god or with
God. However, the Logos does not elicit specific worship. It is not invoked in
prayer nor adored or praised; it is not an object of faith or love.32 There is
no evidence of any Jewish liturgical worship to the Logos, nor to any second
figure together with God in Hellenistic Juda ism.33 This reinforces the core
tenet of Jewish monotheism that prohibits worship directed to any figure
other than the God of Israel. So, while in the theory the ontological status of
the Logos remains unclear, in the religious practice there is no room for a
second divinity.
2. The Targumim’s Memra
If these ideas about the Jewish Divine Word were confined solely to Philo,
one might be inclined to perceive them as an exception influenced by
Hellenistic thought. However, scholars such as Daniel Boyarin have shown
that similar ideas go beyond Philo. In fact, shifting our focus from
Hellenistic Judaism to Aramaic Judaism reveals echoes of a parallel notion
about the word of God. Specifically, evidence emerges in the Targumim.
Since these are Aramaic interpretations of the Hebrew Scriptures, we
should not expect to find explicit elucidations of their concept of word of
God. Nevertheless, this underlying notion is discernible in a distinct
phenomenon: the notable frequency with which the Targumim replace “the
LORD” or “God” in the Hebrew text with the Aramaic “Memra” (word) or
the formula “Memra YHWH” or “Memra Elohim”.34 Examples of this
substitution in the Targumim include:
The Memra instead of the LORD regrets having made man
before the flood35 and expresses repentance in other passages such
as Gen 8:21 or 1Sam 15:11,35.
Not God or His Name, but the Memra is encountered in the
shekinah: «I will ordain that my Memra be present».36
His Memra helps and accompanies Israel in the desert,
performing wonders for them.37
The Memra, not God himself, is offended against.38
These examples abound,39 but the verbal substitution is not an automatic
process, since Memra doesn’t replace God in all occurrences. Rather, a
selection is made based on certain involvements of God in the world.
Notably, the Memra is frequently used to circumvent
anthropomorphisms; for instance, it often substitutes for expressions like
“the mouth”, “the hand” or “the voice” of God; or to mitigate
anthropopathism such as the wrath or the repentance of God.40
However, not all instances serve this purpose. For example, God speaks in
Targum Neofiti Is. 65:1 saying: «I allowed Myself to be prevailed upon by
my Memra for them that did not seek me». According to Peter De Vries, «it
is certain that the Memra is not only explicitly distinguished from YHWH
himself in several texts, but that it is also described as a person who acts
autonomously».41
In the words of 20th-century Rabbi Kaufmann Kohler, «the Memra
figures as the manifestation of divine power or as the messenger of God».42
According to Boyarin, the activities ascribed to the Memra parallel those of
Philo’s Logos.43 In fact, it functions as an instrument in the creation and
revelation of God, facilitating communication with humans, bringing
salvation, liberation or punishment.
In the Targumim, the action of the Word is often conflated with the
action or power of God, as if it were indistinguishable from God Himself;
while at other times, it is personified, suggesting a separated entity. Vries
writes: «just as the logos of Philo has a semi-independent status and stands
between God himself and creation the same is true of the Memra in
Targum Neofiti».44
Moreover, an equivalence is established between the word of God and
other manifestations of God’s presence or action in the world, such as the
name of God dwelling in the shekhina or the Angel of the Lord leading the
people. Ultimately, akin to Philo, in Aramaic Judaism, various biblical
figures of mediation (top-down) converge under a prevailing category: the
word of God.
While most of the Targumim have been completed after the rise of
Christianity, as Vries points out: «these are written records of traditions that
are older and sometimes much older».45 The Targumim articulate an idea
which is similar, albeit not identical, to Philo’s Logos, despite their different
contexts.46 According to a prevailing opinion, both phenomena unfolded
independently of the rise of Christianity, even though they were roughly
contemporaneous to it.47 In conclusion, these texts bear witness to a shared
Jewish thought that may have also influenced the early Christian context:
the transcendent God is actively present in the world through the mediation
of His Word.
IV. NT CONTINUITY AND DISCONTINUITY WITH THE JEWISH WORD
In New Testament Christology, particularly in the Pauline and Johannine
texts, we discover profound connections with the explored Jewish traditions
surrounding the concepts of the Word and Wisdom. Like Philo and the
Targumim, both John and Paul combine the attributions to the various
“top-down” mediators of the transcendent God into one singular figure.
While a proven dependence between Pauline literature and Philo is
lacking, the points in common are remarkable. Philo’s Logos, akin to the
Christ portrayed in the Pauline corpus, is depicted as the Son of God, the
firstborn of all things, the image of the invisible God; it serves as a mediator
in creation, it sustains and accompanies the people of Israel through the
desert... These parallels underscore how Paul’s Christolog ical conceptions
maintain a strong continuity with the Jewish thought of his era.
A similar analysis applies to the Johannine literature. The fourth
evangelist inherits Jewish traditions about Wisdom and the Word, and refers
them to the being and mission of Christ. Themes preached about Wisdom
find clear resonance in the prologue, emphasizing its presence with God at
the beginning of the world, its role in creation, and its mission in the world.
Martin McNamara’s classic study posits that John’s doctrine and term of
the Logos was shaped in synagogue theology, through the Targumim.48
Ultimately, whether John owes his theology of the Word precisely to the
Targumim or to Philo, or to some other channel of Jewish thought is a
debated question. What remains clear is that Johns theology of the Word
has as a precedent in the Jewish tradition contemplating the role of the
Word of God as a divine power through which God creates, saves, and
guides His people.
To illustrate the continuity and divergence of the Johannine Logos with
its Jewish roots, we can focus on its prologue.49 Its opening verses can be
read in straight continuity with his Jewish tradition: «In the beginning was
the Word, and the Word was with God, and the Word was God» (Jn 1:1). As
showed by Daniel Boyarin, a non-Christian Jewish person, —whether from
the Hellenistic milieu, akin to Philo, or a from a Palestinian context, akin to
a reader of the Targumim— could have written those same verses.50
However, the departure from the previous traditions becomes significant in
verse 14: «And the Word became flesh». This verse is not a mere extension
of what came before. Previously, the word of God received all attributions
proper to all “top-down” mediation figures, constituting a mysterious quasi-
divine figure; but identifying it with a human being is entirely unexpected
within the Jewish tradition about the Word of God. There is no evidence of
prediction, prophecy or tradition foreseeing the Word coming in human
form. Thus, the incarnation of the Word introduces a genuine novelty. Its
meaning cannot be deduced from its previous traditions and its significance
may eventually contribute to the separation of Christianity from its Jewish
roots.
The innovation introduced by the Incarnation yields significant
consequences in altering the meaning and theological role of the Logos. As
Vries notes, while Philo’s Logos preserved God from contact with the
material realm in creation, for John, the Logos signifies a full and direct
contact of God with the world and matter. Similarly, the word of God in the
Targumim protected God’s transcendence from anthropomorphisms, but
for John, the Logos becomes the ultimate anthropomorphism of God in His
Son. «For John, it is a mystery that the Logos, which is God himself, has
become man. Those who see the only begotten Son as the Word Incarnate,
see God himself».51
Most of the ideas mentioned up to this point can be found in different
modern authors. Now, I would like to introduce also some personal
reflections on the subject.
The Incarnation implies also another relevant consequence: it clarifies
the previous ambiguity regarding the ontological status of the Logos. John
modifies and, in a sense, resolves two crucial ambiguities of the Jewish
Divine Word: first, its ontological independence and, second, its proper
divinity.
Firstly, the Christian Logos is identified with the same person of Jesus who
is a distinct subject from the Father. This brings new clarity to the Logos as
a separate person. Secondly, the faith in His divinity is not only expressed in
a new and clearer way, but also it is manifested in its practical consequences.
In fact, it leads to the early development of new patterns of liturgy, worship,
faith, love and prayer directed to Christ alongside with the Father, of which
we have enough evidence in the New Testament, as demonstrated by
Hurtado.52 So, its divinity is affirmed also in the practice.
In these two aspects, the Incarnation resolves the old ambiguities while
presenting a new challenge. The redefinition of the ontological status of the
Logos introduces a new relational alterity within the one God of Israel. This
becomes the foundation for the future development of the Trinitarian
doctrine. In fact, the distinct personality and divinity of the Logos are
affirmed alongside the oneness of God, as expressed in the statement: «I and
the Father are one» (Jn 10:30). We need to note that this seed of the doctrine
of Trinity is absent in the Jewish documents, further supporting the idea that
it is a consequence of a genuine novelty, the Incarnation.
Concisely, we must now consider the relationship between the notion of
the Logos and the person of Jesus Christ, not only during his human life but
also before Incarnation, approaching Johns prologue as a reflection of early
Christological faith, and so interpreting it in unity with the whole Gospel, as
received and proclaimed in the early church. In this perspective, Jesus
cannot be simply equated with the Logos, because he encompasses also his
human condition: rather, he is the incarnate Logos. However, the Incarnation
of the Logos occurs in such a manner that allows to affirm the pre-existence
of the same person-subject53 of Jesus, as indicated in various passages of the
Gospel of John.54 Particularly and not exhaustively, Jesus himself asserts his
own mysterious pre-existence in Jn 8:58: «before Abraham was, I am», and
in 17:5, where he prays to the Father saying: «glorify me in your own
presence with the glory that I had with you before the world existed». This
understanding necessitates the recognition that the same person of Jesus
preexisted as the Son, distinct and yet inseparable from the Father, even
before the world.
Consequently, reading Jn 1:1-18 in unity with the whole Gospel implies
that the pre-incarnate Logos should be understood as the same person-
subject as Jesus. Therefore, a hypothetical understanding of the Logos as an
impersonal power, whether in God or between creation and Creator, is
excluded. Rather, the Christian Logos possesses a permanent personal
character and is distinct from the Father. Faith in the Incarnation, therefore,
illuminates and reshapes the comprehension of the Logos’ ontological status,
also prior to its terrestrial embodiment, affirming his personal aspect as Son
of God.
For this reason, while we agree with Boyarin that a first-century non-
Christian Jew could also have written «In the beginning was the Word, and
the Word was with God, and the Word was God», at the same time, we
argue that the meaning of these words would significantly differ with the
revelation of Incarnation. Previously, these words may not clearly convey a
second reality in God, allowing for different interpretations. The previous
discourse about the Word doesn’t seek to introduce a relational alterity in
God but rather to articulate two tenets of Jewish faith: God’s involvement in
the world and God’s radical transcendence from it. Only after the
Incarnation, do the confusing intuitions about the Word transform into the
mysterious yet clear affirmation of a second person in God.
From our perspective, while Boyarin correctly identifying the Christian
novelty in the doctrine of Incarnation, there is room for a deeper
recognition of how this doctrine impacts the notion of the Logos. Boyarin
asserts that the pre-existent Logos «is not (yet) Christ».55 Strictly speaking,
this assertion is accurate: Jesus is the Logos incarnate. However, as we have
argued, even when understood as asarkos, the Christian notion of the Logos
must be regarded as a person, who is unambiguously distinct from the
Father, worshipped alongside Him. The Incarnation thus becomes a
transformative step that allows for the resolution of the prior ontological
ambiguity of the Logos.
Prior to the revelation of the Incarnation, a genuine affirmation of two
distinct persons in one God, while perhaps vaguely foreshadowed, remains
allusive due to the mentioned ambiguity. After the revelation of Incarnation,
the meaning of the Logos, when understood in unity with the whole Gospel
of John, no longer admits such ambiguity.
Furthermore, this novelty raises questions about its origin. Even if the
Jewish theology of the Word had hinted a secondness in the Divinity, its
identification with a historical man would still require an explanation. The
connection between a man and the Word cannot be reduced to a
development of the old ideas. Therefore, the explanation for the novelty of
Incarnation must be historical: something relevant must have happened in
the history of Jesus and of his followers.
V. CONCLUSION
We have presented the case of the Divine Word as a significant exemplar to
explore the interplay of continuity and discontinuity between early faith in
the divinity of Christ and Jewish thought. This case underscores the
profound Jewish origins of this Christian belief. While we acknowledge these
roots as necessary preconditions for the development of Christology, we
argue that they alone are insufficient to fully account for the origin of this
belief. The association of these traditions with an individual man, represents
a novelty that transcends a simple evolution of ideas. This innovation
transforms inherited Jewish beliefs, leading towards significant consequences
such as the early worship of Christ alongside the Father and the later
development of the doctrine of Trinity over centuries. Thus, within a frame
of overarching continuity, a transformative novelty emerges.
The novelty of Incarnation, particularly when considered together with
the scandal of the cross, cannot be adequately understood as a mere
theological development within Jewish thought. Therefore, further
exploration is required to give a comprehensive account of this process,
recognizing the influence of historical events in shaping theo logical ideas. A
complete understanding of the process should also consider, among other
things, how Jesus’ words and deeds, as well the Easter events, contributed to
or catalyzed the development of those ideas. Without integrating these
factors, the emergence of faith in Jesus’ divinity will probably remain
insufficiently explained. This recognition may point a direction for future
scholarly endeavors to delve deeper into this question and, in this sense, may
represent a small step towards the goal of giving a historical account of the
origins of the faith in the divinity of Christ.
1 Lecture delivered at the Notre Dame University Systematic Theology Colloquium on January 26,
2024. This presentation provides a concise preview of our ongoing research on the origins of faith in
the divinity of Jesus, which remains unpublished. The title, intended for a wider audience, requires
two clarifications. Firstly, “Divine Christology” is employed to articulate the faith assertion that Jesus
is not solely the promised Messiah but also possesses a divine condition. From a Catholic perspective,
“Divine” may seem redundant alongside “Christology”; but here it expresses a reduction of our focus
to one particular aspect of the whole Christological discourse. We use the term “Divine Christology”
to specify the limitation of our study to the divine condition attributed to Christ, and not as opposed
to alternative non-orthodox Christologies. Secondly, the phrase “before Jesus” does not strictly denote
chronological precedence but rather aims to contrast Christian faith with its Jewish origins, discerning
what is genuinely innovative in Christianity vis-à-vis its Jewish roots. While acknowledging that our
selected sources, Philo and the Targumim, do not predate Jesus chronologically –at least most of the
Targumim–, they represent Jewish perspectives independent of Christianity (more details about this aspect
will be provided in footnote 8). Hence, they can be studied as manifestations of Jewish conceptions on
the divine word that do not depend on Christian theology, and in this sense, “before Jesus”.
2 For further exploration about the early Christian devotion to Christ and its Jewish context, cfr. M.
HENGEL, The Son of God: The Origin of Christology and the History of Jewish-Hellenistic Religion, Wipf and
Stock, Eugene 2007; IDEM, Between Jesus and Paul: Studies in the Earliest History of Christianity, XPress
Reprints, London 1983; L.W. HURTADO, One God, One Lord: Early Christian Devotion and Ancient Jewish
Monotheism, T&T Clark, Edinburgh 1998; IDEM, At the Origins of Christian Worship: The Context and
Character of Earliest Christian Devotion, Eerdmans, Cambridge 2000; IDEM, Lord Jesus Christ: Devotion to
Jesus in Earliest Christianity, Eerdmans, Cambridge 2003; IDEM, How on Earth did Jesus become a God?
Historical Questions about Earliest Devotion to Jesus, Eerdmans, Cambridge 2005; A.T.E. LOKE, The Origin
of Divine Christology, Cambridge University Press, New York 2017; S. INFANTINO, La venerazione di Gesù
nel protocristianesimo. Indagine sulla cristologia dalle origini gerosolimitane all’età sub-apostolica, Città Nuova,
Roma 2017.
3 Biblical texts are sourced from the English Standard Version, Crossway, Wheaton 2016.
4 According to scholars such as Giuseppe Segalla, John P. Meier or N.T. Wright, the reappraisal of
Jesus and his movement’s Jewish identity constitutes a prominent feature of the so-called Third Quest
for the Historical Jesus. Contemporary scholarship on the historical Jesus delineates the progression of
research into several phases, culminating in the current Third Quest. A significant shift from the
Second to the Third Quests involves moving from emphasizing discontinuity to recognizing
continuity between the early Christian movement and its Jewish origins. This transition was facilitated
by the discovery and renewed interest in Jewish non-canonical documents dating to the first century.
Cfr. for instance, G. SEGALLA, Sulle tracce di Gesù: la ‘Terza ricerca’, Cittadella, Assisi 2006; J.P. MEIER,
The Present State of the ‘Third Quest’ for the Historical Jesus: Loss and Gain, «Biblica» 80 (1995) 459-487; N.T.
WRIGHT, Jesus and the Victory of God, Fortress, Minneapolis 1992, 21 ff. According to these scholars,
authors like J. Jeremias or G. Bornkamm, considered part of the Second Quest, tended to portray
First-Century Judaism as the negative background overcame by the advent of Christianity. Meier says:
«perhaps the single greatest justification of the third quest is its attempt to undo the caricatures of
Judaism perpetrated consciously or unconsciously by the first two quests» (MEIER, The Present State of
the Third Quest, 466-467). However, we refrain from adopting their terminology –first, second and
third quest– due to its contentious nature, as critiqued by F. BERMEJO, Historiografía, exégesis e ideología.
La ficción contemporánea de las ‘tres búsquedas’ del Jesús histórico (I), «Revista catalana de teología» 30 (2005)
349-406 and its sequel Historiografía, exégesis e ideología. La ficción contemporánea de las ‘tres búsquedas’ del
Jesús histórico (y II), «Revista catalana de teología» 31 (2006) 53-114, a view challenged by R.
AGUIRRE, La ‘Third Quest’, ¿una nueva investigación?, «Revista catalana de teología» 33 (2008) 301-325.
Aguirre, while accepting that the tripartite periodization is a simplification, highlights some valid
aspects of it, such as the Jewish contextualization of Jesus and his movement as a defining
characteristic of contemporary research compared to investigations conducted decades ago.
5 J. GUITTON, Gesù, Marietti, Bologna 1964, 223, 225.
6 Some examples of this emphasis can be found in G. BOCCACCINI, P. STEFANI, Dallo stesso grembo: le
origini del cristianesimo e del giudaismo rabbinico, EDB, Bologna 2012; D.L. BOCK, J.H. CHARLESWORTH
(eds.), Parables of Enoch: A Paradigm Shift, T&T Clark, London 2013; R.A. BÜHNER, Messianic High
Christology: New Testament Variants of Second Temple Judaism, Baylor University Press, Waco 2021; D.D.
HANNAH, Michael and Christ: Michael Traditions and Angel Christology in Early Christianity, Mohr Siebeck,
Tübingen 1999, as well as in the works quoted in the next footnote.
7 This section offers a broad overview of the spectrum of positions regarding the relationship between
Judaism and the origins of faith in the divinity of Christ, delineating two contrasting viewpoints. The
inherent limitations of a “Nota” preclude the comprehensive elaboration of the motives or specific
arguments underlying these authors’ stances. Further elaboration will be offered in forthcoming
publications. About the position that tends to downplay any novelty in portraying a second person or
power in the Jewish God, cfr. B.D. EHRMAN, How Jesus Became God: The Exaltation of a Jewish Preacher
from Galilee, HarperOne, New York 2014, 54, 61, 252, and passim; P. SCHÄFER, Two Gods in Heaven.
Jewish Concepts of God in Antiquity, Princeton University Press, New Jersey 2020; A.F. SEGAL, Two Powers
in Heaven: Early Rabbinic Reports about Christianity and Gnosticism, Brill, Leiden 1977.
8 Regarding the independence of Philo’s Logos in relation to the Christian Logos, see G. REALE,
Introduzione. L’importanza, il significato e la struttura della filosofia di Filone di Alessandria, in FILONE DI
ALESSANDRIA, La creazione del mondo e le allegorie delle leggi, Rusconi, Milano 1978, 5-56; G. REALE, R.
RADICE, Monografia introduttiva, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commento allegorico alla Bibbia,
Rusconi, Milano 1994, VII-CLV; R. WILLIAMSON, Jews in the Hellenistic World: Volume 1, part 2: Philo,
Cambridge University Press, New York 1989. Concerning the independence of the Targumim’s
Memra from the Christian Logos, cfr. D. MUÑOZ LEÓN, Dios-Palabra, Memra en los Targumim del
Pentateuco, Institución San Jerónimo, Granada 1974, 581. Numerous scholars employ these sources
similarly to our approach, regarding them as testimonies to a Jewish concept of the Word of God
conceptually preceding Christianity. Notable among them are: EHRMAN, How Jesus Became God;
SCHÄFER, Two Gods in Heaven. Jewish Concepts of God in Antiquity; M. MCNAMARA, Logos of the Fourth
Gospel and Memra of the Palestinian Targum (Ex 12), «The Expository Times» 79 (1968) 115-117; D.
BOYARIN, The Gospel of the Memra: Jewish Binitarianism and the Prologue to John, «Harvard Theological
Review» 94 (2001/3) 243-284.
9 Cfr. M.-Y. SAGNA, Concetto di logos e sintesi culturale nel pensiero di Filone d’Alessandria, Pontificia Università
Salesiana, Roma 2020, 61. WILLIAMSON, Jews in the Hellenistic World: Philo, 104.
10 For the ideas in the subsequent exposition, cfr. G. REALE, Introduzione.
11 Cfr. WILLIAMSON, Jews in the Hellenistic World: Philo, 108, 110, 111. He also uses the term “divine
Potencies” referred to the Logos, cfr. 111.
12 De Opificio Mundi, VI, 24-25: «If any one were to desire to use more undisguised terms, he would not
call the world, which is perceptible only to the intellect, anything else but the reason [logos] of God,
already occupied in the creation of the world; for neither is a city, while only perceptible to the
intellect, anything else but the reason of the architect, who is already designing to build one
perceptible to the external senses, on the model of that which is so only to the intellect [...] It is
manifest also, that the archetypal seal, which we call that world which is perceptible only to the
intellect, must itself be the archetypal model, the idea of ideas, the reason [logos] of God», Yonge’s
translation, available online in P. KIRBY, Early Jewish Writings, 2024: earlyjewishwritings.com (accessed
4 may 2024).
13 Quis rerum divinarum heres sit, 205-206. We use the translation by WILLIAMSON, Jews in the Hellenistic
World: Philo, 119.
14 De fuga et inventione, 112.
15 Quis rerum divinarum heres sit, 130-143, cfr. M.A. DÍAZ-LISBOA, El Logos mediador en Filón de Alejandría,
«Palabra y Razón» (2021) 43.
16 DÍAZ-LISBOA, El Logos mediador en Filón de Alejandría, 49.
17 WILLIAMSON, Jews in the Hellenistic World: Philo, 105.
18 Ibidem, 120.
19 De Agricultura, 51. The Logos is called «firstborn of God» in De Confusione Linguarum, 146, and in
some versions of Legum Allegorie III, 175, as reported in G. REALE (ed.), La creazione del mondo e le allegorie
delle leggi, Rusconi, Milano 1978, 304, «primogenito».
20 De Fuga et Inventione, 101.
21 Quaestiones et Solutiones in Genesin, II, 62.
22 Cfr. REALE, Introduzione, 44.
23 De Confusione Linguarum, 146.
24 Cfr. REALE, Introduzione, 44.
25 It is also merged with the personified Wisdom. According to Reale and Radice, in many Philo’s
texts, it is permissible to equate the figures of Logos and Wisdom, considering the latter as the biblical
transposition of the former, REALE, RADICE, Monografia introduttiva, 96-97.
26 Cfr. DÍAZ-LISBOA, El Logos mediador en Filón de Alejandría, 47-49.
27 Cfr. J.D.G. DUNN, Per i primi cristiani Gesù era Dio?, Claudiana, Torino 2019, 95-96.
28 This is the position of different authors like M. TODOROVSKA, The Concepts of the Logos in Philo of
Alexandria, «Živa Antika» 65 (2015) 37-56; REALE, RADICE, Monografia introduttiva, 7-94; WILLIAMSON,
Jews in the Hellenistic World: Philo, 119-143.
29 Cfr. REALE, RADICE, Monografia introduttiva, 89.
30 D. BOYARIN, The Gospel of the Memra, 251.
31 This polysemy is affirmed not only by Boyarin but also by the cited authors like Todorovska, Reale,
Radice and Williamson.
32 Cfr. DÍAZ-LISBOA, El Logos mediador en Filón de Alejandría, 47-48.
33 Cfr. HURTADO, One God, One Lord, 44-46.
34 A classic, detailed and meticulous study on the subject is the quoted MUÑOZ LEÓN, Dios-Palabra,
Memra en los Targumim del Pentateuco.
35 Targ. Gen 6:6; this and the following instances are taken from the Targum Onkelos.
36 Targ. Ex 25:22.
37 Targ. Num 23:21.
38 Targ. Ex 16:8.
39 More examples in K. KOHLER, Memra, in The Jewish Encyclopedia, vol 8., Leon-Moravia, KTAV, New
York 1964, 464-465.
40 Cfr. M.L. KLEIN, The Translation of Anthropomorphisms and Anthropopathisms in the Targumim, in Congress
Volume Vienne 1980, Brill, Leiden 1980, 162-177.
41 P. DE VRIES, The Targumim as Background of the Prologue of the Gospel according to John, «Journal of Biblical
Theology» 1 (2018/4) 108.
42 KOHLER, Memra, 464-465.
43 Cfr. BOYARIN, The Gospel of the Memra, 243-284.
44 VRIES, The Targumim as Background of the Prologue of the Gospel according to John, 109.
45 Ibidem, 104; Cfr. MUÑOZ LEÓN, Dios-Palabra, Memra en los Targumim del Pentateuco.
46 Some scholars have endeavored to investigate the potential influence of Philo’s Logos on the
theology of the Memra in the Targumim, but this relationship remains unproven: we cannot dismiss
the possibility of mutual influence, nor can we rule out the potential for parallel development. For
some, it is simply seen as two distinct manifestations of a common thought within the Judaism of that
era, cfr. BOYARIN, The Gospel of the Memra, 243-284.
47 Cfr. MUÑOZ LEÓN, Dios-Palabra, Memra en los Targumim del Pentateuco, 581.
48 Cfr. MCNAMARA, Logos of the Fourth Gospel and Memra of the Palestinian Targum, 115-117.
49 In the context of this paper, we regard the prologue as a particularly condensed manifestation of
Johannine Christology; so, we are interested in its unit as a whole, rather than in considering its
hypothetical layers of redaction. While employing its distinct vocabulary, the theological notions
presented in John’s prologue align coherently with the overarching narrative of the entire Gospel,
with these motifs recurring throughout. For further exploration of the prologue in relation to the rest
of the Fourth Gospel, see D.F. FORD, The Gospel of John: a theological commentary, Baker, Grand Rapids
2021, 25-27; J.W. CARTER, The Prolegomena of the Fourth Gospel: Jesus, LORD and YAHWEH, «Journal of
Biblical Theology» 6 (2023) 47-48; M. RODRÍGUEZ RUIZ, La cristología del prólogo de San Juan en la
investigación joánica más reciente, «Fortunatae» 28 (2018) 317-318; J.M. HERNÁNDEZ CARRACEDO, El papel
de las notas cristológicas del narrador en el Evangelio de Juan, «Revista Bíblica» 80 (2018) 42-43; M.V. FABBRI,
Prologo e scopo del vangelo secondo Giovanni, «Annales Theologici» 21 (2007) 253-278.
50 BOYARIN, The Gospel of the Memra, 257, 261.
51 VRIES, The Targumim as Background of the Prologue of the Gospel according to John, 121.
52 Two notable works wherein Hurtado elucidates this perspective are: One God, One Lord: Early
Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism and Lord Jesus Christ: Devotion to Jesus in Earliest Christianity,
quoted also in footnote 3.
53 We would like to avoid anachronistically applying the Christological vocabulary typical of the fifth
and following centuries. Neither do we want to speak about a “subject” in the contemporary
philosophical sense. However, we don’t find better words than “person” and “subject” to say what we
mean, namely, that the same literary character and grammatical subject that the Gospel of John calls
“Jesus” can be said to pre-exist prior to his own human birth. The same subject who receives the
Christological confession is said to be the Logos through whom all things were made and to have died
on the cross. This is the sense in which we use indistinctively the terms “subject” and “person” here.
54 For example, John 3:13; 6:46.62; 8:58; 16:28; 17:5.
55 BOYARIN, The Gospel of the Memra, 284.
COSMO, EUCARISTIA E ATTIVITÀ UMANA
Riflessioni teologiche a partireda “La Messa sul Mondo” di Teilhard de
Chardin
CLAUDIO TAGLIAPIETRA, GIOVANNI ZACCARIA, JOSÉ LUIS GUTIÉRREZ
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
RIASSUNTO: A partire dalla lettura della Messa sul
Mondo (1923), gli autori riflettono teologicamente
sulla relazione tra creazione, celebrazione
eucaristica e lavoro umano. L’articolo espone la
genesi della preghiera di Teilhard de Chardin, la
spiritualità del lavoro in essa contenuta, e la sua
ripresa da parte del Magistero pontificio. Si
illustra come si possa esercitare il sacerdozio
comune nella celebrazione eucaristica, e come
questo esercizio influisca nella vita quotidiana.
Infine si mostra come nel culto cristiano tra
“sacro” e “profano” non vi sia opposizione, ma
continuità, con comprensibili conseguenze anche
al di fuori della celebrazione eucaristica.
PAROLE CHIAVE: Teilhard, Eucaristia, Lavoro,
Sacro e profano.
ABSTRACT: From the reading of The Mass on the
World (1923), the authors reflect theologically on
the relations among creation, Eucharistic
celebration and human work. The article
outlines the genesis of Teilhard de Chardins
prayer, the spirituality of work contained in it,
and its revival by the papal magisterium. It
illustrates how the common priesthood can be
exercised in the Eucharistic celebration, and
how this exercise affects daily life. Finally, it
shows that in Christian worship there is no
opposition between “sacred” and “profane” but
continuity, with understandable consequences
even outside the Eucharistic celebration.
KEYWORDS: Teilhard, Eucharist, Work, Sacred
and Profane.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 177-197
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202407
SOMMARIO: I. Introduzione. II. La “Messa” di Teilhard: genesi di un’esperienza spirituale prolungata e la sua eco
nell’insegnamento dei pontefici. III. Verso una comprensione dell’esercizio del sacerdozio comune a partire dalla
celebrazione eucaristica. VI. Tra sacro e profano: l’Eucaristia e il senso della presenza sacramentale di Dio nel mondo e
nella storia umana.
I. INTRODUZIONE
Nel suo recente viaggio in Mongolia, papa Francesco ha ricordato La Messa
sul Mondo, celebre preghiera di Teilhard de Chardin composta nel deserto di
Ordos durante una spedizione scientifica ormai cent’anni fa.1 L’intuizione
geniale del sacerdote e paleontologo gesuita, ricorda il Santo Padre, è che
«l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso in un certo senso –,
sull’altare del mondo» ed è «il centro vitale dell’universo, il centro
traboccante di amore e di vita inesauribile (Laudato si’, n. 236), anche in un
tempo come il nostro di tensioni e di guerre».2 La lettura comune di questo
testo ci ha spinti a riflettere sull’importanza dell’Eucaristia «per la vita del
mondo» (Gv 6,51), e dunque sul rapporto tra l’uomo e la propria attività in
quella specialissima relazione che l’Eucaristia realizza tra creatura, creato e
creatore.
Negli scritti di Teilhard si respira una profonda spiritualità eucaristica del
lavoro che permette di comprendere come la dimensione cosmica del
mistero di Cristo vissuto nell’Eucaristia possa davvero trasformare il modo
in cui il cristiano lavora ordinariamente: «la Vita del Signore Gesù circola in
tutte le cose, vera Anima del Mondo. A coloro che sono abbagliati dalla
nobiltà dello sforzo umano, voglio affermare, a nome del Cristo, che il
lavoro degli uomini è sacro: sacro percesso sottomette a Dio la volontà
dell’Uomo, e sacro perché, attraverso infinite ricerche a tentoni, esso
elabora una grande opera, cioè la liberazione naturale e sovrannaturale
dello Spirito».3
Settantacinque anni (e un concilio ecumenico) dopo, l’enciclica Laborem
Exercens (LE) di Giovanni Paolo II (1998) auspicava l’elaborazione di una
“rinnovata spiritualità del lavoro”. Elaborare ed annunciare il “Vangelo
cosmico del lavoro”, affermava il Papa polacco, è compito particolare della
Chiesa (LE, 24), e tale spiritualità può opportunamente partire da un dato
biblico: l’uomo «mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed
a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e
la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori
racchiusi in tutto quanto il creato» (LE, 25).
La comprensione della dimensione cosmica dell’Eucaristia e del proprio
lavoro non è dunque opzionale rispetto a quella “pratica”, ma è costitutiva e
fondativa della stessa missionarietà e apostolicità del lavoro del cristiano. Si
tratta di un’idea presente anche nella predicazione di Josemaría Escrivá, il
quale sosteneva che il lavoro umano possiede una triplice dimensione
apostolica: transitiva, riflessiva, relazionale («Santificare il lavoro, santificarsi
nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro»).4 Si tratta di una visione che, al
pari di quella teilhardiana, non vede soluzione di continuità nelle varie
dimensioni costitutive della persona umana nei suoi rapporti con il mondo
(orizzontalità) e con Dio (verticalità), e neppure tra dimensione sacra e
profana dell’attività umana.5
Questo articolo si compone di tre sezioni. Nella prima (Tagliapietra)
illustreremo gli elementi essenziali della spiritualità eucaristica di Teilhard,
ripercorreremo la genesi de La Messa sul mondo, e ricorderemo la sua ripresa
negli insegnamenti dei pontefici. Nella seconda (Zaccaria), il dialogo con la
Messa di Teilhard ci permetterà di riflettere sulla comprensione del
sacerdozio comune nella e dalla celebrazione eucaristica, mettendo in
evidenza l’importanza della dimensione cosmica della celebrazione
eucaristica e del sacerdozio comune nella vita di tutti i giorni, per innalzare
la Croce di Cristo in ogni ambiente e situazione. Nella terza e ultima
sezione (Gutiérrez) vedremo in che modo la Messa di Teilhard possa aiutare
a comprendere come, nella celebrazione del culto cristiano, sacro e profano
non siano realtà antitetiche, ma sinergiche, dunque due modi di accadere
dello stesso e unico universo creato da Dio.
II. LA “MESSADI TEILHARD: GENESI DI UNESPERIENZA SPIRITUALEPROLUNGATA
E LA SUA ECO NELLINSEGNAMENTO DEI PONTEFICI
La Messa sul Mondo non fu scritta di getto come frutto di un’esperienza
estetica (o, addirittura, estatica) davanti all’incanto del deserto di Ordos. La
genesi di questa magnifica preghiera va rintracciata in una memoria del
1918, Il Sacerdote, scritta mentre Teilhard era prete-soldato durante la Prima
Guerra Mondiale.6 Il testo de La Messa è, dunque, l’esito di una lunga
meditazione che il paleontologo gesuita stava elaborando fin dai primi anni
di sacerdozio, espressione di un’esperienza spirituale prolungata e maturata
alla luce di un pensiero teologicamente fondato e profondamente
cristocentrico.
Tra i molti aspetti del cristocentrismo di Teilhard, uno dei più
caratteristici è il suo approccio cosmico.7 Pur essendo, come ogni cristo
centrismo, basato sulla contemplazione del mistero dell’Incarnazione in
Cristo Gesù, quello di Teilhard è un cristocentrismo “oggettivo”, e non
“soggettivo”. Vale a dire che Teilhard presenta il mistero di Cristo
prediligendo i suoi rapporti con l’intera creazione e con l’opera redentrice
che è continuamente in corso in essa,8 senza ovviamente trascurare la
concezione di Cristo come forma della fede (es. nella sua persona e nelle sue
virtù), e il suo ruolo normativo per l’esistenza del cristiano.9 Questa
prospettiva colloca il suo pensiero in un’area tradizionalmente meno
frequentata dalla teologia cattolica degli ultimi decenni, e forse più esplicita
nella tradizione liturgica orientale.10 In questo cristocentrismo oggettivo,
cosmico, profondamente paolino, e decisamente ottimista, l’Eucaristia non è
solo l’offerta del Figlio quale vittima sacrificale in espiazione dei peccati
dell’umanità per la salvezza del mondo, ma, attraverso l’assunzione del Pane
consacrato, è anche principio di trasformazione, il prolungarsi dell’azione
redentrice di Cristo nel mondo che sembra quasi “risucchiare” l’uomo in
Dio per divinizzarlo. Si tratta di una idea che Teilhard assorbe dalla
patristica greca. In una occasione, egli si riferisce esplicitamente a Gregorio
di Nissa: «Come un potente organismo, il mondo mi trasforma in colui che
lo anima. “Il pane Eucaristico è più forte della nostra carne”, dice San
Gregorio di Nissa; “ecco perc è Lui che ci assimila, in nostra vece,
quando lo assumiamo”».11 In un altro scritto Teilhard riprende quasi
testualmente Agostino quando, riferendosi al potere “divorante”
dell’Eucaristia, afferma «La tua Vita è più forte della nostra vita, e perciò
essa ci domina, ci assorbe, ci assimila a sé».12 Non si tratta, d’altra parte, di
un mero assorbimento e dissoluzione in Dio: nell’Eucaristia l’uomo viene
“eucaristizzato”: dopo aver assunto il corpo e il sangue di Cristo l’uomo è
trasformato, “metabolizzato”, in ciò di cui si è cibato.13
È lo studioso teilhardiano Thomas King a offrirci un’accurata
ricostruzione delle vicende che portarono Teilhard alla redazione della
Messa.14 In una situazione umanamente molto dura quale l’esperienza di
barelliere sul fronte bellico, Teilhard approfittò dei periodi di silenzio per
riflettere. Nell’agosto del 1915 iniziò a tenere un diario di idee, e nell’aprile
successivo scrisse un importante saggio, La vita cosmica, nel quale esponeva
l’idea di una comunione con la terra che portava alla comunione con Dio,
un primo tentativo sistematico di coniugare una percezione religiosa che si
rivolgeva a tutta la creazione con la propria fede e la propria identità di
sacerdote.15 Neanche due anni dopo, la maturazione di questo suo
“sacerdozio esistenziale universale” si esprimeva in modo appassionato con
una terminologia eucaristica e cosmica:
O Preti che siete in guerra, se alcuni di voi sono sconcertati da una situazione così imprevista e
dall’assenza di messe celebrate o di ministero compiuto, ricordatevi che, accanto ai sacramenti
da conferire alle persone, al di sopra della cura delle singole anime, avete una funzione universale
da svolgere: l’offerta a Dio del Mondo tutto intero. Andando oltre il Pane e il Vino che la Chiesa
ha posto tra le vostre mani, la vostra influenza è fatta per estendersi all’immensa Ostia umana
che attende che qualcuno passi per santificarla. Voi avete il potere, in forza della vostra
ordinazione, di transustanziare, in modo reale, nella carne e nel sangue del Cristo, le sofferenze
che vi circondano e alle quali il vostro carattere vi ordina di partecipare. Voi siete il lievito sparso
dalla Provvidenza lungo l’intera linea del “Fronte”, affinché, seppure con la vostra sola azione di
presenza, la massa enorme delle nostre fatiche e delle nostre angosce sia trasformata. Mai siete
stati più preti di adesso, confusi e sommersi come siete nel dolore e nel sangue di una
generazione, mai più attivi, mai più direttamente nella linea della vostra vocazione...16
Questa visione è frutto di una sua sintesi interiore tra dimensione cosmica e
soggettiva del mistero di Cristo celebrato nell’Eucaristia, che riecheggia e
palpita in tutta la sua vita. Anche quando non può celebrare l’Eucaristia,
Teilhard contempla il mondo con occhi eucaristici, decisamente sacerdotali,
con dei connotati che non sembrano tanto collegati al suo ministero ma
forse diremmo noi oggi più collegati alla sua vocazione battesimale.
Oggi sappiamo che «l’offerta a Dio del Mondo tutto intero» è un compito che
in virtù del sacerdozio comune dei battezzati spetta al cristiano che
agisce nel mondo e che egli può realizzare anche quando non sta
partecipando alla celebrazione eucaristica.
Con la fine della guerra nel marzo 1919 Teilhard riprese gli studi alla
Sorbona. Si preparava a iniziare una brillante carriera a Parigi come
scienziato, ma un collega e confratello gesuita, Emile Licent, scienziato e
missionario in Cina dal 1914, lo coinvolse nell’analisi di numerosi reperti
interessanti e Teilhard decise di seguirlo in una spedizione in Cina. Il 7
agosto 1923 scrisse dalla Mongolia a un amico di Parigi: «Viaggiando a
dorso di mulo per giorni interi, ripeto, come in passato in mancanza di
un’altra Messa la Messa sul Mondo, che già conoscete, e credo di poterla
dire con ancora maggiore chiarezza e convinzione di prima».17 Più tardi,
nello stesso mese, scrisse a un altro ami co: «Continuo a sviluppare e a
migliorare leggermente, con l’aiuto della preghiera, la mia Messa sulle cose».18
Entrambe le lettere implicano che i suoi amici a Parigi conoscessero una
versione precedente dell’opera; potrebbe trattarsi de Il Sacerdote, ma c’è
motivo di sospettare che avesse già rivisto il saggio prima di partire per la
Cina.
Nel marzo 1924 scrisse Il mio Universo (il suo secondo saggio con questo
titolo). Questo testo contiene il suo resoconto più completo delle “estensioni
della Presenza Eucaristica”.
Teilhard tora Parigi portando con quaranta casse di materiale per il
Museo di Parigi. Stava lavorando quando arrivò una lettera del suo
provinciale gesuita che esprimeva preoccupazione per un saggio che aveva
scritto sul peccato originale prima di partire per la Cina: Nota su alcune
possibili rappresentazioni storiche del peccato originale.19 Teilhard fu convocato
nell’ufficio del suo provinciale a Lione e gli fu chiesto di firmare una
promessa formale che non avrebbe mai più scritto nulla di contrario alla
posizione tradizionale della Chiesa. Dopo molte angosce personali, firla
dichiarazione durante il suo ritiro nel 1925: accettò sei proposizioni, ma non
si sa più cosa contenessero.20 La firma comportò mesi di angoscia e
incertezza, ricorda King. Oltre ad accettare le sei proposizioni, Teilhard
dovette rinunciare alla docenza presso l’Institut Catholique e richiedere
l’approvazione dei superiori per pubblicare qualsiasi scritto futuro di
filosofia o teologia. Nessuna restrizione fu invece posta ai suoi scritti
scientifici. Durante questa crisi, e le altre che seguirono, fu sostenuto da
amici gesuiti e da altri teologi. Nella primavera del 1926, egli partì di nuovo
per la Cina, da dove continuerà il lavoro sul campo per molti altri anni.
Poco dopo scriverà: «I miei momenti più attivi sono ancora quando dico la
mia Messa sull’altare del mondo, per divinizzare il nuovo giorno».21 Negli anni
successivi Teilhard continuò a lavorare alla sua Messa. Nel 1926 pensò di
scriverne una nuova versione, che alla fine sfociò in L’ambiente divino (1927).
Sebbene quest’opera inclu da molti riferimenti a La Messa, il suo intento
generale era però diverso. Molti passaggi parlano ancora dell’Eucaristia:
«C’è una sola Messa, una sola Comunione, Cristo è morto una volta in
agonia». E «nell’Eucaristia Cristo controlla [...] l’intero movimento
dell’universo». Nel 1929 in una sua lettera manifestava il desiderio di poter
approfondire e lavorare sulla sua «Messa mentale “sul Mondo”»,22 e nello
stesso anno iniziò a «pensare a una terza stesura, considerevolmente più
completa». Questa sarebbe stata «più matura» e si sarebbe dovuta intitolare
Il sacramento del mondo,23 ma purtroppo non fu mai scritta.
Chi legge oggi la Messa di Teilhard si rende presto conto di trovarsi
davanti a un testo più poetico che teologico e scientifico. Al di del
contributo che Teilhard offrì al dialogo tra scienza e fede, definito
giustamente da un articolo di qualche anno fa «decisivo […] pur nei
rispettivi ambiti, al di di ingenui concordismi e di ricorrenti letture
oppositive»,24 questo testo ha nutrito l’interiorità delle ultime generazioni di
teologi e pontefici al pari (e forse più) di tanti altri testi di teologia
speculativa.
Nonostante le perplessità espresse sul pensiero del gesuita paleontologo
mentre era in vita e le raccomandazioni del monitum dopo la sua morte,25 i
suoi scritti ebbero una profonda eco teologica nel dibattito tra
incarnazionisti ed escatologisti fuori e dentro l’aula conciliare. Il
paleontologo gesuita veniva citato per la sua fama tra i giovani e criticato
per il suo “ottimismo incarnazionista” quasi dimentico secondo i critici
della realtà del peccato. Ma già fin da subito dopo il Concilio si ricorda no
parole di apprezzamento da parte di Paolo VI,26 seguite poi da altre di
Giovanni Paolo II,27 e ancora da Joseph Ratzinger/Benedetto XVI28 e,
infine, anche da parte di papa Francesco.
Nel 1995 Giovanni Paolo II, in occasione del cinquantesimo anniversario
di sacerdozio, utilizzò un testo de La Messa di Teilhard per esprimere cosa
significasse per lui la Messa: «Anche per offrire “sull’altare della terra intera
il lavoro e la sofferenza del mondo”, secondo una bella espressione di
Teilhard de Chardin, si compie l’Eucaristia».29 Il testo de La Messa di
Teilhard sembra essere rimasto nel cuore del Santo Padre. Nell’enciclica
Ecclesia de Eucharistia (2003) egli, rievocando i luoghi più cari dove poté
celebrare l’Eucaristia, descrive il “carattere cosmico” della celebrazione
eucaristica quasi ricalcando nella propria vita l’esperienza di Teilhard
(«Nelle steppe dell’Asia [...] Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della
Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo. in fondo, il sole appena
incomincia ad illuminare l’estremo lembo del primo Oriente. […] Sulla mia
patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica e, nel mio
calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti»): «Questo
scenario così variegato delle mie Celebrazioni eucaristiche me ne fa
sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì,
cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di
campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa
unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato».30
Qualche anno prima Joseph Ratzinger aveva ricordato che l’Ostia
consacrata è «anticipazione della trasformazione della materia e della sua
divinizzazione nella “pienezza” cristologica. L’eucaristia indica, per così
dire, la direzione del movimento cosmico; essa anticipa il suo fine e allo
stesso tempo spinge verso di esso».31 Si può dire che questo testo abbia
molto colpito il futuro Benedetto XVI che nel 2009 affermerà nella
Cattedrale di Aosta: «La funzione del sacerdozio è consacrare il mondo
perché diventi ostia vivente, percil mondo diventi liturgia: che la liturgia
non sia una cosa accanto alla realtà del mondo, ma che il mondo stesso
diventi ostia vivente, diventi liturgia. È la grande visione che poi ha avuto
anche Teilhard de Chardin».32
È papa Francesco, tuttavia, ad aver proposto il maggior numero di
riferimenti a Teilhard. Prima dell’ultimo cenno esplicito a Teilhard lo scorso
3 settembre 2023 in Mongolia, si devono ricordare altre due citazioni
presenti in Laudato si’. La prima consiste in un riferimento generale all’opera
di Teilhard a proposito di Cristo come traguardo della maturazione
universale.33 La seconda menzione si trova al n. 236 dell’enciclica,34 dove il
Santo Padre parla dell’Eucaristia riferendosi alle parole di Giovanni Paolo II
e Benedetto XVI.
III. VERSO UNA COMPRENSIONE DELLESERCIZIO DEL SACERDOZIO COMUNEA
PARTIRE DALLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
La Messa sul mondo nasce, nel cuore di Teilhard, quale frutto della sua
sensibilità di presbitero e dal suo profondo legame personale con il senso
cosmico dell’Eucaristia; è un tratto che ne caratterizza il pensiero e l’opera
fin dai primi anni di sacerdozio, come abbiamo avuto modo di evidenziare
precedentemente. Al tempo stesso La Messa sul mondo è un esempio di
esercizio di sacerdozio comune; infatti, ciò che emerge prepotentemente dal
testo di Teilhard è in primo luogo il contesto: un luogo il deserto di Ordos
e circostanze l’assenza di pane e vino che mettono in evidenza
l’impossibilità di esercitare il proprio sacerdozio ministeriale come egli
desidererebbe, e l’opportunità invece di porsi davanti a Dio come sacerdote,
ma “rivestito” solo del proprio sacerdozio comune.
Date queste circostanze, si manifestano con evidenza alcuni contenuti e
modi propri del sacerdozio comune, che non è un sacerdozio di seconda
classe o una pallida imitazione del sacerdozio ministeriale, ma vera e
propria partecipazione al sacerdozio di Cristo (cfr. Lumen Gentium, 11).
In primo luogo la presenza, nell’offerta che Teilhard fa, non solo delle
persone a lui care, ma di tutti gli esseri umani. Per tutti, senza eccezione,
Cristo è morto ed è risorto; per tutti gli esseri umani di tutti i luoghi e di
tutti i tempi è la Redenzione. Tutti, in qualche modo, sono presenti alla
celebrazione del memoriale della Redenzione, anche in forza della presenza
intenzionale portata da chi partecipa alla celebrazione. In fondo non siamo
lontani da quanto sostiene Ireneo quando mette a confronto il primo
Adamo e il nuovo Adamo: il primo Adamo porta in il seme di tutta la
stirpe umana; il secondo Adamo, tramite l’Incarnazione, ricapitola ogni
persona che ha vissuto sino ad allora e si rivolge a tutti i popoli e a tutte le
lingue.35
In secondo luogo emerge con forza il lavoro, inteso non solo come attività
da svolgere ma soprattutto come relazione: ciò che ha portato persone
molto diverse nel medesimo luogo desertico è proprio un motivo
professionale, la necessità di svolgere un’attività insieme. Ma proprio a
partire da quell’attività, si è creato un legame «tanto cara famiglia» che
costituisce in qualche modo un vincolo di unità. Il lavoro è presentato
quindi come relazione, e relazione che mira all’unità.
In terzo luogo, la sezione del testo intitolata “Offerta” mostra
l’atteggiamento proprio del cristiano che, mantenendosi all’interno della
dinamica intratrinitaria, è chiamato a ridonare il dono. Tutto ciò che viene
da Dio creatore e che nasce, cresce e muore in questo giorno nel Mondo,
tutto questo è in qualche modo dono di Dio all’uomo; e l’uomo è chiamato
a inserirsi nella dinamica propria della Trinità tornando a donare tutto
quanto ha ricevuto.
In fondo è quanto afferma il Canone Romano quando dice: «offérimus
præcláræ maiestáti tuæ de tuis donis ac datis hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam
immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ et Cálicem salútis perpétuæ».
È chiaro che il riferimento del Canone è alla presenza reale di Cristo
sotto le specie del pane e del vino, dato che la sezione citata è parte
dell’Unde et memores, che segue immediatamente il racconto dell’istituzione.
Ma ciò che qui è interessante è la dinamica insita in questo movimento: da
Dio a noi come dono elargito con larghezza, e da noi a Dio, perché lo
Spirito Santo trasformi quel dono che noi abbiamo ricevuto in offerta
gradita a Dio e quindi nuovamente dono per noi.
È questo incessante movimento che Teilhard ha presente quando chiede
a Dio di ricevere l’offerta della Creazione intera: «Ricevi, o Signore, questa
Ostia totale che la Creazione presenta a Te nell’alba nuova».36
Infine emerge l’aspirazione all’unità, che La Messa sul mondo esprime con
queste parole: «[…] in seno a questa massa informe [il nostro sforzo,
presentato come pane; la nostra sofferenza, presentata come vino] hai
messo un’irresistibile e santificante aspirazione che, dall’empio al fedele, ci
fa tutti esclamare: “O Signore, rendici uno!”».37 Nella celebrazione
eucaristica, questa dimensione è espressa dall’epiclesi sui comunicandi, cioè
da quella sezione della Preghiera Eucaristica che rivolge al Padre la supplica
di inviare lo Spirito Santo perc ci riunisca in unità a partire dalla
comunione eucaristica. Qui evidentemente siamo di fronte all’emergenza di
qualcosa che Teilhard ritiene intrinseco alla creazione, e che viene fatto
proprio ed elevato in forma di preghiera dal sacerdote.
In effetti nel creato possiamo riscontrare questa tensione strutturale tra la
dimensione di creaturalità propria di ogni ente creato, che contiene
un’intrinseca aspirazione all’unità, e la condizione caduta di ogni ente
creato, che gli fa sperimentare l’effetto disgregante del peccato. Questo
mondo, uscito buono dalle mani di Dio, è però un mondo caduto, che ha
bisogno della Redenzione, che ha bisogno che Cristo sia nuovamente posto
a capo di tutte le cose – quella ἀνακεφαλάιοσις di cui parla Ef 1,10.
Questi elementi, che emergono per primi dalla lettura del testo, mi
sembra mettano ben in evidenza alcuni aspetti propri dell’esercizio del
sacerdozio comune: il battezzato è chiamato ad essere non spettatore
passivo di qualcosa che accade intorno a lui o in lui, ma «sacerdote della
propria stessa esistenza»,38 per usare un’espressione di Josemaría Escrivá.
E lo può fare in due ambiti diversi, che si richiamano a vicenda:
all’interno della celebrazione eucaristica, offrendo al Padre ciò che il Padre
stesso gli ha donato (de tuis donis ac datis), cioè quella parte di creazione che
Dio ha affidato alle sue cure perché la coltivasse e la custodisse (cfr. Gen
2,15), che va offerta in unione al sacrificio di Cristo che torna ad essere
presente sull’altare; e al di fuori della celebrazione eucaristica, continuando
la propria offerta al Padre di tutte quelle cose che compongono la propria
quotidianità, ponendo Cristo sul pinnacolo di tutte le attività e in questo
modo permettendo a Cristo crocifisso e risorto di attrarre a tutte le cose,
secondo l’espressione giovannea: «et si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me
ipsum» (Gv 12,32).39
Si crea pertanto un circolo virtuoso fondato sul Battesimo e sulla
Confermazione, sacramenti che stabiliscono il fedele quale sacerdote, e
alimentato dall’Eucaristia; tale circolo virtuoso permette al cristiano di
essere al centro di questa dinamica che mette in relazione creazione e
redenzione.
Teilhard lo esprime con queste parole: «Quello che intravedeva il mio
pensiero esitante [...] tu me lo offri magnificamente: che le creature, cioè,
siano non solo talmente solidali tra di loro che nessuna possa esistere senza
tutte le altre per circondarla, ma che siano talmente sospese ad un
medesimo centro reale che una Vita, sperimentata in comune, conferisca
loro, in definitiva, consistenza e unione».40
Qui possiamo scoprire anche il fondamento teologico forte di un’ecologia
veramente integrale: l’uomo non è soltanto una tra le creature che Dio ha
volontariamente posto nel suo giardino e che sono necessariamente solidali
nessuna può esistere senza le altre.41 Se così fosse avremmo solo una
lettura assai riduttiva della realtà. L’uomo è al centro di questo giardino,
come collaboratore del Creatore affinché la creazione raggiunga la propria
pienezza. Tale compito però non lo pone quale despota tra le creature: la
creazione infatti è donata all’uomo e affidata alle sue cure con lo scopo ben
preciso di «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e
quelle sulla terra» (Ef 1,10).
La creazione, che sperimenta la propria condizione caduta, ha bisogno
del Redentore. Certamente la Redenzione portata a compimento da Cristo
una volta per tutte sull’altare della Croce è sovrabbondante a questo scopo;
ma allo stesso tempo Dio vuole aver bisogno dell’essere umano perc
collabori con lui affinché la «Vita […] conferisca loro consistenza e
unione», per usare l’espressione di Teilhard.42
Che Cristo sia capo del Corpo che è la Chiesa è cosa ben nota; ma allo
stesso tempo Paolo afferma la necessità che Cristo sia capo di tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra; pertanto l’ecologia intesa come
relazione con la natura, quale partner indispensabile per uno sviluppo umano
integrale fa parte della dinamica redentiva inaugurata da Cristo e rientra
all’interno dell’ambito di esercizio del sacerdozio comune dei fedeli.
Sulla scorta della teologia paolina, emerge nel testo di Teilhard il compito
affidato al cristiano iniziato: ciascuno è chiamato ad esercitare il proprio
sacerdozio nella vita di tutti i giorni, innalzando la Croce di Cristo in ogni
ambiente e in ogni situazione.
Si comprende bene, mi pare, che non solo nella Liturgia ma anche a
partire dalla Liturgia, nella vita di lavoro e di relazioni proprio di ogni
cristiano, si esercita il sacerdozio comune dei fedeli. Esso non va ridotto a
esercizio di funzioni nel corso di una celebrazione, ma deve riacquistare la
propria dimensione cosmica reale.
In questo senso forse può essere d’aiuto un’ultima sottolineatura. La Messa
sul mondo contiene diversi riferimenti al fuoco. Si tratta di un elemento molto
suggestivo e particolarmente importante per tutto ciò che ha a che fare con
l’Eucaristia; non è una novità: basti pensare a quanto Agostino dice ai
neofiti: «Se il grano non viene macinato e impastato con l’acqua, non
prende quella forma che noi chiamiamo pane. Così anche voi prima siete
stati come macinati con l’umiliazione del digiuno e col sacramento
dell’esorcismo. Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con
l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane se non
c’è il fuoco. [...] Dunque viene lo Spirito Santo, il fuoco dopo l’acqua e voi
diventate pane, cioè corpo di Cristo».43
Già nei sacrifici antichi era prescritto che le vittime venissero offerte a
Dio attraverso il fuoco: dovevano essere trasformate in “profumo gradito” e
in tal modo raggiungere il Trono di Dio (cfr. Es 29,18). Il fuoco atto allo
scopo doveva provenire dal cielo, da Dio stesso, poiché solo un fuoco
proveniente da Dio, avrebbe potuto portare a Dio l’offerta.
C’è qui un’intuizione profonda: solo Dio, il tre volte santo, può rendere
santo qualcuno o qualcosa, comunicando la propria santità. «L’uomo non è
in grado di compiere quest’azione perché non può disporre, a suo arbitrio,
della santità; può soltanto presentare un’offerta, non la può rendere sacra.
Perc l’offerta diventi sacra [...] occorre che Dio prenda l’offerta, la
trasformi e la faccia salire presso di sé per mezzo del suo fuoco divino».44
Tuttavia è chiaro che il fuoco di Dio non è di carattere materiale ma è lo
Spirito Santo, l’unico capace di attuare la trasformazione sacrificale,
comunicando all’offerta la santità di Dio.45
Perché l’offerta possa essere presentata, è necessaria la presenza e l’azione
dello Spirito Santo, che opera una trasformazione nel cuore del credente e
lo rende capace di accostarsi a Dio. Tale trasformazione è operata dallo
Spirito Santo ad imitazione di ciò che è accaduto a Cristo: «Nei giorni della
sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a
Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne
esaudito» (Eb 5,7).
Quel che vale per Cristo vale anche per ogni credente: è necessario che
venga offerto a Dio il mondo intero, ma a partire dall’oblazione del proprio
cuore, cioè della parte più intima del proprio animo, per estendersi a tutto il
suo essere umano, a tutto il suo agire e patire.
È a partire dal proprio cuore e dalla presenza dello Spirito nel proprio
cuore, che Cristo può essere innalzato sul pinnacolo di tutte le attività
umane; è solo grazie al fuoco dello Spirito che la creazione sottoposta alla
caducità può essere riportata al Padre. In questo modo ciascun cristiano
iniziato può esercitare il proprio sacerdozio, portando nel mondo, negli
eventi, nelle circostanze di vita, ciò che ha ricevuto nel sacramento.
IV. TRA SACRO E PROFANO: L’EUCARISTIA E IL SENSO DELLA
PRESENZASACRAMENTALE DI DIO NEL MONDO E NELLA STORIA UMANA
Frequentemente si ritiene che il processo di secolarizzazione caratteristico
del mondo contemporaneo comporti necessariamente il declino di ogni
accenno di trascendenza nell’orizzonte politico e sociale. In questo senso, la
costruzione di una società laica dovrebbe basarsi su un’opposizione positiva
a qualsiasi cultura concepita come presumibilmente sacrale.
Tuttavia, tale categoria contiene una polisemia babelica di profonda
difficoltà ermeneutica: il cristianesimo è una religione sacrale? Non c’è
dubbio che una costante storica nella comprensione ecclesiale delle sue
celebrazioni del culto e della sua stessa struttura fondamentale si trovi
nell’affermazione della sua natura sacra;46 ma tale affermazione deve essere
ulteriormente qualificata, perché contiene una certa ambiguità, che si
manifesta nelle tensioni tra misericordia e sacrificio, carità e culto, sabato e amore
per il prossimo..., che segnano la predicazione e l’esempio di Gesù di
Nazareth, la ragion d’essere ultima della stessa esistenza cristiana.
Un esempio particolarmente significativo delle dimensioni del problema è
fornito dal resoconto di una riunione accademica di teologi convocata a
metà del secolo scorso con l’obiettivo di chiarire la nozione stessa di
sacralità: «si è svolta una lunga discussione [...] nel tentativo di trovare una
definizione del sacro. Ma non ha avuto successo, perché si è riconosciuto
che, su una realtà di per così complessa, i possibili punti di vista sono
estremamente diversi».47
Con una sintesi forse un po’ riduttiva, potremmo dire che i diversi
approcci in voga in quel momento si muovevano tra due poli opposti. Il
primo, rappresentato dalla teologia liberale basata sulla via aperta dalla
fenomenologia delle religioni, trovava nella contrapposizione tra sacro e
profano la chiave di ogni atteggiamento religioso: la religione si basa su una
comprensione sacrale del mondo e, a sua volta, il sacro costituisce la sfera
della religione. Al contrario, per la seconda corrente, plasmata intorno alla
teologia dialettica, la categoria del sacro non sarebbe altro che un’astuzia della
ragione, assolutamente inadeguata per un cristianesimo che, fondato sulla
libera iniziativa di Dio, non può accettare un simile sforzo di
autogiustificazione, opposto alla gratuità del dono divino della rivelazione e
della salvezza.48 Così, in breve, se per alcuni nel cristianesimo, come in ogni
vera religione, tutto è sacro, per altri nulla è sacro.
In questo labirinto49 una via d’uscita è offerta proprio ne La Messa sul
Mondo, dove Teilhard scrive: «Stenderò la mano verso il pane ardente che
mi presenti. In questo pane, in cui hai racchiuso il germe di ogni sviluppo,
riconosco il principio e il segreto dell’avvenire che Tu mi riservi».50 In
questo testo il nucleo del racconto cristiano della sacramentalità non si
identifica con alcun a priori concettuale su una nozione astratta di sacro, e
tanto meno si pone in opposizione dialettica all’esperienza secolare: «se la
riforma del tempo e dello spazio, delle cose e degli avvenimenti nel tempo e
nello spazio, presso le religioni si attua sacralizzando, nel cristianesimo si attua
sacramentalizzando».51
Nella realtà cosmica del grano che la cultura umana trasforma in pane e
che, assunto nel culto ecclesiale, viene consacrato e transustanziato dalla
presenza di Cristo, troviamo come avverte giustamente Teilhard il seme
del futuro, l’antitipo di ciò che è chiamato ad essere nel momento
escatologico, un cielo nuovo e una terra nuova (cfr. Is 65,16; Ap 21,1) in un
orizzonte di continuità e non di rottura.
Infatti la narrazione cristiana presenta il binomio profano-sacro in una
“alterità di continui” e non in una “disgiunzione di opposti”. Nel cuore
della sua struttura fondamentale, ogni sacramento è in definitiva una realtà
che, provenendo dalla natura e dalla cultura il profano riceve attraverso
la presenza di Cristo un nuovo significato e una nuova entità il sacro che
esprime la sua verità più radicale: quella che fin dalla creazione è stata
chiamata ad essere. Nella celebrazione eucaristica, in virtù del mandato
istituzionale (“questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”), il grano e il
frutto della vite – la natura, il mondo –, il pane e il vino –la storia, la cultura
–diventano, una volta “consacrati”, la presenza sacramentale di un corpo e di
un sangue versato di un’umanità ormai eternamente gloriosa. Così, la
consistenza cosmica primordiale, laica e profana, viene assunta per essere
costituita in sacramento: un ambito per la manifestazione, la presenza e la
comunicazione della trasfigurazione definitiva di questo mondo alla fine dei
tempi.
Il sacro cristiano non nasce da una polarità dialettica da
un’indebita confusione con il profano: la sfera del profano non è la sfera del
sacro (“il trono non è l’altare”) e gode di una legittima autonomia (“date a
Cesare quel che è di Cesare”), anche se per la sua origine divina è anch’essa
chiamata ad essere santificata. Quindi, sacro e profano non sono due poli
antitetici, ma due diversi e legittimi modi relativi di accadere dello stesso e
unico universo creato da Dio. La loro reale distinzione avviene sempre
all’interno di una totalità.52 La narrazione cristiana presenta così una nuova
dialettica di un sacro che non è separato da niente e da nessuno, e di un profano
che è sempre in cammino verso la sua definitiva trasformazione.53
Come ha giustamente sottolineato Joseph Pieper,
se fosse vero, ad esempio come si sostiene sulla base di una discutibile interpretazione della
visione arcaica del mondo mitico che sacro e profano stanno l’uno di fronte all’altro come due
mondi radicalmente eterogenei (E. Durkheim), come il cosmo e il caos, come il reale e l’irreale (o
“pseudo-reale”), separati l’uno dall’altro da un abisso (M. Eliade); se non ci fosse alcuna solidarietà
tra il sacro e il profano (J.P. Audet); in altre parole, se anche il mondo che si trova davanti al
portale del sacro non può essere considerato buono a causa della creazione e nemmeno, in un
certo senso, santo; se fosse giusta la maldestra semplificazione secondo cui il fatto dell’esistenza di
un luogo sacro deve significare che si può fare al di fuori ciò che si vuole, allora la distinzione tra
sacro e profano dovrebbe davvero essere respinta come inaccettabile.54
Per questo motivo, affermare la sacramentalità cristiana significa riconoscere
l’autonomia delle realtà secolari e pronunciare un a un mondo chiamato
alla sua consumazione escatologica in un cosmo divinizzato, di cui i sacramenti
cristiani sono una figura o un’anticipazione: «E quando tutto gli sarà stato
sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso
ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28).
Il nostro pane quotidiano profano e il pane destinato alla consacrazione nel
sacrificio eucaristico sacro hanno la stessa consistenza cosmica e
culturale. Identica è anche la vocazione e la meta della comunità cultuale
cristiana il sacro –e la vocazione e la meta del cosmo e della storia –il
profano –: la sua trasfigurazione divina nella nobiltà di un mondo, la
Gerusalemme celeste, di amore e libertà.55 E così, parafrasando Teilhard, il
pane quotidiano contiene in il germe di ciò che, attraverso l’azione
trinitaria che testimonia Cristo, diventerà: un pegno della consumazio ne
del movimento cosmico e storico nella pienezza dell’eschaton. O, per usare le
parole di Joseph Ratzinger, «di qui, Teilhard ha potuto reinterpretare alla
sua maniera il culto cristiano: l’ostia transustanziata è per lui l’anticipazione
della trasformazione della materia e della sua divinizzazione nella pienezza
cristologica. L’Eucaristia, secondo la sua visione, indica, per così dire, la
direzione del movimento cosmico; essa anticipa la meta e con ciò, al tempo
stesso, ne affretta il raggiungimento».56
1 Cfr. P. TEILHARD DE CHARDIN, La Messa sul Mondo, in Inno dell’Universo, Queriniana, Brescia 2016, 9-
22.
2 FRANCESCO, Omelia della messa celebrata all’interno della “Steppe Arena”, 3-IX-2023.
3 P. TEILHARD DE CHARDIN, Il Sacerdote, in IDEM, La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra (1916-1919), il
Saggiatore, Milano 1971, 382-383. Sulla spiritualità eucaristica di Teilhard a partire da La Messa sul
Mondo e altri testi, cfr. J. FITZER, Teilhard’s Eucharist: A Reflection, «Theological Studies» 34 (1973) 251-
264, che ne discute gli aspetti di originalità e di criticità; in italiano, cfr. C. SCORDATO, Il mistero-
sacramento del mondo in Teilhard de Chardin, «Asprenas» 32 (1985) 269-294; IDEM, La dimensione cosmica
dell’Eucaristia nella riflessione di Pierre Teilhard de Chardin, «Asprenas» 33 (1986) 123-148.
4 J. ESCRIVÁ, Colloqui, Ares, Milano 1987, 85.
5 C’è un profondo parallelismo spirituale latente tra l’“altare della terra” eretto sull’orizzonte della
steppa mongola di Teilhard e l’altare del “cantiere” dell’Università di Navarra protagonista della
famosa omelia di Escrivá nel 1967. Teilhard offre sulla patena «la messe attesa da questa nuova
fatica» e nel calice «il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti»; Escrivá offre le realtà
ordinarie (la famiglia, il lavoro, la cultura, l’amicizia, la società…) simboleggiate dal campus, la
biblioteca, le gru e il cielo di Pamplona. L’orizzonte in cui il miracolo avviene quotidianamente, il
punto di unione tra “cielo e terra”, per entrambi, è il cuore dell’uomo che offre a Dio il creato
“eucaristizzato” tramite il suo lavoro. Cfr. IDEM, Amare il mondo appassionatamente (8 ottobre 1967), in
Colloqui, 178. In altri scritti Escrivá paragona il tavolo su cui lavora il cristiano all’altare su cui egli
celebra la sua messa: «Servirle no sólo en el altar, sino en el mundo entero, que es altar para nosotros.
Todas las obras de los hombres se hacen como en un altar, y cada uno de vosotros, en esa unión de
almas contemplativas que es vuestra jornada, dice de algun modo su misa”, que dura veinticuatro
horas, y así hasta el fin de nuestra vida» (IDEM, San José, nuestro Padre y Señor 19 marzo 1968, in En
diálogo con el Señor, Rialp, Madrid 2017, 252-253. Corsivo nostro).
6 Cfr. TEILHARD DE CHARDIN, Il Sacerdote, 359-387. Per una rapida conferma di quanto detto, basti
confrontare le parole iniziali di questo saggio con l’esordio de La Messa sul mondo, nelle quali Teilhard
si riferisce precisamente alle “foreste dell’Aisne” dove egli compose Il Sacerdote.
7 Si tratta di un aspetto chiaro fin dai primi scritti di Teilhard. Per esempio, egli scrive nel 1916: «Il
Cristo ha il potere di saldare definitivamente la struttura ultima della creazione. Il mondo, cioè la
nostra sostanza, è centrato su Dio in Christo Jesu»; IDEM, L’Anima del Mondo (1916), in La vita cosmica.
Scritti del tempo di guerra (1916-1919), 309. Nel 1917 scrive invece: «Mi accorsi che tutte quelle cose
andavano a centrarsi in un solo punto, in una Persona, la Tua...»; IDEM, L’Ambiente Mistico, in ibidem, 222.
8 Cfr. G. BIFFI, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, Jaca Book, Milano 2021, 11.
9 Emblematica, a questo proposito, la sua affermazione: «Cristo si ama come una Persona, e s’impone
come un Mondo» (TEILHARD DE CHARDIN, Il Sacerdote, 373).
10 Ne sia un esempio il testo dell’Anafora delle Costituzioni Apostoliche.
11 P. TEILHARD DE CHARDIN, Il mio Universo, in La Scienza di fronte a Cristo, 103. Si riferisce alle parole del
nisseno: «Come un po’ di lievito, secondo quanto dice l’Apostolo (cf. 1Cor 5,5), rende simile a sé tutto
l’impasto, così quel Corpo, dotato da Dio dell’immortalità, entrato nel nostro, lo trasforma e lo
tramuta tutto in sé. Come, infatti, il principio salutare mescolato al principio mortifero toglie il potere
esiziale al miscuglio, così il Corpo immortale una volta dentro colui che lo ha ricevuto, lo tramuta
tutto nella propria natura» (GREGORIO DI NISSA, Catechesi Mistagogiche, 37).
12 TEILHARD DE CHARDIN, Il Sacerdote, 369. Teilhard si riferisce al passo delle Confessioni «io sono il
Cibo dei grandi; cresci e mangerai me. Né sarai tu a trasformare me in te come accade per il cibo del
tuo corpo, ma tu sarai metabolizzato in me» (AGOSTINO, Confessioni, VII, 10,16).
13 Con altre parole Fulgenzio di Ruspe scriveva: «Per il dono della carità poi ci viene dato di essere
veramente quello che misticamente celebriamo in modo sacramentale nel sacrificio» (FULGENZIO DI
RUSPE, Contro Fabiano, XXVIII, 16-19: CCL 91A, 813-814). Molto tempo dopo, il teologo medievale
Tommaso Netter da Walden (m. 1430) presenta la Chiesa come «il corpo mistico di Cristo nel quale i
singoli cristiani vengono transustanziati attraverso la ricezione dell’eucaristia» (C. GIRAUDO, Conosci
davvero l’Eucaristia?, Qiqajon, Magnano 2001, 65). Giraudo cita anche l’esempio dell’epiclesi
nell’Anafora di San Basilio, nella quale leggiamo: «[...] Manda il tuo spirito su di noi e su questi doni,
perctrasformi i doni nel corpo sacramentale, affinché, comunicando adesso, noi siamo trasformati
in un solo corpo ossia nel corpo ecclesiale» (ibidem, 68). L’autore continua ricordando che gli effetti
della comunione sacramentale chiesti a Dio Padre in questa anafora, come suggerisce la sua
recensione alessandrina, sono «la trasformazione in un solo corpo, ossia nel corpo ecclesiale,
escatologico, mistico», trasformazione che attraversa tutte le circostanze ordinarie della vita umana
che la stessa anafora passa in rassegna (ibidem, 70, 78).
14 Cfr. T.M. KING, Teilhard’s Mass. Approaches to “The Mass on the World”, Paulist Press, New York-
Mahwah 2005.
15 Cfr. P. TEILHARD DE CHARDIN, L’Ambiente Mistico (1917), in IDEM, La vita cosmica. Scritti del tempo di
guerra (1916-1919), 222.
16 IDEM, Il Sacerdote, 387-388.
17 IDEM, Letters to Leontine Zanta, Harper & Row, New York 1969, 52. La traduzione è nostra.
18 IDEM, Letters from a Traveler, Harper & Row, New York-Evanston 1962, 86. La traduzione è nostra.
19 Cfr. IDEM, Christianity & Evolution, Harcourt Brace, New York 1971, 45-55.
20 Cfr. IDEM, Lettres intimes à Auguste Valensin, Bruno de Solages, et Henri de Lubac, Aubier-Montaigne, Paris
1972, 123.
21 IDEM, Letters from a Traveler, 140. La traduzione è nostra.
22 IDEM, Letters to Leontine Zanta, 94. La traduzione è nostra.
23 IDEM, Lettres intimes à Auguste Valensin, Bruno de Solages, et Henri de Lubac, 199.
24 M. GRONCHI, Nel pensiero di Pierre Teilhard de Chardin: Studio la materia e trovo lo spirito, «L’Osservatore
Romano», 29-XII-2013, 4. Qualche tempo fa, saggiamente, Rosino Gibellini scriveva che «non si
dovrebbe […] cercare in Teilhard un sistema teologico compiuto una completa cristologia, e
anche se è possibile, in qualche modo, enucleare in forma sistematica i temi teologici teilhardiani,
come numerosi interpreti hanno cercato di fare, si dovrebbe sempre tener presente l’intenzione e la
direzione fondamentale, che reggono il tentativo teologico teilhardiano» (R. GIBELLINI, Teilhard de
Chardin, Queriniana, Brescia 2006, 272).
25 Rinviamo alla lettura de “La vicenda disciplinare dell’opera teilhardiana e la necessità di una sua
ermeneutica”, in G. TANZELLA-NITTI, Teologia della credibilità in contesto scientifico, II, Città Nuova, Roma
2015, 479-483.
26 Il primo riferimento è quello di PAOLO VI, Discorso in uno stabilimento chimico-farmaceutico (24-II-1966):
Insegnamenti 4 (1966), 992-993.
27 Alcune intuizioni teilhardiane risuonano già in GIOVANNI PAOLO II, Lettera al reverendo P. George V.
Coyne (1-VI-1988): Insegnamenti 11/2 (1988), 1715.
28 La prima citazione di apprezzamento di Ratzinger si trova già in J. RATZINGER, Introduzione al
cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, 187-190. Le citazioni sono tutte indirette, ed esplicitamente
riportate in nota, indicando come fonte il testo Introduzione al pensiero di Teilhard de Chardin di C.
Tresmontant. Sul generale apprezzamento di Ratzinger/Benedetto XVI per Teilhard, cfr. A. LIND,
Joseph Ratzinger, lettore di Teilhard de Chardin, «La Civiltà Cattolica» 174/2 (2023) 233-243.
29 GIOVANNI PAOLO II, Dono e Mistero, LEV, Città del Vaticano 1996, 84.
30 IDEM, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia (17-IV-2003), n. 8. L’enfasi è nostra.
31 J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, in IDEM, Opera Omnia 11: Teologia della liturgia, LEV,
Città del Vaticano 2010, 41.
32 BENEDETTO XVI, Omelia nella celebrazione dei Vespri ad Aosta (24-VII-2009): Insegnamenti 5/2 (2009), 60.
Il pontefice tedesco aveva già espresso con parole di respiro teilhardiano come il pane eucaristico fosse
una «sintesi della creazione. Cielo e terra come anche attività e spirito dell’uomo concorrono. La
sinergia delle forze che rende possibile sul nostro povero pianeta il mistero della vita e l’esistenza
dell’uomo, ci viene incontro in tutta la sua meravigliosa grandezza. Così cominciamo a capire perché
il Signore sceglie questo pezzo di pane come suo segno. La creazione con tutti i suoi doni aspira al di
di se stessa ad un qualcosa di ancora più grande. Al di della sintesi delle proprie forze, al di
della sintesi anche di natura e di spirito che in qualche modo avvertiamo nel pezzo di pane, la
creazione è protesa verso la divinizzazione, verso le sante nozze, verso l’unificazione con il Creatore
stesso» (IDEM, Omelia della Messa della Solennità del Corpus Domini, 15 giugno 2006).
33 Cfr. FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’ (24-V-2015), n. 83, nota 53. Cfr. A. SPADARO, Il sacerdote
e la “maturazione universale”. Pierre Teilhard de Chardin su Eucaristia e cosmo, «La Civiltà Cattolica» 166/3
(2016) 226-238.
34 Cfr. FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’, n. 236.
35 Cfr. IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 16,6; 21,9.
36 TEILHARD DE CHARDIN, La Messa sul Mondo, 10.
37 Ibidem.
38 «Noi tutti, con il battesimo, siamo stati costituiti sacerdoti della nostra stessa esistenza, “per offrire
vittime spirituali”, ben accette a Dio, “per mezzo di Cristo” (1Pt 2,5), per compiere ciascuna delle
nostre azioni in spirito di obbedienza alla volontà di Dio, perpetuando così la missione dell’Uomo-
Dio» (J. ESCRIVÁ, È Gesù che passa, Ares, Milano 201510, 184).
39 Si tratta del contenuto dell’esperienza mistica che Escrivá ebbe il 7 agosto 1931: «Giunse il
momento della Consacrazione: nell’alzare la Sacra Ostia, senza perdere il dovuto raccoglimento,
senza distrarmi avevo appena fatto mentalmente l’offerta all’Amore misericordioso –, si presentò al
mio pensiero, con forza e chiarezza straordinarie, quel passo della Scrittura: “et si exaltatus fuero a terra,
omnia traham ad me ipsum” (Gv 12,32). In genere, di fronte al soprannaturale, ho paura. Poi viene il “ne
timeas!, sono Io”. E compresi che saranno gli uomini e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la
dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare e attrarre a
tutte le cose» (A. VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Leonardo International, Milano 2003,
I, 402).
40 TEILHARD DE CHARDIN, La Messa sul Mondo, 14.
41 Cfr. D. LANE, Theology and Ecology in Dialogue. The Wisdom of “Laudato Si’”, Messenger, Dublin 2020,
114-152.
42 TEILHARD DE CHARDIN, La Messa sul Mondo, 14.
43 AGOSTINO, Sermo 227,1 in Discorsi IV, P. BELLINI, F. CRUCIANI, V. TARULLI, F. MONTEVERDE (a cura
di), Nuova Biblioteca Agostianiana, («Opere di Sant’Agostino», 32.1), Città Nuova, Roma 1989, 387-
389.
44 A. VANHOYE, La novità del sacerdozio di Cristo, «La Civiltà Cattolica» 149/1 (1998) 16-27.
45 Cfr. ibidem.
46 Cfr., ad esempio, SC 7.
47 P.-R. RÉGAMEY et al. (a cura di), A la recherce du Sacré, «La Maison-Dieu» 17 (1949) 7. La traduzione è
nostra.
48 Cfr. C. VALENZIANO, Liturgia e antropologia, EDB, Roma 1997, 78.
49 Così il sociologo Roger Caillois descriveva la questione del sacro nel 1939. Cfr. R. CAILLOIS,
L’homme et le sacré, Gallimard, Paris 1939; VALENZIANO, Liturgia e antropologia, 77.
50 TEILHARD DE CHARDIN, La Messa sul Mondo, 17.
51 VALENZIANO, Liturgia e antropologia, 92. L’enfasi è nostra.
52 Cfr. J. PIEPER, ¿Qué significa sagrado? Un intento de clarificación, Rialp, Madrid 1990, 19.
53 Cfr. VALENZIANO, Liturgia e antropologia, 88.
54 PIEPER, ¿Qué significa sagrado?, 19-20. La traduzione è nostra.
55 Cfr. J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, 41.
56 Ibidem.
FEDE, RAGIONE E CARITÀ.UNA
PROSPETTIVA TOMMASIANA
ROBERTO DI CEGLIE
Pontificia Università Lateranense, Roma
RIASSUNTO: Nell’ambito degli studi su fede e
ragione nel pensiero di Tommaso d’Aquino, si è
solitamente scelto di mostrare l’armonia dell’una
e dell’altra attraverso ciò che le accomuna, ossia il
fatto che la fede abbia un carattere intellettuale in
quanto essa è assenso dell’intelletto alla
rivelazione. Limitare la fede a questo, tuttavia, la
espone al giudizio della ragione e quindi alla
possibilità di essere rifiutata, se ciò è richiesto dal
criterio dell’evidenza. In questa sede, dopo aver
ricordato che per Tommaso la fede è assenso
intellettuale alla rivelazione ma in quanto dovuto
principalmente alla carità, mostro come questo
porti il credente a credere fermamente, anche nel
caso l’evidenza sembrasse smentire l’atto di fede.
E mostro che in tal modo il credente sembra
messo nella migliore condizione possibile per
promuovere l’attività intellettuale.
PAROLE CHIAVE: Rivelazione, Carità, Evidenza,
Maritain.
ABSTRACT: Among studies on faith and reason
in Aquinas’s thought, harmony between them is
usually shown by reference to that which is
common to them, i.e., the fact that there is an
intellectual aspect of faith given that faith is an
intellectual assent to divine revelation. If one
only considers this aspect, however, one runs the
risk of subjecting faith to reason, which means
that faith can be rejected if this is required by
the available evidence. In this essay, I first show
that according to Aquinas faith is an intellectual
assent to revelation, assent which is mainly due
to charity. I then argue that charity enables the
believer to firmly believe, even if the available
evidence seemingly disproves faith. I conclude
that in this way the believer seems to be put in
the best possible condition to promote
intellectual activity.
KEYWORDS: Revelation, Charity, Evidence,
Maritain.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 199-216
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202408
SOMMARIO: I. Introduzione. II. L’assenza di considerazione della carità quale causa dei problemi che affliggono le
interpretazioni di Tommaso. III. La visione tommasiana della fede, della carità e della volontà di credere. IV. Carità e
promozione della ragione nel pensiero di Tommaso.
I. INTRODUZIONE
Gli interpreti di Tommaso d’Aquino, soprattutto se credenti, sostengono
solitamente che nel suo pensiero la fede non confligge con l’attività
razionale. Io sono d’accordo con loro. È difatti risaputo che Tommaso risulti
fermamente convinto che non vi sia contraddizione tra la fede e la ragione.
Tuttavia, non mi soddisfa che, per sostenere questa tesi, i suddetti interpreti
finiscano per concentrarsi unicamente sull’aspetto intellettuale della fede
la fede intesa come atto dell’intelletto che assenso alla rivelazione da
cui segue che la fede può perlomeno in teoria essere rigettata nel caso in cui
l’assenso fosse negato dall’evidenza. Nell’avanzare la sua visione di quale
debba essere la relazione tra gli argomenti razionali e la fede cristiana, uno
studioso come Jacques Maritain ma anche suoi più recenti seguaci si
concentra sulla fede come se essa consistesse unicamente in un insieme di
proposizioni, che la riflessione filosofica potrebbe accettare o rifiutare.
Maritain non menziona mai la carità, ovvero l’amore per Dio e per il
prossimo che Dio stesso dona ai credenti.1
In questa sede intendo mostrare che la carità gioca un ruolo cruciale nel
pensiero di Tommaso sulla relazione tra fede cristiana e argomenti
razionali. In primo luogo, intendo focalizzare l’attenzione su come le
interpretazioni che di questa relazione sono state fornite dai suddetti
interpreti di Tommaso siano affette da problemi causati proprio dall’assenza
di considerazione del summenzionato ruolo della carità. In secondo luogo,
argomenterò che per Tommaso la fede non è solo atto intellettuale di
assenso alla verità di determinate proposizioni. Tale assenso è infatti dovuto
principalmente alla carità, che Tommaso ritiene metta i credenti in
condizione di credere fermamente quanto Dio abbia rivelato.2 Infine,
intendo mostrare che il ruolo svolto dalla carità nella definizione di fede
offerta da Tommaso ha ripercussioni positive sul modo in cui la fede
richiede di essere messa in relazione all’investigazione razionale. Una volta
che la carità ha perfezionato la fede e ha reso i credenti capaci di credere
fermamente perlomeno le proposizioni fondamentali della rivelazione
cristiana, essi sono anche posti nella condizione di seguire la ragione
dovunque essa li guidi, il che rappresenta la condizione ottimale per
condurre ricerche e dibattiti. Inoltre, se sono guidati dalla carità, i credenti
saranno tesi ad adottare e sviluppare virtù in ogni attività essi
intraprendano, inclusa quella intellettuale. In questo caso, essi
promuoveranno buoni abiti quali, ad es., l’umiltà intellettuale, la pazienza
intellettuale, la docilità, che non possono che contribuire positivamente
all’investigazione razionale.
II. LASSENZA DI CONSIDERAZIONE DELLA CARITÀ QUALE CAUSADEI PROBLEMI
CHE AFFLIGGONO LE INTERPRETAZIONI DI TOMMASO
Intendo ora mostrare quali problemi affliggano le interpretazioni della
dottrina tommasiana della fede e della ragione, interpretazioni che studiosi
di Tommaso hanno spesso offerto nel corso degli ultimi decenni. La mia tesi
è che la causa di tali problemi consista nel fatto che gli studiosi in questione
non prendono in considerazione il ruolo cruciale che in quella dottrina è
svolto dalla carità. Per brevità, considererò qui solo due tra i più
rappresentativi di quegli studiosi: un credente come Maritain (1882-1973),
le cui tesi mostrerò che tuttora esercitano grande influenza, e un non
credente quale Anthony Kenny (1931).3
Maritain prese parte alla ben nota querelle sulla filosofia cristiana, che si
tenne specialmente in Francia negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.4
Molti studiosi, non solo credenti ma anche non credenti,5 si impegnarono a
discutere se i filosofi che sono anche credenti possano plasmare la filosofia
senza trasformarla indebitamente in teologia. In altri termini, si trattava di
capire se la fede possa esercitare un’influenza sulle investigazioni razionali
senza limitarne l’autonomia da ogni forma di autorità esterna.
Maritain fu tra coloro che sostennero la possibilità per i credenti di
sviluppare una filosofia cristiana. A suo parere, si dovrebbe distinguere «tra
l’ordine di specificazione e l’ordine di esercizio» della filosofia, tra «la natura
della filosofia, ciò che essa è in stessa» e «lo stato in cui essa si trova di
fatto, storicamente, nel soggetto umano».6 Della natura della filosofia va
detto quanto segue: «Interamente razionale, nessun argomento derivato
dalla fede si inserisce nella sua struttura, essa dipende intrinsecamente solo
dalla ragione e dalla critica razionale, essa deriva la propria stabilità di
filosofia solo dall’evidenza sperimentale o intellettuale e dalla
dimostrazione».7 Quanto invece all’ordine di esercizio, va detto che «presa
in un modo concreto, secondo come è un habitus o un insieme di habitus
esistente nell’animo umano, la filosofia è in un certo stato precristiano,
cristiano o acristiano, che ha molta importanza rispetto al modo con cui
essa esiste e si sviluppa».8
Le convinzioni che emergono dallo stato nel quale i filosofi si vengono a
trovare dovrebbero essere soggette al giudizio della filosofia e quindi o
accettate nel discorso filosofico o rifiutate da esso. Se accettate, esse
plasmeranno la riflessione filosofica e una filosofia cristiana ma anche una
filosofia ebraica o islamica e così via – potrà emergere.9
Al di di quanto convincente la proposta di Maritain possa apparire,10
rimane vero che la distinzione tra natura della filosofia e lo stato nel quale i
filosofi si vengono a trovare sembra, perlomeno a prima vista, offrire
un’effettiva soluzione al problema di come controbilanciare la fede e la
riflessione filosofica. Non dovrebbe sorprendere che questa proposta abbia
esercitato un’influenza notevole e duratura. È sulla scia di Maritain che
John Wippel, per esempio, distingue la «fase della scoperta» (moment of
discovery) dalla «fase della prova» (moment of proof).11 Secondo Wippel, «nella
fase della prova, la sua [del credente] procedura non può descriversi come
filosofia cristiana». In contrasto, «poiché nella fase della scoperta fu la sua
convinzione religiosa che per prima gli suggerì una specifica questione come
un soggetto di investigazione filosofica, ci si potrebbe riferire a una simile
procedura come filosofia cristiana nell’ordine della scoperta».12 In breve,
convinzioni di varia origine possono contribuire al discorso filosofico nella
forma di suggestioni e di possibili risposte che solo attraverso detto discorso
sarà poi possibile verificare. Tale discorso rimane filosofico solo se
strettamente argomentativo, mentre cristiano è ciò che Wippel chiama «fase
della scoperta». Quest’ultima rappresenta un contesto pre-filosofico dal
quale possono trarsi ipotesi, suggestioni e possibili risposte. Allo stesso
modo, mentre rifletteva su come era divenuto un filosofo cristiano, Ralph
McInerny argomentava che lo stato in cui un filosofo si viene a trovare non
può confondersi con la natura della filosofia. Infatti, la filosofia non è soggetta
alle differenze che caratterizzano i vari stati nei quali i filosofi producono
filosofia.13
Tuttavia, la proposta di Maritain sembra contraddittoria e inutile. La
contraddizione emerge in quanto, da un lato, Maritain sostiene che le
convinzioni che caratterizzano lo stato in cui i filosofi vengono a trovarsi
saranno o accettate o rifiutate dalla filosofia; dall’altro lato, però, quando si
prendono in esame le convinzioni dei Cristiani, Maritain sostiene che esse
possano solo essere accolte dal discorso filosofico. A suo parere, «la fede
guida e orienta la filosofia, veluti stella rectrix, senza per questo ledere la sua
autonomia».14 Inoltre, la proposta di Maritain sembra inutile in quanto non
offre alcuna spiegazione del perché, a differenza di altri stati soggettivi, la
fede guidi e orienti la filosofia e la filosofia non possa mai rifiutare la fede,
che era precisamente quanto la sua riflessione sulla filosofia cristiana doveva
spiegare. Non sorprende che, sebbene la proposta di Maritain abbia
esercitato lunga influenza tra gli interpreti che riflettono sulla filosofia
cristiana, i dibattiti contemporanei nel settore risultino ancora focalizzati sul
rischio che una tale filosofia semplicemente finisca per risolversi in teologia.
J. Aron Simmons, curatore di un recente volume dedicato al concetto di
filosofia cristiana, ritiene che «esattamente come» la filosofia «sia distinta
dalla teologia cristiana è spesso difficile da dirsi»15. E nello stesso volume
John Schellenberg sostiene che la filosofia cristiana non sia un’autentica
filosofia.16
È mia convinzione che la proposta di Maritain soffra dei problemi
appena menzionati percMaritain non si è riferito al fatto che la fede non
è solo un insieme di convinzioni religiose, convinzioni che egli sostiene
emergono dallo stato in cui il filosofo viene a trovarsi. Secondo Tommaso, la
cui dottrina della fede e della ragione Maritain sostenne di seguire, la fede è
principalmente dovuta a una relazione di amore con Dio, una relazione a
causa della quale i credenti, perlomeno quelli paradigmatici, credono
fermamente che la rivelazione divina sia vera e che nessuna contraddizione
possa emergere con la filosofia
Nel prossimo paragrafo mi soffermerò sulla natura della fede appena
accennata. Prima di procedere, tuttavia, mi si lasci menzionare un’altra
interpretazione che sembra fraintendere Tommaso in quanto anche in
questo caso manca la considerazione della fede in quan to dovuta
principalmente alla carità. Mi sto riferendo alla prospettiva avanzata da
Kenny, il quale sostiene che la fede è vizio e non virtù in quanto la fermezza
che dovrebbe accompagnarla non è supportata da evidenza appropriata.
Per questo, come lui dice, l’alto livello di devozione proprio della fede è
«davvero discutibile».17 Kenny presenta la dottrina della fede di Tommaso
in questi termini: la fede è «accettazione della testimonianza di un testo
sacro o di una comunità religiosa».18 Questa accettazione è caratterizzata da
certezza e irrevocabilità. I credenti irrevocabilmente credono nonostante non vi
sia evidenza conclusiva che possa supportare tale irrevocabilità. Allo stesso
modo, essi non sono pronti a cambiare idea e ad abbandonare le proprie
convinzioni religiose una volta dinanzi ad argomenti contrari. Perciò Kenny
ritiene che «la fede non è, come i teologi pretendono, una virtù, bensì un
vizio».19 La fede potrebbe essere una virtù solo se evidenza appropriata
(conclusiva) fosse procurata a suo supporto e i credenti fossero pronti ad
abbandonarla nel caso in cui evidenza convincente emergesse a suo sfavore.
Secondo Kenny, due cose vanno fatte. Primo, l’esistenza di Dio va dimostrata
(non può semplicemente credersi per via di fede). Secondo, i fatti storici che
sono parte della divina rivelazione vanno provati come veri: «Quali che siano i
fatti storici che sono presi in considerazione come costitutivi della
rivelazione divina, essi vanno stabiliti indipendentemente da essa, come
storicamente certi».20 Poiché l’esistenza di Dio i fatti storici della
narrazione biblica possono dimostrarsi,21 è da concludersi che la fede è un
vizio. La certezza e irrevocabilità che essa richiede dovrebbe essere
sostenuta per via di evidenza conclusiva, ma tale evidenza non emerge.
Tuttavia, Kenny semplicemente non prende in considerazione che
Tommaso, come mostrerò nel prossimo paragrafo, è perfettamente con
sapevole che la certezza e irrevocabilità qui in oggetto non sono dovute alla
piena evidenza; sono invece dovute alla volontà di credere. Secondo
Tommaso, la volontà in questione è mossa appositamente dalla grazia di
Dio per far sì che l’intelletto dia l’assenso alla rivelazione divina.
In conclusione, vi sono problemi che affliggono sia la teoria di Maritain
che la prospettiva di Kenny. A mio avviso, questi problemi sono dovuti al
fatto che entrambi considerano solo la dimensione intellettuale della fede. In
altri termini, essi assumono la fede come mero assenso intellettuale, che va
in qualche modo fondato sull’evidenza. Maritain vede l’evidenza come un
criterio sulla base del quale le convinzioni religiose che sono parte
dell’esperienza personale del filosofo andrebbero sottoposte ad esame della
ragione e conseguentemente o accettate o rifiutate dal contesto del discorso
filosofico. Prevedibilmente, Maritain non riesce a spiegare perc egli
rimanga convinto che queste convinzioni non possano essere rifiutate dalla
filosofia quando esse sono parte della dottrina cristiana. Più coerentemente
con l’enfasi posta sull’evidenza, ma palesemente non in linea con la dottrina
tommasiana della fede, Kenny rifiuta la tesi tommasiana che, sebbene non
siano supportate da evidenza conclusiva, le convinzioni cristiane dovrebbero
essere mantenute con certezza e irrevocabilità.
III. LA VISIONE TOMMASIANA DELLA FEDE, DELLA CARITÀ,E DELLA VOLONTÀ DI
CREDERE
In questo paragrafo, intendo presentare la visione tommasiana della fede al
fine di mostrare che, diversamente dai suoi interpreti presi in considerazione
finora, Tommaso crede che la fede sia dovuta principalmente all’iniziativa di
Dio, che rende la fede più certa di qualsivoglia argomento razionale.
Mi si conceda una puntualizzazione prima di proseguire. Secondo
Tommaso, il credente talora sbaglia nell’interpretare proprie congetture
come se esse costituissero dettato di fede.22 In altri termini, non ogni
convinzione che i credenti in quanto tali abbracciano è da considerarsi
verità di fede. Vi sono convinzioni che i credenti abbracciano ma che
dovrebbero essere abbandonate una volta soggette a scrutinio razionale. Per
questo, quando Tommaso parla delle proposizioni di fede che il credente
dovrebbe tenacemente ritenere vere, egli deve riferirsi solo ad alcune
convinzioni, presumibilmente un numero limitato di esse, quelle che i
credenti dovrebbero considerare innegabilmente vere. «Dio esiste» o «Gesù
Cristo è il Signor potrebbero senz’altro annoverarsi tra di esse. Come
mostrerò più avanti, peraltro, tale innegabilità non è dovuta a una certezza
meramente intellettuale quanto piuttosto a una certezza di fede, la cui
radice è nell’amore e nella fiducia del credente nei confronti di Dio.
Passiamo ora a considerare che, secondo Tommaso, la fede è «un atto
dell’intelletto che assenso (actus assentientis) alla verità divina sotto il
comando della volontà mossa da Dio per grazia (ex imperio voluntatis a Deo
motae per gratiam)».23 Questa definizione implica tre dimensioni, e non solo
quella intellettuale presa in considerazione dai pensatori citati nel paragrafo
precedente. La fede è non solo un atto dell’intelletto (questa è la sua
dimensione intellettuale). L’intelletto, infatti, è mosso all’assenso alla divina
rivelazione, intesa come il bene in se stesso, dalla volontà umana (questa la si
può intendere come la dimensione morale della fede), che a sua volta è
mossa dalla grazia divina che rende il credente capace di amare Dio e di
confidare in lui (questa la si può intendere come la dimensione religiosa
della fede). Così, la carità, che è amore per Dio che Dio stesso conferisce ai
credenti, muove la volontà, che a sua volta causa l’intelletto a dare l’assenso.
Con le parole di Tommaso, la carità «rende il volere pronto a credere le
cose inevidenti».24 In altri termini, Dio fa che i credenti lo amino,
confidino in lui, e credano qualsiasi cosa egli abbia rivelato. Inoltre, poiché
Tommaso, in linea con una lunga tradizione,25 sostiene che vi sono diversi
livelli di intensità ai quali i credenti possono fare esperienza della fede,26 si
potrebbe dire che più si ama Dio e ci si affida a lui, maggiormente si sarà
pronti a credere le cose della rivelazione. È la carità, quindi, che rende la
fede ferma, e quelli che hanno carità credono in maniera paradigmatica.27
Ma perc Tommaso sostiene che l’intelletto necessiti della volontà e
ultimamente della carità per dare l’assenso alla rivelazione divina? La
risposta è che, diversamente dalla conoscenza, la fede non gode di piena
evidenza del suo oggetto. Vale a dire che il suo oggetto quanto i credenti
sono richiesti di credere non è caratterizzato da evidenza piena. Perciò
Tommaso dice che questo oggetto non può far che l’intelletto dia fermo
assenso, per via di intuizione per via di dimostrazione. Di
conseguenza, è vero che «la fede implica l’assenso dell’intelletto a ciò che si
crede»,28 ma è anche vero che l’intelletto può solo assentire «per una scelta
volontaria»:
L’intelletto può assentire […] non perché mosso adeguatamente dal proprio oggetto, ma per una
scelta volontaria, che inclina più verso una parte che verso l’altra. E se questo si fa col dubbio e
col timore che sia vero l’opposto, avremo l’opinione: se invece si fa con la certezza e senza
codesto timore, avremo la fede.29
In questo passo, Tommaso offre una distinzione accurata tra la conoscenza
che è conseguita quando l’intelletto vede l’oggetto di fede e
conseguentemente l’assenso e la fede, che si quando l’intelletto non
vede l’oggetto in questione, per cui l’assenso può solo darsi per via
dell’intervento della volontà. Inoltre, questa distinzione è radicalizzata dalla
tesi tommasiana secondo cui, sebbene il contenuto intellettuale della fede
non sia evidente, la fede dovrebbe comunque caratterizzarsi per certezza.
Sulla base di questa distinzione, quindi, si può concludere che, diversamente
dalla conoscenza, la fede è per lo meno in parte non rispondente a criteri
razionali,30 giacché i credenti danno fermo assenso perché lo vogliono. E la
loro volontà, come già detto sopra, è mossa dalla carità a livelli diversi di
intensità, per cui più intensamente si ama Dio e si confida in lui, più si vuole
credere.31
Plausibilmente, insistere sul fatto che la volontà è mossa dall’amore di Dio
potrebbe sembrare incompatibile con la convinzione tommasiana per cui la
fede è un atto libero, e questo è il motivo per cui dispute senza fine si sono
generate nell’ambito della tradizione cristiana. Una soluzione plausibile
potrebbe essere quella che Frederick Bauerschmidt menziona quando dice
che «Dio può muovere la volontà dell’uomo senza compromettere la libertà
umana».32 Bauerschmidt si riferisce al trattamento tommasiano della grazia,
laddove la grazia è vista come sia «operante», attribuibile a Dio, che come
«cooperante», attribuibile agli uomini. Secondo Tommaso, «Dio non ci
giustifica senza di noi, poiché nell’atto della giustificazione acconsentiamo
alla giustizia di Dio col moto del nostro libero arbitrio. Però codesto moto
non è causa, ma effetto della grazia».33 In tal senso, Fergus Kerr sostiene che
quando Tommaso parla di «co-operazione» tra creature e Dio, egli esclude l’immagine di due
agenti rivali sullo stesso piano. Al contrario, egli vede ciò come espressione della libertà di Dio e
della libertà nostra. Dio causa qualunque cosa in modo tale che anche le creature la causino .
[…] Come Tommaso asserisce piuttosto chiaramente, nulla ci impedisce di pensare che lo stesso
effetto sia prodotto da un agente al livello inferiore e da Dio al livello superiore da entrambi,
quindi, anche se ovviamente in modi diversi.34
Eleonore Stump ha proposto una soluzione secondo cui la volontà umana
andrebbe vista come «inattiva e quiescente», e non solo pronta a dare o a
rifiutare l’assenso. Se Dio ci concede la sua grazia quando la volontà è
quiescente, allora è possibile riconciliare la volontà umana e la grazia
divina.35 Nell’avanzare questa originale proposta, Stump sostiene anche che
ogni tentativo di offrire una soluzione dettagliata a dispute millenarie come
quella in questione tra grazia e libertà nel pensiero di Tommaso finirà con
ogni probabilità per provocare ulteriori controversie anziché mettere fine a
quelle esistenti. Per questo, essa rileva che il suo fine consiste solo nel
mostrare una prospettiva che ella vede come coerente con i testi di
Tommaso, anche se Tommaso stesso potrebbe non averla neanche
considerata oppure rifiutata nel caso gliela si fosse proposta.36 La mia
impressione è che, per usare la terminologia di Agostino a questo riguardo,
Stump sembri focalizzare l’attenzione sulla grazia di Dio nel suo rapporto
col liberum arbitrium, mentre essa avrebbe dovuto concentrarsi sulla grazia di
Dio nel suo rapporto con la libertas. Per dirla diversamente, ciò di cui
abbiamo bisogno è una spiegazione di come riconciliare la grazia divina con
(il merito dovuto a) la libertà umana di un atto buono, e non con il rifiuto
della grazia divina o con l’incapacità di rifiutarla, che ovviamente non
costituiscono atti buoni e non sono meritori.37
Comunque, siano o no accettabili queste prospettive su come riconciliare
la libertà umana e la grazia divina, la mia tesi è che, data l’importanza che
Tommaso attribuisce alla volontà di credere quando è in gioco la fede
cristiana, egli potrebbe essere considerato un volontarista, e potrebbe
sembrare guidato da mero wishful thinking. Questa accusa potrebbe
riguardare non solo l’atto di fede ma anche le investigazioni razionali che
Tommaso conduce a supporto della fede. Come mostrerò nel prossimo
paragrafo, Tommaso inizia chiaramente queste investigazioni col fine di
rifiutare obiezioni alla fede e quindi col fine di rinforzarla. Tuttavia, il wishful
thinking può essere inteso sia negativamente che positivamente. Questa
distinzione è stata proposta da Herbert McCabe. Il wishful thinking inteso
negativamente è quello generalmente inteso come la causa del fatto che «i
propri desideri passino indebitamente in un ambito che dovrebbe spettare
unicamente alla ragione».38 In altri termini, ci si potrebbe far guidare dai
propri desideri per ragionare in maniera disonesta e manipolare gli
argomenti. Di contro, è mia convinzione che è quanto McCabe chiama
wishful thinking in un senso positivo che va riscontrato nell’opera di
Tommaso. È vero che sia il ricercatore che è guidato positivamente dal
wishful thinking che quello che ne è guidato negativamente sperano di
mostrare infine che non vi sono obiezioni valide alle loro proprie
convinzioni. Questa speranza, tuttavia, porta solo i secondi, e non i primi, a
manipolare gli argomenti. Come intendo mostrare nel prossimo paragrafo,
il wishful thinking che caratterizza la dottrina di Tommaso sulla fede e la
ragione sembra addirittura mettere il ricercatore nella condizione ideale per
condurre l’attività intellettuale.
IV. CARITÀ E PROMOZIONE DELLA RAGIONE NEL PENSIERO DI TOMMASO
Secondo Tommaso, se la ragione consegue conclusioni che contraddicono le
verità di fede, ciò vuol dire che gli argomenti adottati non erano corretti:
Se nelle sentenze dei filosofi si trova qualcosa che risulta contrario alla fede, non si tratta di
filosofia (hoc non est philosophia) ma piuttosto di abuso della filosofia dovuto al fatto che la ragione
non è stata esercitata adeguatamente. E perciò è possibile trovare l’errore in questione a partire
dai principi della filosofia (ex principiis philosophiae) mostrando che si tratta di qualcosa di
impossibile o di non necessario.39
La tesi di Tommaso è che una volta che gli argomenti contro la fede siano
stati rifiutati semplicemente percessi portavano a conclusioni contrarie
alla fede la ragione deve ricominciare tutto daccapo, «dai principi della
filosofia». Tommaso mostra insomma una fiducia estrema nelle potenzialità
della ragione umana. Infatti, nonostante gli errori che essa sembra aver
compiuto, è ad essa che è affidato il compito di ricominciare daccapo:
Poiché la fede poggia sulla verità indefettibile, e poiché è impossibile dimostrare ciò che è
contrario al vero, risulta evidente che le prove addotte contro la fede non sono dimostrazioni (non
esse demonstrationes) ma argomenti da riconsiderare (solubilia argumenta).40
Si noti che la ferma fiducia che Tommaso ripone nella ragione non sembra
dovuta alla ragione. Egli menziona due principi dai quali tale fiducia
emerge. Uno di essi («la fede poggia sulla verità indefettibile») è
chiaramente dovuto alla fede; l’altro («è impossibile dimostrare ciò che è
contrario al vero») è proposto da Tommaso come effetto di
dimostrazione come prodotto di intuizione. Infatti, questo principio non
sembra intuibile, perché non sembra che si conosca immediatamente che il
contrario del vero non possa essere mai dimostrato. Inoltre, questo principio
non è neanche dimostrabile. Dire che per via di ragione la ragione non
possa errare costituisce un argomento circolare. La conclusione è quindi che
il principio in questione sembra essere tenuto per fede.
Che questa mia tesi sia corretta oppure no, rimane vero che è per via di
fede che Tommaso crede fermamente che, poiché Dio è autore della fede
come della ragione, questa non può contraddire quella, e quindi la ragione
è affidabile.41 Ciò conferma la tesi secondo cui Tommaso ripone ferma
fiducia nella ragione a motivo della sua fede. E la fede richiede anch’essa di
essere ferma. La sua fermezza consiste nell’adesione (inhaerĕo) alle verità
rivelate, adesione che è dovuta all’amore per Dio. Per mezzo di tale
adesione, i credenti vogliono unirsi a Dio e risultano pronti ad accettare
come vera qualsivoglia affermazione sia contenuta nella divina rivelazione.
Allo stesso modo, i credenti rifiutano tutti gli argomenti che neghino le
verità di fede, non importa quanto convincenti esse pos sano apparire e
risulta quindi superfluo ripetere che, proprio a motivo dell’amore per Dio e
per tutto quanto venga da lui, questo rifiuto deve essere seguito da ulteriori
investigazioni tese a mostrare che l’argomento rifiutato è scorretto anche dal
punto di vista speculativo. La fede è, quindi, più sicura di ogni certezza
razionale e ho già detto che quando Tommaso menziona le convinzioni
religiose che il credente è invitato a mantenere tenacemente anche se
apparentemente contrastate da evidenza contraria, egli si riferisce solo a
quelle convinzioni, forse poche, che i credenti dovrebbero considerare
innegabili.42
Si potrebbe obiettare che la tesi secondo cui alcune convinzioni religiose
dovrebbero essere viste come innegabili sembri portare a una forma di
fideismo e quindi di fanatismo religioso. In risposta, va detto che la piena
certezza in questione è da attribuire solo a quelle convinzioni senza le quali
la fede in se stessa diventerebbe irriconoscibile, convinzioni quali che Cristo
è Dio e che, ancor più fondamentalmente, Dio esiste. Inoltre, nessun
fideismo o fanatismo religioso può riguardare coloro per i quali la fede va
sostanziata con l’attività intellettuale. Questo è quello che Tommaso per
eccellenza ha mostrato praticando tale attività a supporto della fede e
considerandola meritoria.43 Del resto, la certezza dei credenti paradigmatici
non impedisce loro di argomentare a favore della fede. Al contrario, li rende
certi che la loro ferma fiducia nella ragione è riposta appropriatamente, da
cui segue la loro fiducia nel fatto che ogni obiezione alla fede troverà
adeguata risposta.44
La fiducia in oggetto è manifestamente dovuta all’amore dei credenti per
Dio e al loro conseguente affidamento a lui. Se essi amano Dio e quindi si
affidano a lui, essi si avvertono certi che quanto egli ha rivelato come tutto
quanto possa plausibilmente conseguire alla sua rivelazione è vero.
Considerati poi i sopramenzionati livelli di intensità ai quali i credenti fanno
esperienza della fede e della carità, si può concludere che maggiormente essi
amano Dio e confidano in lui, maggiormente saranno pronti a credere
quanto è contenuto nella rivelazione, inclusa la tesi che Dio ha creato sia la
fede che la ragione. Di conseguenza, i credenti fermamente crederanno che
nessuna contraddizione possa emergere tra fede e ragione, altrimenti Dio
contraddirebbe se stesso, il che è impossibile.45 Questo mette i credenti
paradigmatici in condizione di condurre appropriatamente l’investigazione
razionale. Una volta convinti che la ragione non possa contraddire ciò cui
essi dovrebbero tenere maggiormente la loro fede e le convinzioni ad essa
connesse essi saranno pronti a seguire la ragione dovunque essa li guidi, il
che è costitutivo della filosofia come di ogni scienza. Per contro, lo stesso
non può dirsi di coloro che confidano innanzitutto nella ragione e solo
secondariamente se cioè la ragione lo mostra plausibile in Dio suo
creatore. Essi potranno confidare pienamente solo nel corretto
funzionamento delle proprie capacità cognitive. Come tutti, però, essi sono
consapevoli del fatto che la ragione è fallibile, e la fallibilità in questione
implica che ulteriori ricerche possano smentire ciò cui essi massimamente
tengono. E ciò potrebbe, perlomeno in alcuni casi, prevenirli dal seguire la
ragione dovunque essa li guidi.
Vi è un’ulteriore considerazione che può avanzarsi a supporto della mia
tesi che la carità promuove la migliore condizione per condurre
investigazioni razionali. Coloro le cui condotte razionali sono perfezionate
dalla carità promuoveranno virtù in ogni attività che dovessero
intraprendere, inclusa quella razionale. In questo caso, le virtù in questione
sono quelle intellettuali, quali emergono dal fiorente dibattito filosofico
analitico che le vede come un sottoinsieme delle virtù morali.46 Sono virtù
quali l’umiltà intellettuale, la pazienza intellettuale, ma anche la docilità, di
cui già Tommaso parlava. Sono tutte virtù, queste, che non possono che
contribuire in maniera sostanziale al successo delle investigazioni razionali.
La virtù della docilità lo mostra inequivocabilmente. Grazie ad essa, «uno
con premura, con frequenza e riverenza applica il proprio spirito agli
insegnamenti dei maggiori, senza trascurarli per pigrizia, e senza
disprezzarli per superbia».47 Emerge quindi come una tale disposizione «sia
utile per qualsiasi virtù intellettuale».48 Si tratta di atteggiamenti che
emergono inequivocabilmente dalla carità. Coloro che sono animati
dall’amore per Dio e per il prossimo li adotteranno del tutto naturalmente,
ponendosi in una condizione ideale per condurre l’attività razionale.49 Lo
stesso non può dirsi per chi confida pienamente solo nelle abilità cognitive.
Non solo non è detto che chi si trova in questa condizione sia portato a
coltivare quelle virtù. Va anche detto che, perlomeno per decidere se esse
vadano o no coltivate, dovrà ancora una volta rifarsi alla sola ragione e al
criterio supremo dell’evidenza. Il che significa che, perlomeno nel corso di
questi dibattiti, dovrà di necessità fare a meno di quelle virtù.
Si conferma quindi anche in questo caso, come in quello
sopramenzionato dell’apertura mentale che emerge dalla fede plasmata
dalla carità, che è appunto tale fede a mettere il ricercatore in una
condizione ideale di esercizio della ragione. Si conferma anche il fatto che la
fede così intesa plasmi la riflessione razionale con l’attribuirvi caratteri
altrimenti non necessariamente disponibili a seguire la ragione ovunque essa
conduca e promuovere le virtù intellettuali senza che però tutto questo, sul
piano epistemologico, comporti che l’autonomia dell’investigazione
razionale sia compromessa.
In conclusione, ho voluto avanzare un’interpretazione del pensiero di
Tommaso sulla relazione tra religione e attività filosofica che risulta diversa
dalle prospettive usualmente accolte tra i suoi interpreti. Come loro, anch’io
credo che per Tommaso la dimensione intellettuale della fede risulti di
importanza decisiva. Diversamente da loro, argomento però che è a motivo
delle dimensioni morale e soprattutto religiosa della fede che i credenti
possono fermamente dare assenso intellettuale alla rivelazione. Coloro che
guardano alla fede solo dal punto di vista intellettuale finiscono per
supportare la tesi che la fede possa essere sog getta ad esame razionale e
quindi, perlomeno in teoria, rifiutata se ciò è richiesto dall’evidenza. Di
contro, Tommaso sembra credere che la carità rende i credenti tenacemente
legati alle verità fondamentali della rivelazione per quanto convincente
l’evidenza ad esse contraria possa sembrare. Inoltre, riguardo alla relazione
tra fede e argomenti razionali, una così ferma fede produce perlomeno due
percorsi di gestione dell’investigazione razionale che risultano ideali per il
successo di tale investigazione.
1 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae [d’ora innanzi: S.Th.], II-II, q. 24, a. 2. L’ed. it. cui farò
riferimento è quella a cura dei Padri Domenicani italiani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna
1985.
2 Cfr. S.Th., II-II, q. 2, a. 10, ad 2.
3 Per una rassegna più ampia di interpretazioni tommasiane, mi si permetta un rimando a R. DI
CEGLIE, Aquinas on Faith, Reason, and Charity, Routledge, New York 2022, 9-38.
4 Cfr. «Bulletin de la Société française de philosophie» 31 (1931). In lingua italiana, è disponibile
l’antologia di scritti a cura di A. LIVI, Bréhier, Blondel, Maritain, Gilson: il problema della filosofia cristiana,
Patron, Bologna 1974.
5 Tra i non credenti, mi si lasci menzionare lo storico della filosofia Émile Bréhier (1876-1952) e il
filosofo Léon Brunschvicg (1869-1944).
6 J. MARITAIN, Sulla filosofia cristiana (1933), trad. it. di L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano 1978, 34.
7 Ibidem.
8 J. MARITAIN, Scienza e saggezza (1935), trad. it. di P. Viotto, Borla, Torino 19633, 125.
9 Si noti che Maritain applica questa distinzione alla sola filosofia teoretica. Ulteriori considerazioni
sono richieste nel caso della filosofia morale, laddove non solo lo stato ma anche la natura della
filosofia dovrebbe essere riferita alla fede cristiana. Una «filosofia morale adeguatamente presa»,
come Maritain la chiama, dovrebbe essere guidata dalla conoscenza del fine ultimo, che i credenti
non possono fingere di non sapere essere soprannaturale. Da ciò secondo Maritain non segue che
la filosofia morale vada identificata con la teologia, come si potrebbe obiettare. Si tratta invece di dar
vita a una «scienza formalmente filosofica subalternata alla teologia» (MARITAIN, Sulla filosofia cristiana,
86), in quanto le verità teologiche sono indispensabili per la piena costituzione dell’etica e l’oggetto
della riflessione morale è adeguatamente conosciuto solo alla loro luce (cfr. IDEM, Scienza e saggezza,
109)
10 Peter Redpath, ad esempio, sostiene che la filosofia non può proprio esistere in se stessa, cioè priva
di riferimento allo stato di colui che filosofa (cfr. P. REDPATH, Romance of Wisdom: The Friendship between
Jacques Maritain and Saint Thomas Aquinas, in D.W. HUDSON, M.J. MANCINI [a cura di], Understanding
Maritain: Philosopher and Friend, Mercer University Press, Macon 1987, 110).
11 Cfr. J. WIPPEL, The possibility of a Christian philosophy: a Thomistic perspective, «Faith and Philosophy» 1
(1984) 272-290.
12 Ibidem, 280.
13 Cfr. R. MCINERNY, How I became a Christian philosopher, «Faith and Philosophy» 15 (1998) 145.
14 MARITAIN, Sulla filosofia cristiana, 52-53.
15 J.A. SIMMONS, Introduzione a J.A. SIMMONS (a cura di), Christian Philosophy: Conceptions, Continuations,
and Challenges, Oxford University Press, Oxford 2018, 12.
16 Cfr. J. SCHELLENBERG, Is Plantinga-Style Christian Philosophy Really Philosophy?, in SIMMONS (a cura di),
Christian Philosophy: Conceptions, Continuations, and Challenges, 229-243.
17 A. KENNY, Knowledge, Belief, and Faith, «Philosophy» 82 (2007) 396.
18 Ibidem, 394.
19 A. KENNY, What is Faith?, Oxford University Press, Oxford 1992, 57. Le citazioni che offrirò sono
tratte da questo volume come pure da un volume precedente: Faith and Reason, Columbia University
Press, New York 1983. Questo costituisce la prima delle due parti che compongono quello.
20 Ibidem, 57.
21 Cfr. A. KENNY, The Five Ways, Routledge & Kegan Paul, London 1969, 4; IDEM, Faith and Reason, 55.
22 «È sempre possible che un credente giudichi falsamente una cosa, per una supposizione umana (ex
coniectura humana); ma non quando giudica partendo dalla fede» (S.Th., II-II, q. 1, a. 3, ad 3; corsivo
mio).
23 S.Th, II-II, q. 2, a. 9.
24 S.Th, II-II, q. 2, a. 10, ad 2.
25 Si tratta di una tradizione che affonda le proprie radici nella Scrittura, come documentato
perlomeno da Mc 10,43; Fil 2,3.
26 Cfr. S.Th, II-II, q. 5, a. 4.
27 Cfr. S.Th, II-II, q. 4, a. 3. È vero che Tommaso si riferisce alla possibilità che i credenti abbiano
una fede informe, che manchi cioè di carità (cfr. S.Th., II-II, q. 4, a. 4). Ma ciò non è di alcun interesse
per i fini di questo saggio. In questa sede, infatti, intendo unicamente concentrare l’attenzione sui
credenti paradigmatici, la cui fede è formata dalla carità, e sul fatto che da ciò essi sembrano messi nelle
migliori possibilità di praticare l’attività intellettuale.
28 S.Th., II-II, q. 1, a. 4.
29 Ibidem.
30 Ciò non dovrebbe stupire se si considera che questa riflessione è il risultato di una combinazione
dell’epistemologia aristotelica con la novità assoluta rappresentata dalla fede cristiana. Lo sottolinea
Jean-Pierre Torrell quando sostiene che «come spesso accade quando utilizza del materiale preso in
prestito dallo Stagirita, Tommaso gli fa subire una trasposizione radicale per il fatto stesso che lo
utilizza in un clima evangelico completamente sconosciuto al filosofo pagano» (J.P. TORRELL,
Tommaso d’Aquino. Maestro spirituale, trad. it. di G. Matera, A. Oliva, Città Nuova, Roma 1998, 17).
31 La fede è quindi ordinata alla carità. Tommaso chiarisce che tutte «le virtù teologiche hanno come
loro oggetto il fine ultimo» e che tra di esse «ha maggior ragione di fine quella che è più prossima al
fine ultimo» ossia la carità. Per questo, «tutte le virtù [anche quelle teologali della fede e della
speranza] sono ordinate alla carità» (TOMMASO D’AQUINO, Commento alla Prima Lettera a Timoteo, cap. 1,
lezione 2, n. 13, in IDEM, Commento al Corpus Paulinum, trad. it. di B. Mondin, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 2008).
32 F. BAUERSCHMIDT, Thomas Aquinas: Faith, Reason, and Following Christ, Oxford University Press,
Oxford 2013, 147.
33 S.Th., I-II, q. 111, a. 2, ad 2.
34 F. KERR, After Aquinas: Versions of Thomism, Blackwell Publishing, Oxford 2002, 143.
35 Cfr. E. STUMP, Aquinas, Routledge, New York 2003, 389.
36 Cfr. ibidem, 389, 403.
37 Questa tesi secondo cui il vero problema da risolvere è quello della coesistenza di grazia divina e
libertas, e non la coesistenza di grazia divina e liberum arbitrium, è Étienne Gilson ad averla avanzata.
Cfr. The Christian Philosophy of Saint Augustine, trasl. by L.E.M Lynch, Vintage Books, New York 1960,
157.
38 H. MCCABE, Faith Within Reason, a cura di B. Davies, Continuum, London 2007, 10.
39 TOMMASO D’AQUINO, Super Boethium De Trinitate, q. 2, a. 3, trad. it. di C. Pandolfi, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 1997.
40 S.Th., I, q. 1, a. 8.
41 «È impossibile che quanto Dio ci trasmette per fede risulti in contraddizione con ciò che è posto
dentro di noi per natura. In tal caso, infatti, bisognerebbe che o l’uno o l’altro fosse falso; ma allora
poiché e l’uno e l’altro ci provengono da Dio Dio risulterebbe nei nostri confronti l’autore del falso
– cosa impossibile» (TOMMASO, Super Boethium De Trinitate, q. 2, a. 3).
42 Cfr. supra nt. 22.
43 Cfr. S.Th., II-II, q. 2, a. 10.
44 Seguendo Tommaso, McCabe sostiene che questo non è affatto irragionevole. I credenti «credono
davvero che tutte le obiezioni possono essere in qualche modo respinte. Essi non sono dissociati
dall’evidenza al modo dei dementi» (MCCABE, Faith Within Reason, 9).
45 Cfr. supra nt. 41.
46 Mi riferisco soprattutto a Linda Zagzebski, cha ha autorevolmente argomentato a favore di questa
tesi mostrando che le convinzioni di coloro che sono intellettualmente virtuosi sono dovute
all’abitudine e alla scelta (cfr. L. ZAGZEBSKI, Virtues of the Mind: An Inquiry into the Nature of Virtues and the
Ethical Foundations of Knowledge, Cambridge University Press, New York 1996).
47 S.Th., II-II, q. 49, a. 3, ad 2.
48 S.Th., II-II, q. 49, a. 3, ad 1.
49 A queste tematiche è dedicato il volume che mi permetto qui di segnalare: R. DI CEGLIE, God, the
Good, and the Spiritual Turn in Epistemology, Cambridge University Press, Cambridge 2022.
GÉNESIS, DESARROLLO Y RELEVANCIADE
LA «UNIDAD DE LOS DOS»
Contribución de Karol Wojtyla a la antropología trinitaria
JAIME RODRÍGUEZ DÍAZ
Pontificio Instituto Teológico Juan Pablo II para las cienciasdel matrimonio y de la familia, sección
de Madrid
RESUMEN: El artículo profundiza en la noción de
la «unidad de los dos» en la obra de Karol
Wojtyla, quien más tarde se convirtió en el Papa
Juan Pablo II. El autor argumenta que esta noción
es fundamental para desarrollar una antropología
inspirada en la Trinidad, a partir de las
contribuciones de teólogos como Von Balthasar,
Klaus Hemmerle, Piero Coda y Marc Ouellet.
Esta noción se refiere al amor mutuo y recíproco
entre dos individuos que crea una nueva entidad,
un ‘nosotrosʼ, mientras se respeta la individualidad
y autonomía de cada persona. Wojtyla desarrolló
esta noción teológicamente a partir de sus estudios
interdisciplinarios de mística, poesía y filosofía. El
artículo también reflexiona en el nexo que existe
entre el amor de las personas divinas y la
comunión entre las personas humanas, señalando
la experiencia de la masculinidad y la feminidad
como un elemento esencial para la autoconciencia
y la experiencia del cuerpo como un don.
PALABRAS CLAVE: «unidad de los dos»,
Unidualidad, Communio personarum, Relacionalidad.
ABSTRACT: The article discusses the notion of
the “unity of the two” in the work of Karol
Wojtyla, who later became Pope John Paul II.
The author argues that this notion is
fundamental to developing an anthropology
inspired by the Trinity, drawing on the
contributions of theologians such as Von
Balthasar, Klaus Hemmerle, Piero Coda and
Marc Ouellet. This notion refers to the mutual
and reciprocal love between two individuals
that creates a new entity, an “us”, while
respecting the individuality and autonomy of
each person. Wojtyla developed this notion
theologically from his interdisciplinary studies
of mysticism, poetry, and philosophy. The
article also reflects on the link between the love
of divine persons and the communion between
human persons, pointing to the experience of
masculinity and femininity as an essential
element for self-awareness and the experience
of the body as a gift.
KEYWORDS: “unity of the two”, Uniduality,
Communio Personarum, Relationality.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 217-239
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202409
SUMARIO: I. De la ontología a la antropología trinitaria. II. Génesis de la noción «unidad de los dos» en el itinerario
intelectual de Karol Wojtyla. III. Desarrollo de la noción en el Pontificado. IV. Relevancia de la «unidad de los dos»
para la antropología.
I. DE LA ONTOLOGÍA A LA ANTROPOLOGÍA TRINITARIA
La expresión «unidad de los dos» aparece por primera vez en las audiencias
generales de la Teología del cuerpo,1 pero su génesis se remonta a los inicios del
itinerario intelectual de Karol Wojtyla, quien seguirá madurando sus
implicaciones filosóficas y teológicas durante décadas y la utilizará cada vez
con más frecuencia en los documentos que escribirá como Pontífice.2
La hipótesis que pretendo argumentar es que el personalismo wojtyliano
se apoya en la noción de origen bíblico de la «unidad de los dos», que revela
hasta qué punto la relacionalidad es constitutiva de la persona, llamada al
don de por medio de la communio personarum, formada sobre la base de la
ʻdoble soledadʼ del varón y de la mujer;3 y que tal expresión es fundamental
para desarrollar una antropología trinitariamente inspirada, en la línea
seguida por Marc Ouellet, basada en la ontología trinitaria, entendida como
una nueva manera de ver toda la realidad desde la Trinidad, en sintonía con
las pistas abiertas por Von Balthasar, Klaus Hemmerle y continuadas por
Piero Coda.4
Presentaré brevemente el núcleo del pensamiento de estos autores.
Expondré a continuación la génesis y el desarrollo de la noción de «unidad
de los dos» en el itinerario intelectual de Karol Wojtyla Juan Pablo II y
concluiré subrayando su relevancia en la antropología.
Es significativa la lamentación de Von Balthasar respecto al olvido de la
dimensión trinitaria en la especulación y en la espiritualidad.5 El teólogo
suizo expresa su asombro por el hecho de que, ni los griegos, ni los monjes,
ni los filósofos racionalistas o empiristas hayan visto en la paternidad y la
filiación un destello de la lógica trinitaria en el mundo.6 Considera que la
fecundidad es la «imago Trinitatis más elocuente inserta en la criatura»,7 la
«prueba permanente en favor de la estructura triádica de la lógica creatural
concreta»,8 la ley no sólo de lo orgánico, sino también de la vida espiritual.
El teólogo alemán Hemmerle, por su lado, aspira a desarrollar una nueva
ontología partiendo del amor: «no se trata de incluir el fenómeno del amor,
el fenómeno del darse, en una fenomenalidad más extensa de lo que se es,
sino que se trata inversamente de leer de manera nueva y no abreviada la
fenomenalidad de todo lo que es, partiendo del amor, del darse a
mismo».9
Remite por ello al Amor trinitario como horizonte último y fundamento
del ser, poniendo de relieve el ser como don, y uniendo la experiencia
fenomenológica del amor humano con su fundamentación ontológica en el
Amor trinitario. En efecto, afirma que el cristiano «cree en un amor que se
halla al comienzo, en el centro y al final. Cree en el amor como en el
sentido del ser», por lo que «a partir de arriba, a partir de la revelación, el
postulado de una ontología trinitaria es consecuente».10
Sus reflexiones están dirigidas a «esbozar cómo habría que desarrollar
una concepción de la realidad que tomase como punto de partida el hecho
de que todo lo que el hombre vive, experimenta y conoce, tiene su fuente en
el misterio del Dios uno y trino, y que por tanto, lleva un sello trinitario».11
Piero Coda sugiere que la unidad de la Trinidad no sólo exhibe el
significado ontológico del ser Uno de Dios, sino que ofrece la luz para
interpretar cualquier otra forma de unidad en el universo del ser creado. No
propone una simple teo-logía de la unidad, sino una ontología de la unidad
trinitariamente entendida, llegando a afirmar que se puede hablar
pertinentemente de ontología de la unidad en su plenitud, sólo a la luz de la
revelación de la Trinidad. Como consecuencia de esta premisa, afirma que
es preciso ser expertos «en ese ejercicio del pensamiento que se nutre de la
dinámica del ágape, es decir, en el que la diferencia del otro no me es ajena,
sino que, preservando e incluso potenciando su distinción, se hace interna a
mi pensamiento. Y viceversa».12 Se trata de «una hermosa empresa: vivir y
pensar, responsable y recíprocamente, en el corazón mismo del Misterio
siempre más grande de Dios mismo».13
Marc Ouellet, por su parte, aplica esta forma de ʻpensar trinitariamenteʼ
al ámbito de la antropología y de los sacramentos, particularmente del
matrimonio. Afirma que la ontología trinitaria surge del legado de santo
Tomás de Aquino, cuya concepción del esse como actus essendi está abierta a
nuevos desarrollos, sobre el trasfondo del Amor como apriori absoluto de
todo conocimiento humano.14 En efecto, en la perspectiva tomista, el amor
es el horizonte último del ser, ya que el ser procede de la «libre
comunicación creadora de la Bondad divina».15
Considera que «el sentido último de la existencia humana se revela sobre
un fondo de amor trinitario, concebido no sólo como el ʻbonum diffusivum suiʼ
de los filósofos, sino también como un intercambio de amor entre las
personas divinas».16 Tras estudiar a fondo el pensamiento de Juan Pablo II,
el teólogo canadiense advierte la importancia de profundizar en la analogía
familiar de la Trinidad y postula la conveniencia de desarrollar una
antropología trinitaria de la familia que funde la comunión de personas en
la communio Trinitatis: «partiendo de la asunción del amor humano en el
amor divino in Christo (GS 48b), se da una auténtica participación
“esponsal” del amor humano en el Amor divino».17
En efecto Juan Pablo II ha sido uno de los primeros en desarrollar una
reflexión antropológica sólida sobre la diferencia sexual, afirmando que en
la masculinidad y en la feminidad está contenida la imagen de Dios, y que
esta imagen llega a su plenitud en la communio personarum propia de la
«unidad de los dos».
En su homilía en Puebla de los Ángeles, durante el primer viaje
apostólico a México para encontrarse con el Consejo Episcopal Latino
Americano (CELAM), Juan Pablo II afirma que Dios es, en su misterio
íntimo, una familia: «se ha dicho, en forma bella y profunda, que nuestro
Dios en su misterio más íntimo, no es una soledad, sino una familia, puesto
que lleva en sí mismo paternidad, filiación y la esencia de la familia que es el
amor. Este amor, en la familia divina, es el Espíritu Santo».18
De esta manera, sostiene que la diferencia sexual tiene un fundamento
trinitario y establece una analogía entre la Santísima Trinidad y la familia.
Según Angelo Scola, las enseñanzas del Papa sobre este tema contienen «un
novum en el Magisterio de la Iglesia con el que se relaciona, al mismo
tiempo, en perfecta continuidad».19 En efecto, el Papa polaco ha
ʻoficializadoʼ la analogía familiar20 y, desde su Pontificado, se ha desplegado
una sólida profundización teológica sobre la relación entre la Trinidad y la
familia desde diversos enfoques, con autores contemporáneos como Coda,
Greshacke, Scola, Mazzanti, Ouellet, Rochetta.21
II. GÉNESIS DE LA NOCIÓN «UNIDAD DE LOS DOS» EN EL
ITINERARIOINTELECTUAL DE KAROL WOJTYLA
Giovanni Reale considera que Wojtyla ha sido uno de los pocos hombres
capaces de caminar al mismo tiempo por los tres caminos que llevan a la
verdad: el arte, la filosofía y la religión.22 Por ello, la génesis de la noción
«unidad de los dos», se aprecia mejor si se tiene en cuenta su origen y
desarrollo interdisciplinar. En efecto, antes de ser tematizada
teológicamente, el problema de la «unidad de los dos» aparece en escritos
de mística, poesía y filosofía.
La atracción por la mística carmelita explica que el autor, en el momento
de estudiar un doctorado en teología, escogiera como tema el acto de fe
según san Juan de la Cruz.23 En este escrito, el primero de su producción
teológica, se evidencia ya el problema del tipo de unidad que es fruto del
amor. La disertación se interesa por la intencionalidad propia del acto de fe,
quiere estudiar cómo es posible que el hombre y Dios formen una unidad y
qué tipo de unidad es esta. Por ello, de la fe se subraya y enfatiza su aspecto
unitivo, es decir, relacional. La fe como hábito intelectual que, infundido por
Dios, perfecciona el entendimiento, no es suficiente para explicar la unión
con Dios, que se da en el nivel del ser personal. El acto de fe no es
individual, ni mucho menos individualista, porque la fe es siempre un
encuentro personal.
Karol Wojtyla todavía no ha desarrollado su moderna y original
antropología, pero advierte ya que la explicación hilemórfica del hombre no
deja del todo espacio para la comprensión de la fe, entendida como unión
amorosa. Mientras que el acto de fe, como se había explicado
tradicionalmente, produce una impresión intencional imperfecta de la
Divinidad en el intelecto, el amor permite la unión con la misma Divinidad.
Por ello la fe, para el fraile de Fontiveros y para Wojtyla es «el medio
propio para la unión del alma con Dios», «el único medio proporcionado a
la unión viva con Dios».24
Sus investigaciones acerca del tipo de unión entre Dios y el alma, el
Amante y el Amado que produce el acto de fe, y su resistencia a referirse a
Dios como ʻobjetoʼ, reflejan hasta qué punto el problema de la «unidad de
los dos» se remonta lejos.25 La «unidad de los dos» no tiene que ver con la
unidad entre el sujeto y el objeto, sino con la unidad de dos sujetos. El amor
produce una unión viva y transformante, una unidad que es una forma de
mutua inhabitación, un vivir y permanecer en la otra persona.
El tema de la mutua inhabitación aparece también con nitidez en sus
poesías y obras de teatro. Gracias a la fina sensibilidad artística que
desarrolló, en tanto que poeta y autor de dramas, el autor fue capaz de
asomarse a las emociones profundas de los personajes e interpretar sus
experiencias subjetivas. Los personajes de sus dramas permiten vislumbrar
el tipo de «unidad de los dos» que es fruto de la comunión de personas y
que se entiende mejor desde el tipo de unidad las personas divinas en la
Trinidad.
En su principal obra de teatro, El taller del orfebre, afirma que los cónyuges
son «nuevas personas – Teresa y Andrés – hasta ahora dos y todavía no uno,
desde ahora uno, aunque todavía dos».26 «Que una persona viva en la otra,
es el amor».27 Se refiere también a dos cónyuges que ya no se aman: Ana
constata que «Esteban de pronto dejó de estar dentro de mí».28 Se
pregunta... «¿También había dejado yo de estar dentro de él?»29 y exclama
«¡Qué extraña me sentía al principio en lo hondo de mí misma! Como si me
hubiera ya desacostumbrado a las paredes de mi interior, tan llenas habían
estado de Esteban, que sin él me parecían vacías».30 Una vez constituida la
«unidad de los dos», si falta el ʻtúʼ, también queda alterado el ʻyoʼ, porque
dicha relación es constitutiva y no accidental.
En el drama Esplendor de paternidad, queda claro que la «unidad de los dos»
no sólo tiene lugar en la comunión conyugal, porque también la paternidad,
la maternidad y la filiación realizan de alguna manera esta unidad.
Meditando en la paternidad, Adán se pregunta si «pueden dos seres
encontrarse, abrazarse y después quedar el uno fuera del otro».31 Aprende
«poco a poco lo que significa ser padre: es el más poderoso vínculo del
mundo».32 La paternidad no es sólo un vínculo que lo une con la hija, sino
también con la madre y consigo mismo: «quedo ligado a mismo».33 Una
vez más, establecida una relación constitutiva, el ʻtúʼ llega a modificar la
autoconciencia y la identidad misma del ʻyoʼ.
Este tipo de «unidad de los dos», experimentada primero religiosamente
y descrita con la sensibilidad de un místico y de un poeta, busca también su
explicación con la razón del filósofo. En Amor y Responsabilidad acomete un
análisis metafísico del amor en el que afirma que su naturaleza no es
unilateral, sino bilateral. «Su ser, en su plenitud, no es individual, sino
interpersonal».34 ¿Qué significado puede tener afirmar que el ser propio del
amor sea interpersonal? Parece que es necesario entender el ser como don y
la subsistencia personal como relación. Si el amor es mutuo, ʻuneʼ, ʻataʼ, no
es de uno ni de otra, sino que es un amor ʻentreʼ los dos. El amor es «un
todo objetivo, en cierto modo un solo ser en el que dos personas están
internadas, o mejor dicho, integradas».35 Por ello, «un amor recíproco crea
la base más inmediata a partir de la cual un único “nosotros” nace de dos
“yoes”».36
El problema de la «unidad de los dos» es que podría comprenderse dicha
unidad ʻa costa deʼ los dos.37 ¿Cómo se debe entender el ʻnosotrosʼ? ¿Es una
especie de fusión de los dos ʻyoesʼ? Tal posibilidad parecería ir contra el
misterio insondable de la unicidad e irrepetibilidad de cada persona. Por
ello, Wojtyla indaga si es posible una compenetración mutua que no
despersonalice a ninguno, un tipo de «unidad de los dos» que lleve a
plenitud a cada uno, un conocimiento mutuo en el que el ʻtúʼ no sea objeto,
sino sujeto. Como se puede apreciar, está ante el mismo problema que
afrontó al analizar el acto de fe en san Juan de la Cruz.
Existe un debate sobre la interpretación del siguiente pasaje de Amor y
Responsabilidad, muy iluminador para este tema: «el amor arranca de algún
modo a la persona de esa [...] incomunicabilidad [...] Quiere (ella) de algún
modo dejar de ser su propia indisoluble propiedad».38 La dificultad surge al
considerar que, si la persona es sui iuris et alteri incommunicabilis, no es posible
entregarse a otra persona de este modo, sino sólo a Dios, de quien procede.
En tal debate Wojtyla explica que, «dado que el hombre es una persona, o
sea, un ser que se posee a mismo y que se gobierna por mismo, resulta
que puede “entregarse”, que puede hacerse don para los demás sin rehusar
por ello a su preciso estatuto ontológico. El derecho a la entrega está inscrito
de algún modo en el mismo ser de la persona».39
Encuentra este pensamiento expresado en Gaudium et Spes 24: «Dios ha
querido al hombre “por mismo”, y al mismo tiempo, el hombre se realiza
en la donación “de mismo”. Y concluye «precisamente la capacidad para
entregarse se enraíza en la incomunicabilidad ontológica. Sólo y
precisamente puede entregarse, es decir, hacerse don, un ser que se posee
a mismo».40 Esta entrega adquiere un significado moral porque «el
hombre no es tan sólo un ser replegado sobre mismo “la única criatura
en esta tierra que Dios ha querido por misma” sino que es a la vez un
ser capaz de darse».41 Ello «no supone ciertamente una disminución del
estatuto ontológico de la persona, no es ni puede ser un obstáculo para su
esencial autoposesión y autodominio. Es, en cambio, una particular
confirmación de este estatuto [...] Mediante la entrega de misma en
sentido moral, la persona no sólo no pierde nada, sino que se enriquece».42
Por todo ello, la «unidad de los dos» respeta la subjetividad de las partes.
La principal obra filosófica de Wojtyla, Persona y Acción, no entra de lleno
en este problema, ya que la intención del autor es más bien ahondar en la
estructura interior de la persona, partiendo del análisis de la acción y
estudiando el doble movimiento de integración y trascendencia de la
persona. La última parte, dedicada a lo que denomina ʻparticipaciónʼ, tiene
como punto de partida la experiencia de que «las acciones las realizan unos
hombres “junto con otros” hombres».43 Según afirma, «cada uno debe
alcanzar una participación tal que le permita realizar el valor personalista
de su propia acción al actuar “junto con otros”».44
Tal y como pone de manifiesto Buttiglione, la explicación wojtylia na de
la participación «presupone una antropología mediante la que el hombre se
realiza en comunión con otros hombres y sin separarse de ellos, y en la que,
por consiguiente, la comunidad debe ser una dimensión constitutiva de la
realización de sí mismo como persona».45
Sin embargo, con todo y considerar la comunidad como una dimensión
constitutiva de la persona que actúa, la reflexión acerca de la «unidad de los
dos» parece que queda entre paréntesis en la principal obra filosófica del
autor. Este es el principal motivo para que muchos estudiosos lo excluyan de
los autores personalistas dialógicos.46
Si bien existe cierto desarrollo en algunos ensayos filosóficos posteriores,47
será necesario esperar a la Teología del cuerpo para encontrar una
profundización filosófica y teológica de esta noción. En efecto, en las citadas
audiencias generales da un paso más y afirma que el hombre realiza su
esencia existiendo «“con alguno”, y todavía más profunda y más
completamente: existiendo “para alguno”».48
En el relato bíblico de la creación de Adán y Eva, según Wojtyla, de la
constatación del «hecho mismo de existir como persona “junto a” una
persona»,49 se desprende eo ipso el deber de la «existencia de la persona
“para” la persona».50 El paso de la preposición ʻconʼ a la preposición ʻparaʼ
tiene origen bíblico y ricos ecos filosóficos. Es posible apreciar cómo el autor
conoce el planteamiento heideggeriano del ʻser-conʼ y la visión de Levinas
del ʻser-paraʼ y, al mismo tiempo, da un paso más con respecto a la noción
de ʻparticipaciónʼ que ha desarrollado en Persona y Acción, porque el hombre
no sólo ʻexiste conʼ, sino que ʻexiste paraʼ, de lo que se deriva que no sólo
ʻactúa conʼ, sino ʻactúa paraʼ.
Por ello, si se quiere conocer el pensamiento del autor, que permanece
abierto y sigue evolucionando, no es posible detenerse en su elección al
Pontificado.51 De hecho, en el prólogo de la primera edición polaca de
Persona y Acción anunció que quisiera algún día estudiar al hombre no sólo
desde la filosofía, sino partiendo de la Revelación, mostrando así su interés
por escribir un tratado de antropología teológica.52 Ese tratado es
precisamente la Teología del cuerpo, escrita antes de octubre de 1978, cuyo
borrador en polaco consta que fue posteriormente dividido y se convirtió en
las audiencias generales que pronunció entre el 5 de septiembre de 1979 y el
28 de noviembre de 1984.53
III. DESARROLLO DE LA NOCIÓN EN EL PONTIFICADO
Existe una dificultad evidente al usar como fuentes los escritos de Juan
Pablo II a partir de 1978, ya que, en cuanto Papa, era muy consciente de
que el Magisterio autorizado de la Iglesia no se debe confundir con las
opiniones teológicas del Obispo de Roma. Por ello no siempre es posible
encontrar el pensamiento original del autor en los textos magisteriales,
aunque parece posible advertir cuáles proceden indudablemente de su
propia pluma, ya que siguen su forma particular de razonar y exponer sus
enseñanzas, además de que están escritos originalmente en polaco. Por ello,
no se puede dudar que la Teología del cuerpo es una obra original e importante
en el itinerario intelectual del autor, en la que desarrolla y lleva a plenitud su
pensamiento ético y antropológico, consintiendo a la fe abrir nuevos
horizontes y perspectivas insospechadas a la razón.54 En estas catequesis
despliega sus dotes de teólogo, filósofo, místico y poeta, de manera que
guarda estrecha relación con el resto de sus obras y no se entiende sin ellas.
Juan Pablo II tuvo la audacia de afirmar que, en la experiencia original
de la soledad, el hombre no realiza plenamente la imagen de Dios. El relato
sacerdotal de Génesis 1 menciona que fueron creados como varón y mujer a
imagen de Dios, mientras que el relato yahvista de Génesis 2 explica que el
varón y la mujer forman una comunión de personas. Al comparar los
contenidos de ambos relatos, se entreuna relación significativa entre la
imagen de Dios (Gn 1) y la comunión de las personas (Gn 2): «El hombre ha
llegado a ser “imagen y semejanza” de Dios no solamente a través de la
propia humanidad, sino también a través de la comunión de las personas».55
De aquí se desprende la conclusión de que «el hombre se convierte en
imagen de Dios no tanto en el momento de la soledad, cuanto en el
momento de la comunión.56 Aquí se aprecia hasta qué punto la
relacionalidad es constitutiva de la persona.
El autor no está de acuerdo con numerosos autores de la modernidad,
desde Hobbes hasta Sartre, pasando por Hegel y Marx, que fo calizan la
inter-subjetividad en clave de alienación, lucha o dialéctica. Más bien,
remontándose a la antropología del Génesis, constata que el conflicto surge
como un rechazo de la unidad original, como fruto y consecuencia del
pecado. En las palabras de admiración y estupor que pronuncia Adán no
hay lugar para el conflicto. La experiencia de Caín y Abel es secundaria, no
original, por lo que aparece después de la infidelidad del hombre al designio
de Dios. Por ello, la unidad originaria descrita en estas audiencias generales
conduce a la communio personarum como fruto de la lógica del don,
descubierta gracias a la diferencia sexual entre Adán y Eva.57
La afirmación de que «no es bueno que el hombre esté sólo» (Gn 2,18)
conduce a Juan Pablo II a la conclusión de que ʻpor soloʼ el hombre no
realiza totalmente la esencia de su humanidad porque el hombre, varón y
mujer, necesita de una «ayuda que le fuera similar» (Gn 2,20).58 La
antropología del Génesis no pone como modelo la unidad del uno,
entendido como individuo, sino la «unidad de los dos».
Se aprecia el nexo entre la relacionalidad constitutiva y la diferencia
sexual, porque según Juan Pablo II la «“definitiva” creación del hombre
consiste en la creación de la unidad de dos seres».59 La base de la
antropología teológica es el misterio de la creación del hombre como varón
y mujer, que se expresa en las palabras llenas de estupor del Adán solitario
cuando ve a Eva por primera vez: «hueso de mis huesos y carne de mi
carne» (Gn 2,23).60 La «unidad de los dos» no sólo habla de la
relacionalidad constitutiva de las personas, sino que incluye la diferencia
sexual como un componente necesario. El autor explicará esta profunda
verdad en su Meditación sobre el don:
Dios contempla al hombre y a la mujer en toda la verdad de su humanidad. En esa verdad Él
mismo encuentra la complacencia creadora y paternal. Y esa complacencia desinteresada la
inserta en su corazón. Los hace capaces de mutua complacencia: la mujer aparece ante los ojos
del hombre como una síntesis singular de la belleza de toda la creación y él aparece de manera
similar ante los ojos de ella. Que estén desnudos no es en ningún caso motivo de vergüenza […]
Ese amor les permite con toda sencillez e inocencia estar los dos juntos y alegrarse de mismos
mutuamente como un don, les permite sentir que han sido obsequiados con su humanidad, que
para siempre ha de conservar esa doble forma de masculinidad y feminidad.61
Por ello afirma que «la búsqueda de la identidad humana de aquel que
desde el comienzo está “solo”, debe pasar siempre a través de la dualidad,
de la “comunión”».62 Antes de tener delante a Eva, Adán sabía que no era
uno más de los animalia, pero no sabía exactamente quién era, porque no
tenía la autoconciencia de don mediada por su cuerpo masculino. Al
conocer a Eva como a otro ʻsujetoʼ, se modifica la autopercepción del sujeto-
Adán, porque deja de ser el centro del mundo del que apropiarse, y se
autoexperimenta como persona, llamado al encuentro y a la comunión.
La diferencia varón-mujer es vehículo de dicha autoconciencia. Si en
lugar de crear a Eva, Yahvé hubiera creado otro varón, Adán no se habría
autoexperimentado como persona-don, porque es la experiencia de la
masculinidad y la feminidad ʻfrente a frenteʼ la que revela el carácter donal
del cuerpo. Un mundo en el que sólo hubiera varones o en el que sólo
hubiera mujeres, carecería de la experiencia del don. En efecto, el autor de
Gn 2,23 no se refiere a una duplicidad cualquiera, sino a la dualidad
originaria entre la masculinidad y la feminidad, que según Wojtyla son «dos
modos de “ser cuerpo”, y a la vez hombre, que se completan
recíprocamente».63
Gn 2,24, por su parte, anuncia que esta dualidad se resuelve en una
unidad ulterior, porque «los dos serán una sola carne», presentando un tipo
de unidad que Juan Pablo II denomina «unidad de los dos». En el origen de
la creación está la unidad de dos seres, unidad posible porque poseen una
naturaleza idéntica, y al mismo tiempo son diferentes, uno es masculino y
otro es femenino.
Según relata el Génesis, la experiencia del cuerpo es inseparable de la
experiencia positiva de la propia identidad sexuada: el cuerpo en el que el
hombre toma conciencia de sí, es siempre y solo masculino o femenino. En
su proceso de autodefinición, el hombre no solo mira a la naturaleza, sino
que se abre a la persona, al ʻsegundo yoʼ: el varón para la mujer, la mujer
para el varón. La «unidad de los dos» tiene que ver con la imagen que Dios
ha puesto en cada uno, en la masculinidad del varón y en la feminidad de la
mujer.64
Analizando Efesios, el Pontífice subraya que quien ama a su mujer se
ama a mismo (Cfr. Ef 5,28), porque la mujer se convierte en parte de su
ʻyoʼ. «El amor hace del “yo” del otro, el propio “yo”».65 Lo asimila a sí, lo
convierte en parte de sí. Ya no son dos, sino uno. Continúa así con las
reflexiones que inició en Amor y Responsabilidad, y enseña que la unidad, fruto
del amor, hace que el ʻotroʼ ya no sea ʻotroʼ, sino que sea parte de mi propio
ʻyoʼ. Según Juan Pablo II, en la «unidad de los dos», el ʻtúʼ (el ʻydel otro)
pasa a ser mi ʻyoʼ. «El “yo” de la mujer, se diría, se convierte por amor en el
“yo” del marido».66 La «unidad de los dos» consiste en que ambos formarán
una sola carne, sin dejar de ser dos sujetos. Esto sólo se puede comprender
desde el misterio de la unidad de las tres personas divinas en el seno de la
Trinidad. La unidad que forman es intencional: «se trata de una unidad
moral, no ontológica, es la unidad que produce el amor».67
Para comprender el misterio de la communio personarum que se da entre las
personas históricas, Juan Pablo II invita a mirar el misterio de la comunión
de las personas divinas en el seno de la Trinidad. Aquí se aprecia con
nitidez la utilidad de una antropología que piensa ʻtrinitariamenteʼ.
Encuentra el fundamento para hacerlo en la lectura de Gaudium et Spes 24,
ya que considera que «el análisis estrictamente teológico del libro del
Génesis, en particular Gn 2, 23-25, nos permite referirnos a este texto
conciliar».68 Establece así un paralelismo entre la unión de las personas
divinas, a la que se refiere el texto conciliar, y la unión de los hijos de Dios,
expresada por Adán en los términos semitas «carne de mi carne y hueso de
mis huesos» (Gn 2,23).69
Juan Pablo II considera que es posible vislumbrar el significado de la
communio personarum de Adán y Eva si se tiene en cuenta la comunión entre
las personas divinas, expresada con particular intensidad en algunos
versículos joánicos: «Mi alimento es hacer la voluntad del que me ha
enviado y llevar a cabo su obra» (Jn 4,34); «tú siempre me escuchas» (Jn
11,42); «todo lo mío es tuyo y todo lo tuyo es mío» (Jn 17,10); «Como tú,
Padre, en y yo en ti, que ellos también sean uno» (Jn 17,21). El amor
intratrinitario consiste en el don gratuito y recíproco de las personas divinas,
al igual que el amor esponsal consiste en un intercambio gratuito y
recíproco.70
Tras este examen sumario de la «unidad de los dos» en la Teología del
cuerpo, es significativo apreciar el amplio uso que se hace de esta expresión
en los documentos magisteriales posteriores que tratan acerca de temas
antropológicos: Juan Pablo II utiliza esta expresión 17 veces en Mulieris
Dignitatem;71 dos veces en la Carta a las mujeres 8, una vez en Christifideles laici
52, le dedica un párrafo en la Carta a las familias 8, en la que se refiere a la
ʻdualidad originariaʼ del hombre, creado desde el principio como varón y
mujer.72
En la Carta a las mujeres (1995) se refiere a la «unidad de los dos» como
una ʻunidualidadʼ. Hablando del varón y de la mujer, señala que «su
relación más natural, de acuerdo con el designio de Dios, es la “unidad de
los dos”, o sea una “unidualidad” relacional, que permite a cada uno sentir
la relación interpersonal y recíproca como un don enriquecedor y
responsabilizante».73
La Congregación para la Doctrina de la Fe publicó en 2004 un
documento sobre la colaboración del varón y la mujer elaborando una síntesis de la
antropología del Génesis que el Pontífice ha desarrollado a lo largo de su
Magisterio y explicando el significado y alcance de la expresión «unidad de
los dos»,74 hasta entonces desconocida en el Magisterio, y que supone
todavía hoy un desafío para la antropología y para la metafísica.
IV. RELEVANCIA DE LA «UNIDAD DE LOS DOS» PARA LA ANTROPOLOGÍA
La noción de «unidad de los dos» que se ha ilustrado presenta el reto de
repensar la relación entre la metafísica clásica y los temas antropológicos.
Considerar que el modelo de la unidad debe buscarse en la unidad de la
Trinidad, fruto de la comunión de las personas divinas, mueve el ʻtablero
metafísicoʼ, porque saltan las categorías que proceden del orden
cosmológico. La «unidad de los dos» requiere de una fundamentación
filosófica capaz de conjugar adecuadamente lo uno y lo múltiple, unidad y
diferencia, persona y relación. El mismo Ratzinger sostiene que la
Revelación de Dios uno y trino hace trascender las categorías existentes
sobre lo uno y lo múltiple: «La fe trinitaria, que admite lo plural en la
unidad de Dios, es fundamentalmente la exclusión definitiva del dualismo
como principio de explicación de la multiplicidad junto a la unidad. Sólo así
se consolida para siempre la valoración positiva de lo múltiple».75¿Qué
consecuencias tiene para la antropología filosófica y teológica la
introducción de este tipo de unidad que es fruto del amor? ¿Es posible
pensar radicalmente desde el «misterio de la santísima Trinidad, manantial
mismo del ser y, por tanto, eje último de la antropología»?.76
Remitir a la Trinidad como manantial del ser y eje último de la
antropología pone a la Trinidad como principio y fundamento de todo lo
que existe y como fin último y cumplimiento definitivo del cosmos y del
hombre. Yahvé, que se autorrevela a Moisés en la zarza ardiente con la
expresión enigmática «yo soy el que soy» (Ex 3,14), es al mismo tiempo el
Dios uno y trino que, según san Juan, es Amor: «Dios es amor. En esto se
manifestó el amor que Dios nos tiene; en que Dios envió al mundo a su Hijo
único para que vivamos por medio de él» (1Jn 4,9). Si el Ser y el Amor
coinciden en la Trinidad, metafísica y antropología se pueden remontar a lo
que Hemmerle denomina ʻontología trinitariaʼ. De ahí la relevancia de la
noción antropológica de origen bíblico «unidad de los dos», que remite a la
unidad de las personas divinas en el seno de la Trinidad, conforme a la
invitación del Vaticano II presente en Gaudium et Spes 24.
Según Giovanni Reale, existen tres formas de metafísica, la así llamada
henológica o ʻmetafísica del unoʼ, propia de los presocráticos, de Platón y de
las diversas escuelas neoplatónicas que tuvo gran aceptación entre los
Padres de la Iglesia; la ontológica o ʻmetafísica del serʼ, fundada por
Parménides, desarrollada también por Platón, pero codificada por la
Metafísica de Aristóteles, que absorbe la problemática del uno en la del ser y
que se convirtió en la visión preeminente entre la Escolástica; y la metafísica
de la persona, que es una tercera forma de metafísica, nacida en el ámbito
del pensamiento cristiano, presente ya en Agustín y en Tomás, pero
expuesta de manera emblemática por Karol Wojtyla. Sin entrar al
interesante debate sobre si la antropología ha de ser ciencia primera
respecto a la metafísica,77 es importante subrayar que en la ʻmetafísica de la
personaʼ como la concibe Reale, son centrales las nociones de ʻdonʼ, ʻamorʼ,
ʻcomuniónʼ, que solo es posible explicar desde la «unidad de los dos» y que
halla su fundamento último en la revelación de Dios uno y trino.
¿Por qué afirma Reale que esta ʻmetafísica de la personaʼ está ya presente
en Tomás? Según algunos estudiosos, el Papa polaco posee una visión
dinámica del ʻser personalʼ que se puede inspirar en el actus essendi de Tomás
de Aquino. Afirma Buttiglione que «la concepción del acto de ser que es
utilizada hace pensar en las interpretaciones más modernas del
pensamiento de santo Tomás, como, por ejemplo, las de Gilson o las de
Fabro, y, sobre todo, la de Joseph de Finance».78 Existe una referencia a ello
en la Teología del cuerpo que parece confirmar esta hipótesis, cuando aparece
a pie de página una cita de Etienne Gilson en la que explica que la novedad
tomista de la distinción entre esencia y acto de ser (essentia - esse ut actus) tiene
orígenes platónicos que influyeron en san Agustín, y a través de él en san
Anselmo, y llegó a autores del Medioevo como Ricardo de San Víctor,
Alejandro de Hales y san Buenaventura.79
Aunque santo Tomás se basó en gran medida en la filosofía de Aristóteles
y fue influenciado por sus ideas, introdujo importantes desarrollos y
novedades en su pensamiento, principalmente a través de la noción del actus
essendi. En la filosofía de Aristóteles, la noción central es el concepto de ʻactoʼ
(energeia) y ʻpotenciaʼ (dynamis). Según el Estagirita, las cosas tienen la
potencialidad para desarrollar ciertas características o adquirir ciertos
estados, y alcanzan su pleno ʻactoʼ cuando se actualizan esas
potencialidades. Tomás de Aquino adoptó esta distinción aristotélica entre
acto y potencia, pero introdujo una nueva perspectiva en la que destacó el
ʻacto de serʼ como un aspecto esencial de la realidad.
Para santo Tomás, el actus essendi (acto de ser) es el fundamento ontológico
de todo ser y existencia, de manera que todo ente, incluidas las cosas
creadas y los seres humanos, recibe su existencia y naturaleza del acto de ser
que es impartido por Dios, quien es el Ser subsistente por excelencia.80 Esta
interpretación permitió a santo Tomás explicar la relación entre Dios como
el Ser necesario y todas las cosas creadas como seres contingentes y
dependientes. En lugar de entender el ser simplemente como una
realización de potencialidades, santo Tomás enfatizó la necesidad de un Ser
Subsistente e Infinito como la fuente y causa del ser de todas las cosas.
Según Ouellet, «en la perspectiva del Aquinate, el Amor, aunque haya
permanecido poco tematizado, constituye el horizonte último del ser, puesto
que el esse procede de la libre comunicación creadora de la Bondad
divina».81
La publicación de Aeterni Patris por León XIII en 1879 provocó un
despertar de los estudios tomistas y sirvió para que autores como Étienne
Gilson (1884-1978), Cornelio Fabro (1911-1995) y Joseph de Finance (1904-
2000) indagaran en las raíces del tomismo y, más concretamente, en la
metafísica del actus essendi, cuyas consecuencias para la antropología no se
habían estudiado a fondo. Entre otras importantes perspectivas, es útil
señalar que desde esta visión se subraya mejor la dignidad y unicidad de
cada ser humano como un ser único e irrepetible, cuyo origen trasciende el
ámbito material; se reconoce la dimensión trascendente del ser humano,
porque el acto de ser de cada persona es de naturaleza espiritual y
trasciende el mundo material; se otorga un papel central a la libertad, ya
que el ser humano es responsable de su propia existencia y es libre para
desarrollar sus potencialidades; se incluye necesariamente la dimensión
relacional ya que el ʻser personalʼ es un ʻser abiertoʼ, un ʻser para la
comuniónʼ, fruto del don y del amor.
Por todo ello, es fácil advertir que el personalismo wojtyliano se
fundamenta en una concepción del ʻser personalʼ conforme con las
enseñanzas tomistas del esse ut actus, redescubiertas en el siglo veinte. Afirma
Clarke que el ser en el Aquinate es intrínsecamente activo y auto-
comunicante y considera que es mérito de Etienne Gilson haber redescu
bierto la centralidad y el dinamismo del acto de ser.82 La interpretación de
Clarke sobre la noción tomista de persona está en la misma línea de la
«unidad de los dos» desarrollada por Wojtyla en la Teología del cuerpo:
Ser persona, pues, es ser un ser bipolar que está a la vez presente en mismo, poseyéndose
activamente por su autoconciencia (su polo sustancial), y también orientado activamente hacia
los demás, hacia la autocomunicación amorosa activa a los demás (su polo relacional). Ser una
persona auténtica, en una palabra, es ser un amante, vivir una vida de dar y aceptar
interpersonal. El término persona es esencialmente un ʻnosotrosʼ. La persona sólo existe en su
plenitud en el plural.83
La antropología de los griegos perseguía el ideal de la unidad entendida
como monon y corría el peligro de conducir a una visión individualista de la
persona. El uso de la analogía psicológica para comprender la imagen de
Dios en el hombre, defendida por san Agustín y por casi toda la Tradición,
sirvió para confirmar esta visión.84 En cambio, según la lectura que hace
Juan Pablo II, la antropología del Génesis presenta el ideal de una unidad
diferente, la unidad que es fruto del amor y que por ello exige un ʻtúʼ a
quien donarse. Se puede afirmar por ello que, en algunos temas, el
pensamiento cristiano ha bebido más de la filosofía griega que de la
antropología bíblica, porque lo original según el Génesis, es la «unidad de
los dos», la díada y no la mónada.
A la luz de todo lo que se ha expuesto hasta ahora, parece posible afirmar
que la noción de la «unidad de los dos», revela que la relacionalidad es
constitutiva de la persona, llamada al don de por medio de la communio
personarum, a semejanza de la unidad de las personas divinas en el seno de la
Trinidad. Y la «unidad de los dos» enseña también que dicha comunión es
posible porque el varón y la mujer son iguales y diferentes, homogéneos en
su humanidad y complementarios en su masculinidad y feminidad. La
comunión de personas es la vocación de toda persona creada a imagen de
Dios uno y trino. Se da de manera arquetípica y paradigmática en el
matrimonio, pero la comunión de personas es más amplia que el
matrimonio. Se puede afirmar que es la tarea de la humanidad, la tarea de
cada varón y mujer para trascenderse y realizarse, la forma propia de ser y
existir como personas. En última instancia, es la norma inalienable para la
comprensión del hombre, varón y mujer, que es y existe como unidad de los
dos, unidad en la diferencia, comunión de personas. La ʻunidualidadʼ, en
efecto, es la «unidad de los dos» que es fruto del don recíproco.
Este es el motivo por el que el Papa invitó de manera explícita a los
teólogos del Instituto pontificio para estudios sobre el matrimonio y la familia a
proseguir la labor de profundizar en el fundamento trinitario de la
diferencia sexual, ya que «a la luz del misterio de la Trinidad, la diferencia
sexual revela su naturaleza plena de signo expresivo de toda la persona».85
Profundizar en los fundamentos trinitarios y antropológicos de la condición
del varón y de la mujer es, sin duda, uno de los mayores cometidos de la
teología en el momento actual.
1 Se conoce como Teología del cuerpo al conjunto de 133 audiencias generales pronunciadas por el Papa
Juan Pablo II entre 1979 y 1984 sobre el amor humano y publicadas en el volumen: JUAN PABLO II,
Hombre y mujer los creó: el amor humano en el plano divino, Ediciones Cristiandad, Madrid 20174. Se citará
esta obra haciendo referencia al número de la audiencia según esta edición, la fecha en que fue
pronunciada entre paréntesis, seguida del párrafo. En cuanto a la expresión «unidad de los dos» ver
Audiencia General, 13-I-1982, n. 69, 4 (tres veces); Audiencia General, 31-III-1982, n. 76, 6.
2 Cfr. S. KAMPOWSKI, Persona, unità dei due, en J. NORIEGA, R. ECOCHARD, I. ECOCHARD (a cura di),
Dizionario su sesso, amore e fecondità, Cantagalli, Siena 2019, 718-727. Existe traducción al español: S.
KAMPOWSKI, Persona, unidad de los dos, en J. NORIEGA, R. ECOCHARD, I. ECOCHARD (eds.), Diccionario de
sexo, amor y fecundidad, Didaskalos, Madrid 2022, 734-744.
3 Cfr. Audiencia General, 14-XI-1979, n. 9, 2. Según un documento del Magisterio previo a la elección
de Juan Pablo II como Pontífice, la diversidad sexual humana «determina la identidad propia de la
persona», y la distinción entre el varón y la mujer «se ordena no sólo a la generación sino a la
comunión de personas»: CONGREGACIÓN PARA LA DOCTRINA DE LA FE, Declaración Inter insigniores sobre
Misión de la mujer en la Iglesia, 15-X-1976, BAC, Madrid 1978, 53.
4 La expresión “ontología trinitaria” fue introducida con la publicación de K. HEMMERLE, Thesen zu
einer trinitarischen Ontologie, Johannes Verlag, Einsiedeln-Freiburg 1976. Traducción al español: IDEM,
Tras las huellas de Dios. Ontología trinitaria y unidad relacional, Sígueme, Salamanca 2005. Ver también P.
CODA, L’ontologia trinitaria: che cos’è?, «Sophia» IV/2 (2012) 159-170.
5 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, Verdad de Dios, II, Encuentro, Madrid 1997 («Teológica»), 39; B.R. BERG,
Balthasar y la sexualidad, en Diccionario de sexo, amor y fecundidad, Didaskalos, Madrid 2022, 65-67; A.
MELONI, L’analogia familiare della Trinità: il contesto, la storia, un bilancio, Cittadella, Assisi 2019, 309-315.
6 VON BALTHASAR, Verdad de Dios, 60-62.
7 Ibidem, 63.
8 Ibidem.
9 HEMMERLE, Ontología trinitaria, 50.
10 Ibidem, 67.
11 J.I. RUIZ ALDAZ, Recensión a KLAUS HEMMERLE, Tras las huellas de Dios. Ontología trinitaria y unidad
relacional, «Scripta Theologica» 39/1 (2007) 247.
12 CODA, L’ontologia trinitaria: che cos’è?, 168. Traducción propia.
13 Ibidem, 169.
14 Cfr. M. OUELLET, Mistero e sacramento dell’amore. Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova
evangelizzazione, Cantagalli, Siena 2007, 144.
15 Ibidem, 145.
16 IDEM, Divina somiglianza: antropologia trinitaria della famiglia, Lateran University Press, Roma 2004, 28.
Traducción propia.
17 IDEM, Mistero e sacramento dell’amore, 229.
18 JUAN PABLO II, Homilía en Puebla de los Ángeles, 28-I-1979, AAS 71 (1979) 182-186, 2. El papa
Francisco ha citado esta homilía en Amoris Laetitia, dándole un mayor valor magisterial y afirmando a
su vez que «el Dios Trinidad es comunión de amor, y la familia es su reflejo viviente» (FRANCISCO,
Exhortación apostólica post-sinodal Amoris Laetitia, sobre el amor en la familia, 19-III-2016, AAS 108 [2016]
311-446, 11).
19 Cfr. A. SCOLA, L’imago Dei e la sessualità umana. A proposito di una tesi originale della Mulieris
Dignitatem, «Anthropotes» 1 (1992) 61-75.
20 Según Meloni, «va notato che attraverso questo insegnamento Giovanni Paolo II ufficialità al
superamento del concetto agostiniano di imago Dei coincidente in via esclusiva con l’essere spirituale
del singolo uomo, per affermare che l’uomo e la donna sono immagine di Dio anche in quanto
chiamati a vivere la comunione inter-personale» (MELONI, L’analogia familiare della Trinità, 352).
Ouellet, por su parte, refiriéndose a Mulieris Dignitatem y la Carta a las familias, señala que «questi testi
ufficiali, interpretati sullo sfondo delle sue catechesi del mercoledì ai fedeli, ufficializzano, in un certo
senso, le conclusioni positive di vari teologi contemporanei circa l’analogia familiare della Trinità»
(OUELLET, Divina somiglianza, 47).
21 Cfr. MELONI, L’analogia familiare della Trinità, 320-349.
22 Cfr. G. REALE, Karol Wojtyla, pellegrino sulle tre vie che portano alla verità: arte, filosofia e religione, en K.
WOJTYLA, Metafisica della persona, Bompiani, Milano 2003, XIV.
23 K. WOJTYLA, La fe según san Juan de la Cruz, BAC, Madrid 1979.
24 Ibidem, 4-5.
25 El nexo entre la «unidad de los dos» y la teología del Doctor Místico es subrayado por Suramy:
«Cependant il est très probable que l’amour humain wojtylien soit issu de la théologie sanjuaniste. En
effet, elle est théologie du don, de l’union et de la transformation de l’âme en Dieu, à l’image du Don
et de l’Union des trois Personnes divines à laquelle l’âme participe de manière analogue» (A. SURAMY,
La voie de l’amour: une interprétation de Personne et acte de Karol Wojtyła, lecteur de Thomas d’Aquin, Cantagalli,
Siena 2014, 220).
26 K. WOJTYLA, El taller del orfebre: Meditación sobre el sacramento del matrimonio, expresada a veces en forma de
drama, BAC, Madrid 2005, 27.
27 Ibidem, 28.
28 Ibidem, 38.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 K. WOJTYLA, Hermano de Nuestro Dios; Esplendor de Paternidad: Dramas, BAC, Madrid 1990, 165.
32 Ibidem, 166.
33 Ibidem, 167.
34 K. WOJTYLA, Amor y responsabilidad, Palabra, Madrid 20136, 106.
35 Ibidem, 105.
36 Ibidem, 106.
37 Shivanandan plantea la dificultad en estos términos: «The question arises as to how personal
communication is possible for an incommunicable being» (M. SHIVANANDAN, Crossing the Threshold of
Love. A new vision of marriage in the light of John Paul II’s anthropology, The Catholic University of America
Press, Edinburgh 1999, 146).
38 WOJTYLA, Amor y responsabilidad, 154.
39 IDEM, Sobre el significado del amor conyugal (al margen de una discusión) (1974), en A. BURGOS (ed.), El
don del amor: Escritos sobre la familia, Palabra, Madrid 2000, 205-225, 206.
40 Ibidem.
41 Ibidem, 207.
42 Ibidem, 208.
43 IDEM, Persona y acción, Palabra, Madrid 2011, 376.
44 Ibidem, 390.
45 R. BUTTIGLIONE, El pensamiento de Karol Wojtyla, Encuentro, Madrid 1992, 200.
46 Cabe destacar que Wojtyla ha recibido dos críticas contrarias sobre este tema. Por una parte, es
acusado de ir demasiado lejos en la consideración de la relacionalidad como constitutiva de la
persona, dando más peso a la fenomenología que a la metafísica. Por otra parte, es acusado de no
haber incluido lo suficiente esta dimensión porque sus categorías filosóficas le ʻcortaron las alasʼ.
Juan Manuel Burgos constata la ausencia de la dimensión dialógica en los primeros escritos filosóficos
de Wojtyla y la atribuye a la falta de tiempo y de espacio y porque, en última instancia, el autor optó
por la prioridad metafísica de la persona sobre la praxis. En su opinión, esta laguna será colmada, al
menos en parte, con su trabajo La persona: sujeto y comunidad y sobre todo con la Teología del cuerpo,
«dedicado enteramente a la relación interpersonal por excelencia, la del hombre y la mujer» (J.M.
BURGOS, La antropología personalista de Persona y Acción, en IDEM [ed.], La filosofía personalista de Karol
Wojtyla, Palabra, Madrid 2007, 143). Ver también IDEM, El personalismo ontológico moderno II. Claves
antropológicas, «Quién» 2 (2015) 24-26.
Josep María Coll, por su parte, cree que «no se puede hablar en Wojtyla de una concepción
verdaderamente relacional de la persona humana, fundada en una metafísica del ser como amor, o
incluso como semejanza de Dios» y que, sus categorías filosóficas «le cortaron las alas para concebir y
formular adecuadamente el ser de la persona, es decir, el misterio de la comunión de Dios con los
hombres y de estos entre sí» (J.M. COLL, Karol Wojtyła, entre las filosofías de la persona y el personalismo
dialógico, en J.M. BURGOS [ed.], La filosofía personalista de Karol Wojtyla, Palabra, Madrid 20071, 220).
Este parecer puede ser consecuencia de considerar Persona y Acción aisladamente, sin tener presente el
desarrollo intelectual posterior.
47 Ver especialmente K. WOJTYLA, La familia como communio personarum. Ensayo de interpretación teológica
(1974 y 1975), en A. BURGOS (ed.), El don del amor: Escritos sobre la familia, Palabra, Madrid 2000, 227-
269; K. WOJTYLA, ¿Participación o alienación? (1975), en J.J. PÉREZ-SOBA DÍEZ DEL CORRAL (ed.), El
hombre y su destino: ensayos de antropología, Palabra, Madrid 1998, 111-131; K. WOJTYLA, La persona: sujeto
y comunidad (1976), en PÉREZ-SOBA DÍEZ DEL CORRAL (ed.), El hombre y su destino: ensayos de antropología,
41-71.
48 Audiencia General, 9-I-1980, n. 14, 2.
49 Audiencia General, 14-XI-1979, n. 9, 2.
50 Ibidem.
51 Merecki sostiene que «in un certo senso possiamo dire che tutto l’itinerario filosofico di Wojtyla,
prima della sua elezione al soglio di San Pietro, costituiva una preparazione alla teologia del corpo,
sviluppata da lui come Giovanni Paolo II» (J. MERECKI, Corpo e trascendenza: l’antropologia filosofica nella
teologia del corpo di Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena 2015, 5).
52 Cfr. ibidem.
53 Cfr. M. WALDSTEIN, Introduction, en JOHN PAUL II, Man and Woman He Created Them: A Theology of the
Body, Pauline Books & Media, Boston 2006, 1-128, 7.
54 Cfr. JUAN PABLO II, Carta encíclica Fides et Ratio, sobre las relaciones entre fe y razón, 14-IX-1998, AAS 91
(1999) 5-88, nn. 67, 73, 101.
55 Audiencia General, 14-XI-1979, n. 9, 3.
56 Ibidem.
57 Cfr. J. MERECKI, Persona e famiglia: l’eredità di San Giovanni Paolo II nel dibattito attuale, Cantagalli, Siena
2016, 20-23.
58 Cfr. Audiencia General, 9-I-1980, n. 14, 2.
59 Audiencia General, 14-XI-1979, n. 9, 1.
60 Cfr. ibidem, 21-XI-1979, n. 10, 1.
61 JUAN PABLO II, Meditación sobre el don, Didaskalos, Madrid 2021, 46. Texto polaco, AAS 98 (2006)
628-638.
62 Audiencia General, 21-XI-1979, n. 10, 1.
63 Ibidem.
64 Ver también OUELLET, Divina somiglianza, 232-237; I. SANNA, Chiamati per nome: antropologia teologica,
San Paolo, Milano 1994, 161-164; F. PILLONI, Uomo e donna lo creò. L’imago Dei nel maschile e nel femminile,
en R. BONETTI (ed.), La reciprocità uomo-donna: via di spiritualità coniugale e familiare, Città Nuova, Roma
2001, 411-452.
65 Audiencia General, 1-IX-1982, n. 92, 6.
66 Ibidem.
67 Ibidem, 5.
68 Ibidem, 16-I-1980, n. 15, 1, nt. 1.
69 Según Coda, «la communio personarum s’accomplit sur le modèle de la vie trinitaire de Dieu – l’Agapè
communiquée aux hommes dans le Christ» (P. CODA, L’anthropologie théologique de Jean-Paul II, en
FONDATION GUILÉ [ed.], Jean-Paul II face à la question de l’homme: actes du 6ème Colloque international de la
Fondation Guilé, Guilé Foundation Press, Boncourt 2004, 95).
70 El nexo entre el amor de las personas divinas y el amor esponsal entre el varón y la mujer es
explicado por Kalinowski, quien afirma: «L’amour divin en lequel, avec la connaissance dont Dieu se
connaît, consiste la vie trinitaire est, éminemment, le don libre d’une personne à une autre personne:
le Père se donne au Fils et le Fils se donne au Père. L’amour entre Dieu et l’homme est, aussi, le don
libre, réciproque de personnes: Dieu, qui est un être personnel, se donne en tant que tel à l’homme
qui est personne et réciproquement» (G. KALINOWSKI, La pensée de Jean Paul II sur l’homme et la famille,
«Divinitas» 26 [1982] 3-18, 11).
71 Cfr. JUAN PABLO II, Carta apostólica Mulieris Dignitatem, sobre la dignidad y la vocación de la mujer en el año
mariano, 15-VIII-1988, 6, 7 (4 veces), 8, 10 (4 veces), 11, 14 (2 veces), 26, 23, 29, AAS 80 (1988) 1653-
1729.
72 IDEM, Carta Gratissimam sane a las familias en el Año Internacional de la Familia, 2-II-1994, 6, AAS 86
(1994) 868-925.
73 IDEM, Carta a las mujeres, 29-VI-1995, 8, AAS 87 (1995) 803-812.
74 Cfr. CONGREGACIÓN PARA LA DOCTRINA DE LA FE, Carta a los Obispos de la Iglesia Católica sobre la
colaboración del hombre y de la mujer en la Iglesia y el mundo 5-6, AAS 96 (2004) 671-687. Llama la atención
que 16 de las 22 notas a pie de página hacen referencia a textos de Juan Pablo II, lo que muestra que
el Magisterio empezó a ocuparse de este tema principalmente a partir de su pontificado.
75 J. RATZINGER, Introducción al cristianismo: Lecciones sobre el credo apostólico, Sígueme, Salamanca 200210,
152.
76 JUAN PABLO II, Discurso a los participantes en una semana internacional de estudio sobre el matrimonio y la
familia, 27-VIII-1999, 5, AAS 93 (2001) 664-667.
77 Cfr. J.M. BURGOS, Personalismo y metafísica, Ediciones Universidad San Dámaso, Madrid 2021
(«Presencia y diálogo 62»); M. SÁNCHEZ SORONDO, Per una istanza metafisica aperta alla fede, en M.
AGNES (ed.), Per una lettura dell’Enciclica Fides et Ratio, LEV, Città del Vaticano 1999 («Quaderni
dell’Osservatore Romano», 45), 159-171; A. POLTAWSKI, Tradition et nouveauté dans l’approche
philosophique de Karol Wojtyła, en FONDATION GUILÉ (ed.), Jean-Paul II face à la question de l’homme, Guilé
Foundation Press, Boncourt-Suisse 2004, 37-43; A. LOBATO, La persona en el pensamiento de Karol Wojtyla,
«Angelicum» 56 (1979) 186-210, 183-184; R. GUERRA, Volver a la persona. El método filosófico de Karol
Wojtyla , Caparrós, Madrid 2002, 176.
78 BUTTIGLIONE, El pensamiento de Karol Wojtyla, 164, nt. 24.
79 Cfr. Audiencia General, 12-IX-1979, n. 2, 5, nt. 3.
80 «El mismo ser es lo más perfecto de todas las cosas, pues se compara a todas las cosas como acto.
Ya que nada tiene actualidad sino en cuanto que es. De ahí que el mismo ser sea actualidad de todas
las cosas y también de todas las formas. De hecho no se compara a las otras cosas como el recipiente
a lo recibido, sino en especial como lo recibido al recipiente» (S.Th. I, q. 4, a. 1, ad 3); «Por tanto, si
Dios es el mismo ser subsistente, no puede faltarle nada de la perfección del ser. Las perfecciones de
todas las cosas pertenecen a la perfección del ser; pues son perfectos en tanto en cuanto tienen de
algún modo ser. De ahí se sigue que ninguna perfección de las cosas le falta a Dios» (S.Th. I, q. 4, a.
2, co).
81 OUELLET, Mistero e sacramento dell’amore, 145.
82 Cfr. N. CLARKE, Person, Being, and St. Thomas, «Communio» 19 (1992) 601-618, 604.
83 Ibidem, 610. Traducción propia.
84 Lo pone de manifiesto Ratzinger cuando afirma: «It was indeed a result of Augustine’s doctrine of
the Trinity that the persons of God were closed wholly into God’s interior. Toward the outside, God
became a simple ʻIʼ, and the whole dimension of ʻweʼ lost its place in theolog (J. RATZINGER,
Retrieving the Tradition. Concerning the notion of person in theology, «Communio» 17 [1990] 439-454, 454).
85 JUAN PABLO II, Discurso, 27-VIII-1999, n. 5.
STATUS
LA PATERNIDAD ESPIRITUALDEL
SACERDOTE EN LATRADICIÓN DE LA
IGLESIA
JOSÉ MARÍA MARTÍNEZ ORTEGA, FRANCISCO INSA
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
RESUMEN: Desde antaño la forma más
extendida del pueblo cristiano para dirigirse al
ministro ordenado ha sido llamarle “padre”.
Ahora bien ¿tiene fundamento teológico llamar
“padre” al sacerdote? Este artículo muestra
cómo la tradición teológica ha asumido y
justificado este término desde los primeros siglos
hasta nuestros días. Se evidenciará que la
fundamentación de la paternidad espiritual del
sacerdote se ha enriquecido progresivamente,
pues desde su concepción inicial, basada en la
autoridad del Padre, ha ido adquiriendo un
carácter más cristológico que, sin excluir el
anterior, se basa en la esponsalidad de Cristo
con la Iglesia, de la cual participa el presbítero.
PALABRAS CLAVE: Paternidad espiritual,
Sacerdote, Esponsalidad, Filiación, Celibato.
ABSTRACT: Since ancient times, the most
widespread form among the Christian people to
call the ordained minister has been “father”. Now,
does it have theological foundation to call the
priest “father”? This article shows how the
theological tradition has assumed and justified this
term from the first centuries to the present day. It
will become evident that the foundation of the
spiritual paternity of the priest has been
progressively enriched, because from its initial
conception based on the authority of the Father, it
has acquired a more Christological character
which, without excluding the previous one, is
based on the spousal relationship of Christ with
the Church, in which the priest participates.
KEYWORDS: Spiritual Fatherhood, Priest,
Sponsality, Filiation, Celibacy.
ANNALES THEOLOGICI 1 (2024), VOL. 38, 243-308
ISSN 0394-8226
DOI 10.17421/ATH381202410
SUMARIO: : I. Introducción. II. Patrología prenicena. 1. San Policarpo de Esmirna. 2. San Ignacio de
Antioquía. 3. Didascalia de los Apóstoles. 4. Orígenes. III. Patrología postnicena oriental. 1. Eusebio de
Cesarea. 2. San Efrén de Siria. 3. San Basilio de Cesarea. 4. Evagrio Póntico. 5. San Juan
Crisóstomo. 6. Código Justiniano. 7. Juan de Dara. IV. Patrología postnicena occidental. 1. Siricio. 2. San
Ambrosio de Milán. 3. San Jerónimo. 4. San Agustín de Hipona. 5. San Gregorio Magno. V. Tradición
medieval. 1. Lanfranco de Canterbury. 2. San Pedro Damián. 3. San Bruno el Cartujo. 4. Hervé de
Déols. 5. Santo Tomás de Aquino. VI. Desde el Concilio de Trento al Concilio Vaticano II. 1. El Catecismo
Romano. 2. San Juan de Ávila. 3. San Juan Eudes. 4. Jean Jacques Olier. 5. San Alfonso María de
Ligorio. 6. Venerable Pío XII. 7. El testimonio de los santos. VII. Concilio Vaticano II. 1. Constitución
dogmática Lumen gentium. 2. Decreto Christus Dominus. 3. Decreto Presbyterorum Ordinis. VIII.
Magisterio posconciliar. 1. San Pablo VI. 2. San Juan Pablo II. 3. Benedicto XVI. 4. Francisco. IX.
Estudios contemporáneos.1. Thomas E.D. Hennessy. 2. Henri J.M. Nouwen. 3. Massimo Camisasca. 4.
Fernando B. Felices Sánchez. 5. John Cihak. 6. José Granados García. 7. Perry J. Cahall. 8. Antonio
Mendoza. 9. Carter H. Griffin. 10. Rafael F. Carrascosa Salmoral. 11. Pavel Syssoev. 12. Jacques
Philippe. 13. Amadeo Cencini. 14. Anthony Isacco. 15. José María Martínez Ortega. X. Síntesis
conclusiva.
I. INTRODUCCIÓN
En su homilía de la Misa matutina en la Domus Sanctae Marthae del 26 de
junio de 2013, el Papa Francisco afirque para ser personas maduras es
necesario sentir la alegría de la paternidad, que consiste en dar vida a los
demás, lo que en el caso de los sacerdotes se concreta en «la paternidad
pastoral, la paternidad espiritual», que es siempre y de todas formas «dar
vida, convertirse en padres».1
Desde el inicio de la Iglesia, los cristianos –y los apóstoles en particular–
mostraron una profunda comprensión de la paternidad espiritual del
sacerdote. Por ejemplo, san Pablo cita rasgos paternales tanto al enumerar
las cualidades requeridas al candidato a un ministerio (cfr. 1Tm 3,1-13; Tt
1,5-9) como al describir su propia actitud pastoral frente a los fieles (cfr. Ga
4,19; 1Co 4,14-16; 2Ts 7-11). El pueblo cristiano ha asumido este rasgo del
sacerdocio desde tiempos remotos, de modo que en diferentes idiomas y
culturas ha llamado (y sigue llamando) al ministro ordenado “padre”.2
Sin embargo, a lo largo de la historia han surgido posturas contrarias a
llamar así al sacerdote, por ejemplo quienes han interpretado literalmente
las palabras del Señor «no llaméis padre vuestro a nadie en la tierra» (Mt
23,9) o, más recientemente, los que evitan este título por asociarlo a un
“paternalismo clerical” que sería caldo de cultivo de abusos de autoridad o
de conciencia.
Cabría, por tanto, preguntarse si tiene fundamento teológico llamar
“padre” al sacerdote, en cuyo caso se trataría de una característica
irrenunciable, o bien se trata simplemente de una mera metáfora o alegoría
que puede resultar más o menos oportuna en función del momento
histórico y que sería, por ello, prescindible.
En el presente artículo no trataremos de dar una respuesta completa a
esta pregunta, sino de mostrar cómo ha sido respondida por la tradición
viva de la Iglesia, que dividiremos en ocho períodos: patrología prenicena,
patrología postnicena oriental y occidental, tradición medieval, autores
entre el Concilio de Trento y el Vaticano II,3 documentos conciliares,
Magisterio postconciliar y autores contemporáneos.
Obviamente, un estudio exhaustivo se saldría de las posibilidades de un
artículo y resultaría muy redundante. Nos hemos limitado, por tanto, a una
selección de autores que, de acuerdo con la bibliografía utilizada, han
realizado contribuciones importantes o nos parecen más representativos.
Tampoco pretendemos hacer un estudio en profundidad de cada uno de
ellos, sino que nos limitaremos a presentar su visión peculiar, apoyados en
los textos que nos resultan más significativos. De esta manera esperamos
ofrecer un mosaico en el que cada autor ofrece un matiz nuevo a la imagen
que ofrecieron los anteriores, o en ocasiones cambia de color y da lugar a
una nueva figura en una composición que se muestra cada vez más rica.
II. PATROLOGÍA PRENICENA
En los primeros siglos del cristianismo encontramos algunas menciones a la
paternidad del ministro ordenado, puesta en relación con la paternidad
divina y referida casi exclusivamente al obispo en cuanto origen de la fe de
sus fieles y guía que los enseña y exhorta.
1. San Policarpo de Esmirna
El primer testimonio escrito en que se aplica el título de “padre” a un
ministro ordenado concreto4 (en este caso a un obispo) se encuentra en las
actas del martirio de san Policarpo, obispo de Esmirna, ocurrido en el año
155:
Furioso de ira, todo el pueblo de judíos y gentiles que habitaban en Esmirna vociferó entonces:
“Este es el maestro de Asia, el padre de los cristianos, el destructor obstinado de nuestros dioses y
violador de nuestros templos, el que enseñaba que no debían ofrecérseles sacrificios y adorarse
las imágenes de los dioses”.5
El texto tiene una relevancia particular al ser pronunciado por paganos, si
bien surge la duda de si los perseguidores toman el término “padre” de los
propios cristianos, que se referían así a su obispo, o simplemente siguen la
costumbre de la época de llamar así a los maestros o líderes.
2. San Ignacio de Antioquía
Siendo obispo de Antioquía de Siria, san Ignacio fue conducido a Roma
para ser martirizado, probablemente durante la persecución del emperador
Trajano (en torno al año 110). Durante el viaje escribió siete cartas a
distintas comunidades cristianas cuyo denominador común es la unidad
eclesial. En estas cartas hay tres alusiones implícitas a la paternidad
espiritual del obispo, que es presentado como representante del Padre. La
primera se encuentra en la Carta a los Magnesios, en la que refiriéndose al
joven obispo de esta Iglesia escribe:
No os aprovechéis de la edad del obispo, sino que le tributéis toda consideración conforme al
poder de Dios Padre, tal como también he sabido que vues tros santos presbíteros no se han
aprovechado de la juventud que manifiesta, sino que, como prudentes en Dios, se le han
sometido, no a él sino al Padre de Jesucristo, el obispo de todos.6
La referencia es más clara en la Carta a los Tralianos, donde Ignacio anima a
los fieles de esta comunidad a que «reverencien todos a los diáconos como a
Jesucristo, así como al obispo que es figura del Padre».7 Finalmente, el
obispo de Antioquía exhorta a los cristianos de Esmirna con estas palabras
que han pasado a formar parte del patrimonio de la Iglesia: «seguid todos al
obispo, como Jesucristo al Padre […]. Nada de lo que atañe a la Iglesia lo
hagáis sin el obispo».8 El fundamento de esta unidad con el obispo es
cristológico y eclesiológico:
Pues si yo, en poco tiempo, he alcanzado con vuestro obispo tal intimidad –que no es humana
sino espiritual–, ¡cuánto más os estimo dichosos a vosotros, que estáis tan estrechamente unidos a
él como la Iglesia a Jesucristo y Jesucristo al Padre para que todas las cosas sean concordes en la
unidad!9
Para san Ignacio la autoridad del obispo proviene directamente del
verdadero Obispo, que es el Padre, con el que se identifica hasta el punto de
convertirse en su figura o imagen viva, haciéndolo presente entre los fieles.10
3. Didascalia de los Apóstoles
Más explícito se muestra el autor de la Didascalia de los Apóstoles (inicios del
siglo III), que indica cómo debe ser la relación entre el obispo y el laico:
Que [el laico] ame también al obispo y le honre, que le reverencie como se hace a un padre y
señor, como se reverencia a Dios todopoderoso; porque es del obispo de quien se ha dicho por
medio de los apóstoles: «Quien os escucha a vosotros, a me escucha; quien os rechaza a
vosotros a me rechaza; y el que me rechaza a mí, rechaza al que me ha enviado» (Lc 10,16).
El obispo amará a los laicos, como a hijos suyos, los educará y les hará experimentar el calor del
celo de su amor, como [se hace] con los huevos para que en ellos salgan los polluelos, o bien les
cuidará y les ayudará a crecer, hasta que alcancen la edad adulta como las aves aladas.11
En la persona del obispo se hace presente la misión de los apóstoles hasta tal
punto de que aquel viene presentado como el último eslabón de una cadena
de reverencia, escucha y aceptación que llega hasta el Padre por medio de
Cristo. El modelo de esa relación es la paternofilial, lo que refuerza la idea
de que en última instancia la unidad de los fieles con el obispo manifiesta su
unidad con el Padre.
Un poco más adelante, el autor de la Didascalia exhorta así a los laicos:
Por tanto, hombre, conoce a tus obispos, por quienes eres hijo de Dios, y su mano derecha,
que es tu madre; ama a quien, después de Dios, es tu padre y tu madre, «porque el que maldiga
a su padre o a su madre será castigado con la muerte» (Ex 21,17). Venerad, pues a los obispos,
que os libraron de los pecados, que, por el agua, os engendraron de nuevo, que os colmaron del
Espíritu Santo, que os nutrieron del Verbo, como si os alimentaran con leche, que os educaron
en la doctrina, que os fortalecieron en la enseñanza, que os hicieron participar de la Eucaristía
santa de Dios, y os constituyeron en partícipes y coherederos de la promesa de Dios.12
El autor atribuye aquí expresamente al obispo el título de padre y madre,
considerándolo secundario a la paternidad divina. El origen de esta filiación
espiritual evoca el nuevo nacimiento a través del agua y del Espíritu que
leemos en la conversación de Jesús con Nicodemo (cfr. Jn 3,15). Se trata de
una referencia al Bautismo (e implícitamente también a la Penitencia)
administrado por el obispo, a través del cual el hombre se convierte en hijo
de Dios, pero esta paternidad espiritual continúa a lo largo del tiempo, ya
que el obispo enseña la doctrina y “nutre del Verbo” (administra la
Eucaristía). Encontramos aquí un nuevo fundamento de la paternidad, la
administración de los sacramentos que engendran a una nueva vida y hacen
crecer en ella. Puesto que esta función es realizada también por el
presbítero, se abren las puertas a que este también participe de la
paternidad, lo que resultaría más problemático si estuviera basada solo en la
autoridad.
4. Orígenes
Será Orígenes (Alejandría de Egipto, c. 184 Tiro, c. 253) el que dará el
paso de afirmar la paternidad del sacerdote. En el contexto de una
interpretación alegórica de las vestiduras sacerdotales en el Antiguo
Testamento, el escritor alejandrino realiza un original contraste entre la
generación carnal permitida a los levitas y la espiritual que los sacerdotes de
la Iglesia (y no solo los obispos) están llamados a realizar a través de la
predicación:
[En el Levítico] algunas veces hacían concesiones por la posteridad del género humano y para
proveer a la descendencia. Pero para los sacerdotes de la Iglesia yo no introduciría una
interpretación de este tipo. Veo que ocurre otra cosa en este sacramento. También en la Iglesia
los sacerdotes y doctores pueden engendrar hijos, como aquel que decía: «Hijos míos, que de
nuevo engendro, hasta que Cristo se forme en vosotros» (Ga 4,19). Y de nuevo en otro lugar
dice: «Aunque tengáis muchos miles de pedagogos en Cristo, no tenéis muchos padres. Porque yo
os engendré en Cristo Jesús por medio del Evangelio» (1Co 4,15).13
Una ulterior novedad es poner la paternidad espiritual en relación con el
celibato sacerdotal, hasta el punto de que aquella sería la razón última de
este.
III. PATROLOGÍA POSTNICENA ORIENTAL
A partir del siglo IV la paternidad espiritual del obispo viene ampliada en
dos direcciones que discurrirán en cierto sentido paralelas. Por un lado,
definitivamente se aplicará a todos los sacerdotes, y por otro se irá
vinculando progresivamente a los monjes –para quienes este será un
periodo áureo– hasta el punto de que casi acabarán apropiándose del título.
1. Eusebio de Cesarea
Refiriéndose a la disciplina de la continencia de los ministros ordenados,
Eusebio de Cesarea (Cesarea Marítima, c. 263 339) afirma que los
sacerdotes «no tendrán que asumir la educación, la disciplina y la
formación de uno o dos hijos, sino de una muchedumbre realmente sin
número».14
En sintonía con cuanto acabamos de ver en Orígenes, Eusebio pone en
relación la paternidad del sacerdote con su renuncia a engendrar hijos
carnales, lo que redunda en una mayor fecundidad.
2. San Efrén de Siria
Tanto Orígenes como Eusebio presentan la paternidad como espiritual en
analogía con la carnal, pero se echa de menos un soporte teológico más
sólido. Con Efrén de Siria (Nísibis 306 Edesa, 373) encontramos una
fundamentación esponsal de la paternidad del ministro ordenado, pues esa
es la relación que entabla con la Iglesia y por medio de la cual engendra
hijos para Dios. En un poema dirigido a un obispo llamado Abraham, le
dice:
Bien respondes a tu nombre, Abraham, porque también eres padre de muchos. Pero no
tienes esposa, como Abraham tenía a Sara: he aquí que tu grey es tu esposa. Educa a tus hijos en
tu verdad; que sean para ti descencientes por el espíritu, hijos de la promesa, para que reciban el
Edén en herencia.15
Como se ve, el obispo es presentado a la vez como padre y como esposo de
su grey, añadiendo que el auténtico esposo es Cristo y que el amor del
obispo será verdaderamente virginal si lleva a la Iglesia a amar más a su
único Esposo.16
Nos encontramos ante un auténtico “cambio de paradigma” que será
asumido por muchos autores posteriores hasta nuestros días. El origen de la
paternidad espiritual no sería ya el Padre (como cabría pensar prima facie)
sino el Hijo por medio de su esponsalidad fecunda con la Iglesia. Los
ministros ordenados estarían llamados a participar en esta relación mística
que evoca numerosos pasajes del Nuevo Testamento en los que Cristo llama
hijos a los apóstoles (cfr. Mc 10,24; Jn 13,33.14,18) y discípulos (cfr. Mt
9,2.22), se identifica a mismo con el esposo (cfr. Mt 25,6-10), es
identificado con él (cfr. Jn 3,29), y la relación entre Cris to y la Iglesia viene
expresada en términos esponsales (cfr. 2Co 11,2; Ef 5,24-32; Ap 19,7;
21,2.9).
3. San Basilio de Cesarea
En el año 375 san Basilio de Cesarea (Cesarea de Capadocia, c. 330 379)
exhorta a la unidad de los fieles de la Iglesia de Cesarea, de la que era
obispo, con las siguientes palabras:
si hay alguna cosa que empuja hacia la unidad es, sobre todo, el tener los mismos hombres como
maestros: y nosotros y vosotros tenemos los mismos hombres sea como maestros de los misterios
de Dios sea como padres espirituales que, desde el inicio, fundaron nuestra Iglesia. Me refiero al
gran Gregorio y a cuantos, unos tras otros, le sucedieron en vuestra sede episcopal.17
Basilio retoma la paternidad del obispo, presentada como una sucesión que
arranca en la fundación de una Iglesia, lo que parece una alusión a la
paternidad que san Pablo se atribuía. Además, en su Carta 81 responde a la
petición del obispo Inocencio de enviarle alguien que pudiera sucederle con
las siguientes palabras: «he consultado al consejo de los presbíteros de la
ciudad y he elegido su vaso más precioso, el hijo espiritual de
Hermógenes».18 El elegido es un presbítero que había sido ordenado por su
predecesor Hermógenes, lo que nos da pie a evidenciar un nuevo
fundamento sacramental de la paternidad del obispo: la que adquiere
respecto al presbítero al que ha conferido la ordenación sacerdotal.
A su vez, Basilio se dirige a Atanasio, obispo de Alejandría, llamándole
“piísimo padre” y “padre espiritual”, compara su situación frente a él con la
de Judá frente a su padre Israel,19 y en una carta a los obispos de Occidente
se refiere a Atanasio como «nuestro reverendísimo padre».20 En este caso el
título de padre se justifica en la gran autoridad del anciano obispo de
Alejandría, que no había ordenado a Basilio sino que había sido su punto de
referencia en la lucha contra la herejía arriana.
Por último, san Basilio se refiere a su propia paternidad espiritual
respecto a algunos laicos,21 diáconos22 y obispos.23 Por ejemplo, en su
correspondencia con Anfiloquio, consagrado obispo de Iconio a instancias
de Basilio, se dirige a él con un acentuado tono paternal y le llama «hijo
verdader24: «Tú sabes que, por entrañas paternas, todo momento es
bueno para abrazar al hijo querido y que el afecto es mayor que todas las
palabras».25
4. Evagrio Póntico
Con los padres del desierto encontramos un cambio de sujeto de la
paternidad, pues no la aplican, como hemos visto hasta aquí, a los ministros
ordenados sino a los monjes, la mayoría de los cuales no eran clérigos.26
Aquí nos detendremos en Evagrio Póntico (Ibora, Ponto, 345 Scetis,
Egipto, 399), que en sus sentencias dirigidas a los monjes enseña que el
principal cometido del padre espiritual es educar, y que el hijo espiritual le
debe respeto y docilidad:
Escucha, monje, las palabras de tu padre y no hagas vanas sus advertencias. Cuando te envíe
ponte en camino, y tenle presente durante el viaje. De este modo, evitarás malos pensamientos, y
los perversos demonios no prevalecerán en ti. Si te confiara plata, no la malgastes, y, si tú ganaras
algo, entrégaselo.27
Evagrio concibe al padre espiritual como un maestro experto en los caminos
del espíritu, y al discípulo como alguien necesitado de esta riqueza doctrinal
y espiritual. Por eso el monje que no atiende sus palabras «rene gará de las
canas del que lo engendró y maldecirá la vida de sus hijos»,28 es decir, no
podrá convertirse él mismo en padre espiritual de otros.
Para alcanzar el amor y el conocimiento de Dios es necesario tener un
padre espiritual y obedecerle, pues «es santo [el monje] que observa las
palabras de sus padres»,29 mientras que «el que lo contradice caerá en
pecado».30 Evagrio equipara las palabras del padre espiritual a las del Señor,
que “aniquilará” a quien no las guarde y le borrará del libro de la vida.31
Pero no se trata de una obediencia ciega o irracional, porque «el que
obedece a su padre se ama a sí mismo».32
Al igual que san Efrén, Evagrio hace derivar esta paternidad no tanto del
Padre sino del Hijo (evidentemente sin contraponerlos), pero lo hace desde
otra perspectiva. Su punto de partida es que el Logos, mediación de la
Sabiduría divina, es padre porque «todo fue creado por medio de él» (Col
1,16), y además engendra hijos a una vida inmortal por medio del
Bautismo, como afirma en sus sentencias a una virgen: «Ora sin
interrupción, y acuérdate de Cristo que te engendró».33 Ahora bien, como
se aprecia en los textos paulinos ya mencionados, Cristo ejercita esta
paternidad por medio de los hombres, que están llamados a imitarlo y a
colaborar en su obra salvífica nutriendo a los hombres mediante la
enseñanza y la corrección, para conducirlos a la virtud y al conocimiento de
Dios. Para cumplir esta tarea son capacitados por un carisma que Evagrio
llama “espíritu de filiación”, que en última instancia sería el don de
sabiduría concedido por el Espíritu Santo.34
En resumen, Evagrio funda la paternidad espiritual en la identificación
con Cristo en cuanto Logos o sabiduría de Dios, y da pie a una nueva
dimensión: la que ejercita aquel que guía a otros en su camino cristiano, un
papel que no está reservado a los clérigos y que equivale a lo que hoy
llamamos dirección o acompañamiento espiritual. Con todo, en el último
capítulo de su Tratado práctico extiende a los sacerdotes algunas
características que había atribuido a los padres espirituales:
Después del Señor, hay que amar a los sacerdotes, puesto que nos purifican por medio de los
santos misterios y rezan por nosotros. Hay que honrar a los ancianos como a los ángeles; pues
son ellos quienes nos ungen para los combates y nos curan las mordeduras de las bestias
salvajes.35
5. San Juan Crisóstomo
En su conocido Tratado sobre el sacerdocio, san Juan Crisóstomo (Antioquía de
Siria, 347 Comana Pontica, 407) habla de una doble paternidad, una
carnal y otra sobrenatural, subrayando que esta segunda, ejercitada por los
sacerdotes mediante el Bautismo, es superior, pues lleva a la vida eterna. En
efecto, «el sacerdote se acerca a Dios como si todo el mundo le estuviera a él
confiado y fuera el padre de todos».36 Además, el presbítero puede restaurar
la vida que originó:
los padres no tienen poder para librar a sus hijos ni aun de la muerte corporal, ni para alejar de
ellos una enfermedad que les acometa; los sacerdotes, empero, curan muchas veces a un alma
enferma y salvan a la que está a punto de perderse […]. Y eso no solo por sus enseñanzas y
amonestaciones, sino también con la ayuda de sus oraciones. Y es así que los sacerdotes no solo
tienen poder de perdonar los pecados cuando nos regeneran por el Bautismo, sino también los
que cometemos después de nuestra regeneración.37
Concluye estos razonamientos afirmando la dignidad de los presbíteros, que
debieran merecernos más reverencia que los magistrados y reyes y hasta fuera justo tributarles
honor mayor que a nuestros mismos padres. Porque estos nos engendran por la sangre y por la
voluntad de carne (cfr. Jn 1,13); mas aquellos son autores de nuestro nacimiento de Dios, de la
regeneración bienaventurada, de la libertad verdadera y de la filiación divina por la gracia.38
Como se ve, la paternidad espiritual del sacerdote tiene para el Crisóstomo
un fundamento sacramental (el Bautismo y la Penitencia), a los que añade la
predicación y la oración de mediación.
6. Código Justiniano
Cabe mencionar en este apartado el Código promulgado por el emperador
Justiniano (Tauresium, 482 Constantinopla, 565), una recopilación de
constituciones que regulaban tanto la vida civil como la eclesiástica, donde
la prohibición de ordenar obispos a personas previamente casadas viene
justificada en la paternidad espiritual: «Es necesario que el obispo no esté
impedido por el afecto a los hijos carnales para ser padre espiritual de todos
los fieles; por lo cual prohibimos que aquel que tiene hijos o nietos sea
ordenado obispo».39
Más adelante se muestra aún más explícito y añade la dimensión esponsal
de esa paternidad: «Establecemos que nadie sea ordenado obispo a menos
que sea apto y bueno en otras cosas, y que no cohabite con su esposa ni sea
padre de hijos, sino que tenga por esposa a la Iglesia sacrosanta y por hijos a
todo el pueblo cristianos ortodoxo».40
7. Juan de Dara
Terminamos la exposición de la patrología oriental con Juan de Dara (c.
825 825), obispo sirio que lleva al extremo la relación paternofilial del
sacerdote con sus fieles al equiparar el matrimonio del ministro ordenado
con un incesto: «El sacerdote es el padre de todos los fieles, hombres y
mujeres. Quienquiera que ocupe esta dignidad entre los fieles, si quiere
casarse con una mujer, parece ser alguien que se casa con su propia hija.
Ahora bien, esto es una gran vergüenza».41
IV. PATROLOGÍA POSTNICENA OCCIDENTAL
Las referencias a la paternidad espiritual en la Iglesia latina son algo más
tardías, y más referidas a los obispos y sacerdotes que a los monjes.
1. Siricio
La primera mención –indirecta– a la paternidad espiritual que hemos
encontrado en Occidente se encuentra en los cánones del Sínodo romano
del año 386, celebrado bajo el pontificado del Papa Siricio (Roma, c. 334
399). Hablando de la continencia del ministro ordenado, se pregunta:
«¿Cómo se atreverá un obispo o un presbítero a predicar la integridad o la
continencia a una viuda o una virgen, o a exhortar a la castidad en el lecho
conyugal, si él mismo se preocupa más de engendrar hijos para este mundo
que para Dios?»42
2. San Ambrosio de Milán
San Ambrosio de Milán (Tréveris, 339 Milán, 397) comienza su tratado
De Officiis dirigiéndose a sus “hijos espirituales”, los clérigos de Milán:
No pienso ser considerado presuntuoso si quiero asumir el papel de enseñar a mis hijos, puesto
que el mismo maestro de la humildad dijo: «Venid, hijos, escuchadme, os enseñaré el temor del
Señor (Sal 34,11)». […] También nosotros, solícitos en imitar su modestia, pero sin pretensión de
atribuirnos su gracia, os transmitimos como a nuestros hijos aquellas cosas que el Espíritu de la
sabiduría le ha infundido y por medio de Él nos han sido reveladas y descubiertas por su vista y
sus ejemplos.43
Como se ve, Ambrosio atribuye su condición de padre espiritual en primer
lugar a su papel de maestro, lo que se aprecia aún mejor más adelante:
«como hizo Tulio [Cicerón] para la educación de su hijo, yo lo hago
también para formaros a vosotros que sois mis hijos».44 Pero prosigue
profundizando en el fundamento de esta relación:
Porque no os quiero menos a vosotros que os he engendrado en el Evangelio (cfr. 1Co 4,15), que
si os [hubiera engendrado] en el matrimonio. […] Ciertamente debemos amar más a aquellos
que pensamos que están destinados a permanecer siempre con nosotros, que a quienes
solamente permanecen con nosotros en este mundo. [… Los hijos naturales] son amados en
virtud de una obligación que no es suficientemente apropiada y durable para enseñar un amor
sin límites de duración; mientras que vosotros sois amados en virtud de un discernimiento que
añade a la fuerza del amor el gran peso de la caridad.45
Según Ambrosio, tanto la generación carnal como la generación por el
Evangelio dan lugar a una paternidad, pero la segunda tiene una mayor
categoría, ya que da origen a un vínculo de caridad, más fuerte que el amor
natural que origina la paternidad carnal.
3. San Jerónimo
En un primer momento, san Jerónimo (Estridón, Dalmacia, 342 Belén,
420) se mostró fuertemente contrario a que se designase padre a ningún
monje ni obispo, basado en una interpretación literal de Mt 23,9: «aunque
abba, “padre”, es un vocablo hebreo y sirio, y nuestro Señor recomienda en
el Evangelio que no se llame padre más que a Dios, no por qué licencia
en los monasterios llamamos con este término y admitimos que se nos llame
con él».46
Sin embargo, unos veinte años después matizará su postura admitiendo el
calificativo siempre que se reconozca su carácter “abusivo” y derivado del
único Padre:
Ni “maestro” ni “padre” debe ser llamado otro sino Dios Padre y Nuestro Señor Jesucristo […].
Quizá se preguntará uno por qué razón contra este precepto dijo el Apóstol que era “doctor de
los gentiles” (cfr. 1Tm 2,7), o cómo es que en la lengua usual, sobre todo en los monasterios de
Palestina y en los de Egipto, los monjes unos a otros se llaman “padres”. Dificultad que se
resuelve así: una cosa es ser padre por naturaleza y otra serlo por condescendencia. Nosotros, si a
un hombre lo llamamos “padre” honramos a la edad, pero no señalamos al autor de nuestra
vida. También se dice maestro por asociación con el verdadero Maestro. Y para no replicar un
sinfín de veces: lo mismo que la existencia de un solo Dios por naturaleza y de un solo Hijo no
prejuzga para los demás el que no se les llame, por adopción, “dioses” e “hijos”, así también la
existencia de un solo Padre y Maestro no prejuzga para otros que se les llame abusivamente
“padres” y “maestros”.47
Fuera del ámbito monástico, san Jerónimo hace en sus cartas alguna alusión
a la paternidad espiritual de los sacerdotes y los obispos. Así, refiriéndose a
las voces críticas contra los monjes –algunas provenientes de clérigos– dice
que «se muestran locuaces contra nosotros, pero mudos cuando se trata de
ellos mismos. Como si ellos fueran de otra especie que los monjes, como si
lo que se dice contra los monjes no tocara por igual a los clérigos, que son
padres de los monjes».48
El fundamento de esta paternidad del sacerdote es por tanto el Bautismo,
y de aquí deduce el respeto que se le debe: «es de alabar la vida de aquel
monje que tiene en gran estima a los sacerdotes de Cristo y no denigra el
ministerio por el que fue hecho cristiano».49 En la misma línea, en su carta
dirigida a Nepociano, san Jerónimo le saluda con estas palabras: «Oye al
que es hermano tuyo por el orden presbiteral y padre por la edad, que,
tomándote desde la cuna de la fe, te lleva hasta la edad madura».50
Por otro lado, en una carta dirigida a san Agustín se despide diciéndole:
«Adiós, amigo queridísimo, hijo por la edad y padre por la dignidad»,51
añadiendo un motivo más a la paternidad del obispo, que es la dignidad
proveniente de la plenitud del sacramento del Orden.
San Jerónimo aplica también la imagen paternofilial al vínculo entre el
obispo y el presbítero, que comparten un solo ministerio.52 Los obispos, por
tanto, han de alegrarse cuando los presbíteros maduran y adquieren
sabiduría: «Gloria del padre es el hijo sabio. Alégrese el obispo de su juicio
al escoger tales sacerdotes para Cristo».53 Estos, por su parte, han de
manifestar reverencia a su obispo:
sumiso a tu obispo y mírale como al padre de tu alma. Amar es de hijos; temer, de esclavos.
Pues dice: si yo soy padre, ¿Dónde está la honra que me hacéis? Y si señor, ¿dónde el temor que me tenéis? (Ml
1,6). […] Pero sepan también los obispos que son sacerdotes y no amos. Honren a los clérigos
como clérigos, para que también a ellos los tengan los clérigos deferencia como a obispos.54
Mencionamos aquí a un autor conocido actualmente como Pseudo-
Jerónimo, pelagiano de origen galo, que hacia el año 417 introdujo en
Occidente el argumento esponsal que hemos visto en san Efrén: «¿Qué
mejor esposa que la Iglesia de Dios puede buscar un obispo? ¿Qué mejores
hijos que el pueblo de Dios?».55
4. San Agustín de Hipona
En su comentario al salmo 101, san Agustín (Tagaste, 354 Hipona, 430)
hace una interpretación cristológica de la imagen del pelícano (cfr. Sal
101,7), que según se creía se hiere a mismo para alimentar a sus crías con
su sangre, para concluir:
[Cristo] Tiene, pues, autoridad paterna y afecto materno; así como Pablo, que es padre y es
madre, no por mismo, sino por el Evangelio. Es padre cuando dice: «Aun cuando tengáis
muchos pedagogos en Cristo, no tenéis muchos padres, porque en Cristo Jesús yo os engendré
por el Evangelio» (1Co 4,15). Y es madre cuando escribe: «Hijitos míos, a los que de nuevo doy a
luz hasta que se forme Cristo en vosotros» (Ga 4,19).56
Agustín asimila así la paternidad de Jesucristo, que nos engendró con su
muerte en la Cruz, con la de san Pablo. Posteriormente amplía esta
paternidad a los apóstoles, que a su vez la han transmitido a los obispos,
presentando la sucesión apostólica como una sucesión de la paternidad:
A ti te han engendrado los Apóstoles: ellos son los enviados, ellos los que predicaron, ellos son los
padres. ¿Pero es que pudieron permanecer corporalmente presentes con nosotros? […] ¿Y
entonces con su partida la Iglesia ha quedado abandonada? De ninguna manera. «A cambio de
tus padres te han nacido hijos» (Sal 45,16). ¿Qué significa esto? Como padres fueron enviados los
Apóstoles, y en su lugar te han nacido hijos, y han sido constituidos obispos. En efecto, los
obispos de hoy, que están por todo el mundo, ¿de dónde nacieron? La misma Iglesia los llama
padres, ella los ha engendrado, y ella misma los ha establecido en las cátedras de los padres. No
la tengas por abandonada, porque ya no ves a Pedro, ni a Pablo, porque no ves a aquellos de
donde ella nació; de tu descendencia te ha crecido la paternidad. «A cambio de tus padres te han
nacido hijos, que nombrarás príncipes sobre toda la tierra». […] Esta es la Iglesia católica: sus
hijos han sido constituidos príncipes sobre toda la tierra, sus hijos han sido constituidos en lugar
de los padres.57
5. San Gregorio Magno
En la tercera parte de su Regla pastoral, san Gregorio Magno (Roma, 540 –
604), refiriéndose al modo en que los prelados deben adoctrinar y
amonestar a los súbditos, afirma que «puede entenderse metafóricamente
que se les diga a los seglares: “Hijos, obedeced a vuestros padres en el
Señor” (Col 3,20); en cambio, a los otros [los prelados] se les manda: “Y los
padres no provoquéis con ira a vuestros hijos” (Col 3,21)».58
En lugar de otros modelos que aparecen en ese mismo capítulo de la
Carta a los Colosenses (maridos y mujeres, siervos y amos), san Gregorio
escoge la relación paternofilial como modelo del ejercicio de la autoridad de
los prelados, así como de la obediencia que le deben sus fieles. Esta relación,
que es imagen de la que mantienen el Padre y el Hijo, permea toda la Regula
Pastoralis.59
Por lo que respecta a los fieles laicos, en una de sus homilías sobre el libro
de Ezequiel san Gregorio afirma que el sacerdote ha de conocer las
necesidades de sus hijos, escucharlos pacientemente, soportar sus defectos,
amoldar los sentimientos de su corazón y hacer suyas las tristezas y alegrías
de ellos, pues de lo contrario «será tenido porque no ama a los hijos de cuyo
gozo no se alegra».60
V. TRADICIÓN MEDIEVAL
En la Edad Media hemos encontrado pocas menciones de cierta relevancia
acerca de la paternidad espiritual, y menos aún referidas específicamente al
sacerdote. Veremos las más significativas.
1. Lanfranco de Canterbury
El benedictino y arzobispo Lanfranco de Canterbury (Pavía, c. 1005
Canterbury, 1089) afirque la paternidad de Dios tiene dos dimensiones,
una derivada de engendrar al Hijo y otra de gobernar con cuidado lo
creado. De ellas provienen las dos dimensiones de la paternidad terrenal,
una física o biológica y otra por medio de la cual se dirige y gobierna a los
subordinados como hace Dios con su creación. Esta última consiste en
orientar en el camino hacia Dios por medio del cuidado atento, la presencia
amorosa, la generosidad, la corrección paternal, la oración por los hijos
espirituales, etc.
Pues el Dios todopoderoso se llama Padre bien porque engendró al Hijo por mismo, bien
porque dirige y gobierna lo creado por sus propios medios. De manera análoga y por la misma
razón, se llaman padres a quienes generan hijos de ellos mismos o bien dirigen y gobiernan a sus
subordinados con piadosa diligencia. […] Esta afirmación [Ef 3,14-15: doblo mis rodillas ante el
Padre de nuestro Señor Jesucristo, de quien toma nombre toda familia en los cielos y en la tierra]
debe entenderse como buena paternidad, ya que hay otra paternidad que no es de Dios, de la
que el Evangelio habla cuando dice: «vosotros tenéis por padre al diablo» (Jn 8,44).61
Al final de este texto Lanfranco señala que existe también un ejercicio
viciado de la paternidad. Se trata de un argumento original que
encontraremos frecuentemente en los autores del siglo XXI.
2. San Pedro Damián
El benedictino san Pedro Damián (Rávena, 1007 Faenza, 1072) es
conocido como uno de los propulsores de la reforma gregoriana,
especialmente en lo referente a las costumbres de los clérigos. En este
contexto retoma el argumento del “incesto espiritual” que hemos visto en
Juan de Dara para defender la castidad del obispo:
¿Cuánto más serás desechado tú, que no temes perecer no ya con tu hija carnal, que sería menos
grave, sino más bien con la espiritual? Ciertamente todos los hijos de tu Iglesia son sin duda hijos
tuyos. Y ciertamente está claro que la generación espiritual es mayor que la carnal. Más aún,
eres el marido y esposo de tu Iglesia, lo que testimonian tanto el anillo de bodas como el báculo
de la encomienda; todos han sido regenerados en ella por el sacramento del bautismo, y te han
sido sometidos como hijos. En consecuencia, si cometes un incesto con tu hija espiritual, ¿cómo
te atreverás a tocar el misterio del cuerpo del Señor?62
3. San Bruno el Cartujo
San Bruno el Cartujo (Colonia, 1030 – Serra San Bruno, 1101) consideraba
que para aplicar verdaderamente el concepto de paternidad se requiere un
cuidado paternal y una vida virtuosa. Considera que la paternidad en el
cielo es llevada a cabo por los ángeles que cuidan de las almas que están en
el cielo, del mismo modo que los obispos y otros padres de la Iglesia cuidan
en la tierra de sus hijos espirituales. Según el fundador de los cartujos, estos
“provisores” que cuidan de otros se llaman padres solo de nombre y de
concepto, pero no de esencia.63
Para san Bruno la base de la paternidad espiritual del ministro ordenado
es el amor paternal y la providencia de Dios. Por consiguiente, el sacerdote
debe estar profundamente conectado con el Padre en su vida y en su
oración para experimentar su bondad, aprender de ella y darla a los demás.
4. Hervé de Déols
El benedictino y exégeta francés Hervé de Déols o de Bourg-Dieu (Le
Mans, 1080 Déols, 1150) aúna las reflexiones de Lanfranco y de san
Bruno cuando habla de las dos dimensiones de la paternidad de Dios y
añade que tanto los ángeles como los hombres pueden ejercerlas por
analogía:
Porque la intensidad del inefable amor de Dios nos amó inestimablemente, y nos ama y nos
gobierna, y por eso es llamado Padre nuestro (cfr. Mt 6,9; Lc 11,2). Por Él, tanto nosotros como
los ángeles somos también llamados padres, a semejanza de su amor y providencia: porque ese
mismo amor y providencia por los que somos llamados padres provienen de Él. A partir de Él
recibe nombre toda paternidad en el cielo y en la tierra, porque, como se ha dicho, todos
aquellos que son padres y presiden a otros con afecto paternal, ya sea en el cielo (como las
dominaciones sobre los otros órdenes subordinados), ya sea en la tierra (como los obispos, los
abades y otros prelados que presiden a sus súbditos con bondad paternal) reciben a imitación de
Él el término “paternidad”. Los ángeles de los cielos que nos cuidan son llamados padres en los
cielos; y los prelados de la Iglesia, padres en la tierra.64
Para Hervé, la paternidad espiritual del ministro ordenado sería una
analogía de la paternidad amorosa y providente con la que Dios cuida a las
criaturas. La esencia de esta paternidad sería la función de gobierno y no
tanto una consagración sacramental, como muestra el hecho de que incluya
a los abades (monjes no necesariamente ordenados) en la enumeración.
5. Santo Tomás de Aquino
Santo Tomás de Aquino (Roccasecca, 1225 Fossanova, 1274) ofrece un
fundamento teológico de la paternidad espiritual. En línea con los autores
que acabamos de ver, en su comentario a Ef 3,15 afirma que
no es solo padre el que da la potencia de la vida, mas puede también denominarse con ese
nombre el que da el acto de la vida. Así pues, todo aquel que induce a otro a un acto vital, pongo
por caso, a una buena obra, a entender, querer, amar, puede llamarse su padre; «porque aun
cuando tengáis millares de ayos en Jesucristo, no tenéis muchos padres» (1Co 4,15). Por tanto,
siendo así que entre los ángeles unos a otros se iluminan, perfeccionan y purifican, y estos sean
actos jerárquicos, es claro que un ángel es padre de otro, como el maestro es padre del
discípulo.65
En su comentario a 1Co 4,15-16, el Aquinate sostiene que el Apóstol puede
atribuirse el título de padre en Cristo de los Corintios porque fue el primero
en predicarles el Evangelio, y que estos, por su parte,
si habían de imitarle como padre, tenía que ser al tanto monta de su imitación de Cristo, que es
de todos el padre principal; con lo que se quita a los súbditos la ocasión de seguir el mal ejemplo
de los prelados. De donde se concluye que los súbditos solo han de imitar a los prelados en lo que
ellos imitan a Cristo, que es regla infalible de la verdad.66
Santo Tomás pone así en relación la paternidad espiritual de Cristo (que a
su vez remite al Padre), de san Pablo y de los “prelados”.
Un acercamiento más específico a la paternidad espiritual del sacerdote se
puede encontrar en la Summa contra Gentiles. Hablando de los sacramentos, el
Aquinate hace un paralelismo entre las tres cosas necesarias para la vida
corporal y natural (generación, robustecimiento y alimentación) y las
necesarias para la vida espiritual:
Así pues, en la vida espiritual, lo primero es la generación espiritual, por el bautismo; lo segundo,
el aumento espiritual, que conduce a la perfecta robustez, por el sacramento de la confirmacion; lo
tercero, el alimento espiritual, por el sacramento de la eucaristía. Queda lo cuarto, que es la salud
espiritual, que se produce, o solamente en el alma, por el sacramento de la penitencia, o del alma
pasa al cuerpo, cuando fuere oportuno, por la extremauncion. Estas cosas, pues, pertenecen a
quienes son engendrados y conservados en la vida espiritual.67
A continuación compara los que causan y acrecientan ambos tipos de vida:
Los propagadores y ordenadores de la vida corporal se consideran en dos aspectos, a saber,
según el origen natural, cosa que pertenece a los padres, y según el régimen político mediante el
cual la vida del hombre se conserva pacíficamente, y esto pertenece a los reyes y príncipes. Pues
así sucede también en la vida espiritual. Porque hay ciertos propagadores y conservadores de la
misma solo según el ministerio espiritual, al cual pertenece el sacramento del Orden; y también
según lo corporal y espiritual juntamente, que se realiza en el sacramento del Matrimonio, por el
cual el hombre y la mujer se unen para engendrar y educar la prole en el culto divino.68
En consecuencia, los ministros ordenados son propagadores y conservadores
de la vida espiritual a través de la administración de los sacramentos.
Ejercen así con respecto a los fieles una paternidad espiritual vinculada al
sacramento del Orden.
VI. DESDE EL CONCILIO DE TRENTO AL CONCILIO VATICANO II
1. El Catecismo Romano
El Concilio de Trento no abordó la cuestión de la paternidad espiritual del
sacerdote. Sin embargo, en uno de sus frutos, el Catecismo Romano
(coloquialmente llamado “de san Pío V” o “de Trento”), al estudiar el
cuarto mandamiento del Decálogo se extiende el título de “padres” a otras
personas, en primer lugar a los obispos y sacerdotes:
Pues además de los que nos dieron el ser, hay en las Sagradas Letras otras clases de padres, que
antes hemos indicado, a cada uno de los cuales se les debe su respectivo honor. Llámanse padres
primeramente los prelados de la Iglesia, los párrocos y los sacerdotes, como consta del Apóstol,
que, escribiendo a los de Corinto, les dice: «No os escribo estas cosas para sonrojaros, sino que os
amonesto como a hijos míos muy queridos. Porque, aunque tengáis millares de ayos, o maestros
en Jesucristo, no tenéis muchos padres; pues yo soy el que os he engendrado en Jesucristo por
medio del Evangelio» (1Co 4,14-15). Y en el Eclesiástico está escrito: «Alabemos a los varones
ilustres, y a nuestros mayores por habernos engendrado» (Si 44,1).69
Se trata de una referencia indirecta a la paternidad espiritual del sacerdote,
fundada en un texto paulino que ya hemos encontrado en varios autores.
Otros números del Catecismo harán referencia a la obligación de los fieles
respecto a los ministros, pero sin mencionar la paternidad.
2. San Juan de Ávila
En 1544 san Juan de Ávila (Almodóvar del Campo, España, 1499
Montilla, España, 1569) escribió lo que, en nuestra opinión, constituye el
tratado más completo hasta aquella fecha sobre la paternidad espiritual del
sacerdote, por lo que nos detendremos a estudiarlo. Se trata de una carta al
dominico Fray Luis de Granada, que comienza así:
Dos cartas de vuestra reverencia he recebido, en las cuales me hace saber del nuevo llamamiento
con que nuestro Señor lo ha llamado para engendrarle hijos a gloria suya: Sit ipse benedictus in
saecula, que no se desprecia de tomar por instrumento de tan gloriosa cosa a una cosa tan baja, y
hablar, siendo Dios, por una lengua de carne y levantar al hombre a que sea órgano de la divina
voz y oráculo del Espíritu Santo. Cristo hombre fue el primero en quien este espíritu lleno y
vivificativo de los oyentes se aposentó, engendrando por la palabra hijos de Dios y muriendo por
ellos, por lo cual mereció ser llamado Pater futuri saeculi. Y porque de Él y de sus bienes hay
comunicación con nosotros, así como nos hizo hijos siendo Él Hijo, y sacerdotes siendo Él
sacerdote.70
Para el santo de Ávila tanto la paternidad espiritual como el sacerdocio
provienen de Cristo, padre para siempre (cfr. Is 9,6), que hace al presbítero
partícipe de sus bienes y lo convierte en continuador de su ministerio,
instrumento de su fecundidad y portador de su Espíritu: «[Cristo] quiso
poner de este espíritu y de esta lengua en algunos, para que, a gloria suya,
puedan gozar del título de padres del espiritual ser, como Él es llamado,
según que san Pablo osadamente afirma: Per Evangelium ego vos genui [1Co
4,15]».71
Pero en última instancia la paternidad de Cristo remite al Padre:
«Teniendo, pues, el espíritu de su Hijo para con Dios, con el cual clamamos:
Abbá! (Pater); teniendo en nuestras entrañas reverencia, confianza y amor
puro para con Dios, como un hijo fiel para con su padre; resta pedirle el
espíritu de padre para con sus hijos que hubiéremos de engendrar».72
Es reseñable la frecuente referencia al Espíritu Santo (apenas mencionado
en autores precedentes), el cual hace como de nexo entre la paternidad del
Padre, del Hijo y del presbítero.
Al igual que san Pablo, el sacerdote está llamado no solo a engendrar sino
también a cuidar sacrificadamente a los fieles hasta ver a Cristo formado en
ellos (cfr. Ga 4,19):
Porque no basta para un buen padre engendrar él y dar la carga de educación a otro; mas con
perseverante amor sufrir todos los trabajos que en criarlos se pasan, hasta verlos presentados en
las manos de Dios, sacándolos de este lugar de peligro, como el padre suele tener gran cuidado
del bien de la hija hasta que la vea casada.73
El ejercicio de esta paternidad es «una particular dádiva de Dios y expresa
la imagen del paternal y cuidadoso amor que [Dios] nos tiene».74 De este
modo el sacerdote podrá a su vez amar a otros hombres y llevarlos a la vida
por muy “obstinados y endurecidos” que estén, porque «más fuerte es Dios
que el pecado; y por eso mayor amor pone a los espirituales padres que el
pecado puede poner desamor a los hijos malos».75 Sin este “corazón de
padre o madre” no se podrían llevar como se deben los trabajos de criar a
los hijos con todos los sinsabores, peligros y cargas que esta crianza
conlleva.76 De hecho –continúa el Doctor de Ávila– estos hijos engendrados
por la Palabra «no tanto han de ser hijos de voz cuanto hijos de lágrimas»,77
de modo que «a paso de gemidos y ofrecimiento de vida da Dios los hijos a
los que son verdaderos padres, y no una, sino muchas veces ofrecen su vida
porque Dios dé vida a sus hijos, como suelen hacer los padres carnales».78
De aquí saca las condiciones que se requieren en el ministro para lidiar
con los pecados y las virtudes de sus fieles, a quienes debe encomendar al
“verdadero Padre”:
a quien quisiere ser padre, conviénele un corazón tierno, y muy de carne, para haber compasión
de los hijos, lo cual es muy gran martirio; y otro de hierro para sufrir los golpes que la muerte de
ellos da, porque no derriben al padre. […] si son buenos hijos, dan un muy cuidadoso cuidado; y
si salen malos, dan una tristeza muy triste y así no es el corazón del padre sino un recelo
continuo, […] que de lo tienen sacado y una continua oración, encomendando al verdadero
Padre la salud de sus hijos, teniendo colgada la vida de él de la vida de ellos, como san Pablo
decía: «Yo vivo, si vosotros estáis en el Señor» [1Ts 3,8].79
Continúa la carta con algunos consejos referidos al contexto de la dirección
espiritual, basados en algunos “yerros” cometidos por el propio maestro de
Ávila. Destacaremos tres: 1) evitar a los que desarrollan una dependencia
hacia sus padres espirituales, pues estos buscan sobre todo el deleite humano
de estar con quien aman más que tomar “cebo con que crecer
espiritualmente”; 2) no remediar necesidades corporales de los dirigidos,
porque de lo contrario suscitarían en ellos la espera de algún favor temporal
y la naturaleza de la relación cambiaría; 3) no comunicar gracias o secretos
especiales que el padre espiritual recibe, porque usualmente los dirigidos
guardan poco lo que se les dice en secreto.80
Para san Juan de Ávila el oficio esencial por el que los eclesiásticos se
llaman padres y pastores es la predicación, que «es el medio para engendrar
y criar hijos espirituales».81 Finalmente, pide al sacerdote tener «tan vivo
sentido y entrañas tan encendidas de caridad, que sienta los males del
mundo como si fuese padre de todo el mundo».82 Este texto es una muestra
más de cómo la paternidad espiritual del sacerdote no es más que un reflejo
de la paternidad de Dios.
En definitiva, san Juan de Ávila toma prácticamente todos los elementos
que hemos visto ahora (salvo la esponsalidad) y los aplica a cualquier
ministro ordenado, resaltando el papel del Paráclito, que hasta él apenas
había sido mencionado.
3. San Juan Eudes
En el capítulo preliminar de su Memorial, san Juan Eudes (Ri, Orne, Francia,
1601 Caen, Calvados, Francia, 1680) habla de un nuevo tipo de
generación realizada por los sacerdotes:
El Padre eterno os asocia a Él en su más alta operación, que es la generación inefable de su Hijo,
al que hace nacer desde toda la eternidad en el seno de su padre; y en su excelentísima cualidad,
que es su divina paternidad, haciéndoos en cierto y admirable modo padres de este mismo Hijo,
ya que os da el poder de formarlo y hacerlo nacer en las almas cristianas, y os ha elegido para
que seáis los padres de sus miembros, que son los fieles, y para que actuéis como verdaderos
padres respecto a ellos. Así que lleváis dentro de vosotros una viva imagen de la paternidad
divina del Padre celestial.83
Además, Cristo hace partícipe al sacerdote de su calidad de mediador entre
Dios y los hombres, de modo que «Vosotros sois su corazón pues por medio
de vosotros da la verdadera vida, la vida de la gracia en la tierra y la vida de
la gloria en el cielo, a todos los verdaderos miembros de su cuerpo».84
En tercer lugar, el sacerdote está también asociado al Espíritu Santo para
iluminar las mentes de los hombres con la luz celestial, encender sus
corazones con el fuego sagrado del amor divino, reconciliar a los pecadores
con Dios, comunicar la gracia, santificar las almas y aplicar a la Iglesia los
frutos de la pasión y muerte de su Redentor.85
Finalmente, basándose en la enseñanza del Pseudo Dionisio, Eudes
relaciona la divinización y la filiación divina con la filiación del presbítero
con el obispo:
Sois dioses porque ocupáis el lugar de Dios en este mundo, estáis revestidos de las cualidades de
Dios, y tenéis poderes que pertenecen a Dios. Sois hijos de Dios, porque sois hijos de los obispos,
que son dioses en grado más eminente. Sois padres de los dioses porque sois padres de los
cristianos, que también son dioses: «Ego diai, dii estis», pero en un grado mucho menor. Un padre,
dice San Gregorio Nacianceno, es Dios que produce dioses: Deus Deos efficiens.86
4. Jean Jacques Olier
Jean Jacques Olier (París, 1608 1657) retoma el papel del sacerdote en la
generación del Hijo que acabamos de ver en san Juan Eudes. Por un lado,
del mismo modo que la Virgen «entró en el poder del Padre eterno para
engendrar a su Verbo, [el sacerdote] también está llamado a compartir con
el Padre eterno el poder de engendrar a su Hijo».87 Por otro lado, el
sacerdote «engendra [al Hijo] cada día en los altares como el Padre eterno
lo engendró en el momento de la resurrección»,88 haciéndolo presente con
la misma gloria que tiene en el seno del Padre. Pero el Padre –continúa
Olier– «no solo asocia al sacerdote el poder de engendrar a su Verbo y de
reproducirlo cada día en la gloria, sino también el de enviar al Espíritu
Santo y darlo a los hombres, de modo que no se reserva nada que no
comparta con el sacerdote».89
Vemos aquí una original fundamentación sacramental de la paternidad
del sacerdote. En primer lugar, la motivación eucarística no se funda en dar
alimento a los fieles sino en hacer descender a Cristo en las especies
sacramentales; en segundo lugar, el envío del Espíritu Santo parece ser una
referencia al sacramento de la confirmación.
Después de la generación de su Palabra y de la misión de su Espíritu, el
Padre «no tiene nada más querido que su Iglesia, a la que forma cada día,
por la virtud de su Palabra, en el santísimo sacramento, y por la eficacia del
Espíritu Santo, por cuyos dones se forma Jesucristo en el corazón de los
fieles; y todo esto solo se hace posible por el ministerio de los sacerdotes».90
Por eso el sacerdote, a través de la predicación de la Palabra, «tiene el poder
de engendrar a Jesucristo en el corazón de la gente».91 Estos dones
requieren del presbítero una vida nueva, enteramente divina, que continúe
en la tierra la vida que Cristo habría querido desarrollar si hubiera sido
querer del Padre.92
5. San Alfonso María de Ligorio
Aunque no sea muy mencionada explícitamente, la paternidad espiritual del
sacerdote permea toda la Práctica del confesor de san Alfonso María de Ligorio
(Nápoles, 1696 1787). Según él, «para cumplir su papel de buen padre, el
confesor debe estar lleno de caridad»,93 manifiestada en una acogida
misericordiosa de los pobres, los incultos y los pecadores con el fin de
atraerlos a Dios. Esta actitud implica no mostrar impaciencia, aburrimiento
o asombro ante los pecados que le manifiestan, así como corregir y exhortar
delicadamente:
Al final de la confesión, es necesario que el confesor haga saber al penitente la gravedad y la
multitud de sus pecados y el miserable estado de condenación en que se encuentra; pero siempre
con caridad. Es cierto que entonces puede emplear palabras más serias para hacerle entrar en
mismo, pero debe hacerle saber que todo lo que le dice no nace de la indignación, sino de un
afecto de caridad y compasión.94
6. Venerable Pío XII
El venerable Pío XII (Roma, 1876 Castel Gandolfo, 1958), en su discurso
del 6 de febrero de 1940 dirigido a los párrocos y predicadores de la
Cuaresma, desarrolló tres dimensiones que definen al párroco: apóstol,
padre y pastor.95 Un año después, en la misma ocasión, insistió sobre el
mismo tema: «vosotros sois los pastores de vuestro rebaño, vosotros sois los
padres de vuestros hijos espirituales, vosotros sois los médicos de las almas
enfermas».96
Encontramos una reflexión más profunda del Papa Pacelli sobre la
paternidad tanto humana como espiritual –fundada cada una en un
sacramento– en su alocución a un grupo de recién casados del 15 de enero
de 1941. Tomando pie de Jn 1,12-23 afirmó:
En estas solemnes palabras del Evangelio de san Juan reconocemos una doble paternidad: la
paternidad de la carne, por voluntad del hombre, y la paternidad de Dios, por el poder del
espíritu y de la gracia divina; dos paternidades que entre el pueblo cristiano crean y sellan con el
sacerdocio y con el matrimonio los padres del espíritu y de la vida sobrenatural, y los padres de
la carne y de la vida natural, con dos sacramentos instituidos por Cristo para su Iglesia, con el fin
de asegurar y perpetuar en los siglos la generación y la regeneración de los hijos de Dios. […]
Dos sacramentos, dos paternidades, dos padres que se hermanan y se completan mutuamente en
la educación de la prole, hija de Dios, esperanza de la familia y de la Iglesia, de la tierra y del
Cielo.97
Por otro lado, en la exhortación apostólica Menti Nostrae, el Pontífice italiano
explicó cómo el celibato es el camino más adecuado para realizar su
paternidad espiritual:
Y porque ha de estar libre de las solicitudes del mundo y consagrado por completo al divino
servicio, la Iglesia instituyó la ley del celibato, para que cada vez se pusiera más de relieve, ante
todos, que el sacerdote es ministro de Dios y padre de las almas. Y gracias a esa ley de celibato, el
sacerdote, lejos de perder por completo el deber de la verdadera paternidad, lo realza hasta lo
infinito, puesto que engendra hijos no para esta vida terrenal y perecedera, sino para la celestial
y eterna.98
Más adelante subra que para proponerse eficazmente la santificación
propia y la de los demás, el sacerdote debe tener una sólida formación en las
ciencias sacras y profanas, de modo que «pertrechado con tales estudios, el
sacerdote, como buen padre de familia, podrá sacar “de su tesoro cosas
nuevas y antiguas” (cf. Mt 13, 52), de tal suerte que su ministerio sea
siempre muy estimado por todos, y resulte fructuoso».99
Finalmente exhorta a los jóvenes seminaristas a obedecer a sus obispos
haciendo referencia a la cita ya comentada de san Ignacio de Antioquía en
su carta a los Esmirniotas:
Que los jóvenes seminaristas se dispongan, ya desde los primeros años a obedecer filial y
sinceramente a sus superiores, de suerte que en su día estén dispuestos a obedecer con la máxima
docilidad a la voluntad de sus obispos, según el mandato del muy invicto atleta de Cristo, Ignacio
de Antioquía: «Obedeced todos al obispo, como Jesucristo a su Padre».100
7. El testimonio de los santos
La exposición que estamos realizando quedaría incompleta si no incluyese
al menos una mención a la vida de los santos, auténtica fuente de la teología
espiritual. Entre los muchos ejemplos que se podrían mencionar hemos
seleccionado tres sacerdotes correspondientes al periodo histórico que
estudiamos en el presente apartado: san Felipe Neri, san Juan Bosco y san
Juan Bautista María Vianney.
Aunque san Felipe Neri (Florencia, 1515 Roma, 1595) quemó todo lo
que había escrito, sus biografías muestran cómo su fecunda vida sacerdotal
estuvo fundamentada en la paternidad espiritual.101 En efecto, el único
apelativo con que quería ser llamado era el de “padre”, porque “suena a
amor”,102 y así solían llamarlo sus contemporáneos.103 De ahí sacaba fuerzas
para volcarse en el cuidado espiritual y corporal del prójimo, concretado en
las muchas horas al día que pasaba en el confesionario y en las visitas diarias
a los enfermos. Como guía espiritual tenía el carisma de penetrar en el
corazón de los hombres (especialmente de sus penitentes), y supo combinar
la exigencia con el respeto a la libertad de sus acompañados,
comunicándoles su propia experiencia de la misericordia del Padre y
abriéndoles perspectivas de amor a Dios y a los demás hombres.
El 24 de mayo de 1989, el Papa san Juan Pablo II proclamó oficialmente
a san Juan Bosco (I Becchi, 1815 Turín, 1888) Padre y Maestro de la
Juventud. Este título refleja la actitud del santo piamontés con los jóvenes,
que puso por escrito en su Circular sobre la corrección disciplinaria, dirigida a
directores, prefectos y maestros. Don Bosco afirmaba que para buscar el
auténtico bien de los alumnos y obligarles al cumplimiento de sus deberes
«es menester no olvidemos nunca que representamos a los padres de esta
amada juventud».104 Por eso continúa: «Habéis de ser verdaderos padres de
vuestros alumnos, es preciso que tengáis corazón de padres, y jamás uséis la
reprensión y el castigo sin razón, sin justicia, solamente como quien tiene
que resignarse a ellos por necesidad y para cumplir un doloroso deber».105
San Juan Bosco recomendaba encarecidamente a todos los educadores y
a sus hijos salesianos no castigar nunca a los jóvenes sin antes haber agotado
otros medios, el primero de los cuales es la corrección fraterna llena de
caridad, hecha en privado, en el momento oportuno y evitando todo asomo
de pasión y de enojo, que son incompatibles con un corazón de padre. En
definitiva, se trata considerar hijos a aquellos sobre quienes se ejerce la
autoridad:
Pongámonos a su servicio, cual Jesús, que vino a obedecer y no a mandar, avergonzándonos de
cuanto pueda denotar aire dominador de nuestro porte. No ejerzamos ninguna autoridad sobre
ellos si no es para prestarles nuestro servicio con mayor placer. Así hacía Jesús: tolerando en sus
apóstoles ignorancia, rusticidad y hasta la poca fidelidad; departiendo íntima y familiarmente
con los pecadores, hasta el punto de causar estupor en algunos, escándalo en otros y, en los más,
la santa esperanza del perdón. Jesús nos intima que aprendamos de Él a ser mansos y humildes
de corazón. Luego si son nuestros hijos, sofoquemos todo conato de pasión al tener que
reprender sus yerros […]. Evitad la agitación del ánimo, las miradas despectivas, las palabras
injuriosas. Excitemos en nosotros, para el momento, la compasión; la esperanza para lo por
venir. Y entonces sí que seremos auténticos padres y corregiremos verdadera y eficazmente.106
Mencionamos finalmente a san Juan Bautista María Vianney (Dardilly,
1786 Ars-sur-Formans, 1859), patrono de los párrocos. Al igual que san
Felipe Neri, su principal aportación a nuestro tema no son textos o
reflexiones teológicas sino su propio testimonio de vida y su caridad
pastoral, especialmente desde el confesionario, que se convirtió en «lugar
privilegiado para engendrar a una vida de gracia, una vida con Dios».107
Como consecuencia de su amor a Cristo y su piedad eucarística, el santo
Cura de Ars supo transmitir el amor del Padre de modo maduro, animante,
exigente y misericordioso, corrigiendo a cada alma, buscando la voluntad de
Dios para ella, respetando sus decisiones y evitando apegamientos.
VII. CONCILIO VATICANO II
El Concilio Vaticano II ha hecho numerosas referencias explícitas a la
paternidad espiritual del sacerdote, fundada principalmente en su
participación en la consagración y la misión de Jesucristo. Debido a la
importancia de esta profundización magisterial nos detendremos a estudiar
los tres documentos que la han abordado, asumiendo que repetiremos
varios argumentos ya explicados.
1. Constitución dogmática Lumen gentium
Al inicio de la Constitución dogmática Lumen gentium108 leemos que el Padre
Eterno decidió libremente elevar a los hombres a participar de la vida
divina y que, tras el pecado original, no los abandonó, sino que les envió a
Cristo Redentor, por medio del cual hemos sido hechos hijos adoptivos (cfr.
nn. 2-3). De este modo, paternidad, filiación y redención son puestas en
relación con un mismo designio divino en Cristo.
Además, el Padre determinó convocar a los creyentes en Cristo en la
santa Iglesia, que es la «casa del Padre» (n. 2), donde habita su familia (cfr.
n. 6). Puesto que la Iglesia está jerárquicamente estructurada, el Señor
Jesucristo está presente en medio de los fieles en la persona de los obispos, a
quienes asisten los presbíteros, por medio de los cuales predica, administra
los sacramentos, y –por medio de su “oficio paternal” (cfr. 1Co 4,15)–
congrega nuevos miembros a su Cuerpo con regeneración sobrenatural (cfr.
n. 21). Poco más adelante la Constitución retoma la figura del padre al
exhortar a que «el Obispo, enviado por el Padre de familias a gobernar su
familia, tenga siempre ante los ojos el ejemplo del Buen Pastor, que vino no
a ser servido, sino a servir (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) y a dar la vida por sus
ovejas (cfr. Jn 10,11)» (n. 27).
Esta paternidad espiritual del obispo se expresa de modo particular con
respecto a los presbíteros, que han de reconocerlo como padre,
recíprocamente a como el obispo los considera sus hijos (cfr. n. 28).
Un poco más adelante el documento magisterial hace una mención a la
paternidad espiritual de los presbíteros: «Respecto de los fieles, a quienes
han engendrado espiritualmente por el Bautismo y la doctrina (cfr. 1Co
4,15; 1P 1,23), tengan la solicitud de padres en Cristo» (n. 28). En el
capítulo IV vuelve sobre esta idea instando a los pastores a que «consideren
atentamente ante Cristo, con paterno amor, las iniciativas, los ruegos y los
deseos provenientes de los laicos (cfr. 1Ts 5,19; 1Jn 4,1)» (n. 37).
Finalmente, en el capítulo V se pone en relación la paternidad sacerdotal
con el celibato al afirmar: «Esta perfecta continencia por el Reino de los
Cielos siempre ha sido tenida en la más alta estima por la Iglesia, como
señal y estímulo de la caridad y como un manantial extraordinario de
espiritual fecundidad en el mundo» (n. 42).
2. Decreto Christus Dominus
El Decreto Christus Dominus109 sobre el ministerio pastoral de los obispos
emplea expresiones similares a Lumen gentium:
En el ejercicio de su ministerio de padre y pastor, compórtense los obispos en medio de los suyos
como los que sirven, pastores buenos que conocen a sus ovejas y son conocidos por ellas,
verdaderos padres, que se distinguen por el espíritu de amor y preocupación para con todos, y a
cuya autoridad, confiada por Dios, todos se someten gustosamente. Congreguen y formen a toda
la familia de su grey, de modo que todos, conscientes de sus deberes, vivan y obren en unión de
caridad (n. 16).
Esta disposición paternal debe ser especialmente viva con los presbíteros
que colaboran con él como sus “hijos y amigos”, tratándolos siempre con
“caridad especial” y mostrándose siempre dispuesto a escucharlos y a velar
por «su condición espiritual, intelectual y material, para que ellos puedan
vivir santa y piadosamente, cumpliendo su ministerio con fidelidad y éxito»
(n. 16). No se trata por tanto de una paternidad genérica o abstracta sino de
una realidad concreta y objetiva, como si de una familia natural se tratara.
En este sentido, el Decreto conciliar expresa que los sacerdotes diocesanos,
«estando incardinados o dedicados a una Iglesia particular, se consagran
totalmente al servicio de la misma, para apacentar una porción del rebaño
del Señor; por lo cual constituyen un presbiterio y una familia, cuyo padre
es el obispo» (n. 28).
3. Decreto Presbyterorum Ordinis
En el segundo capítulo del Decreto Presbyterorum Ordinis110, titulado
“Ministerio de los presbíteros”, se afirma que estos, «ejerciendo según su
parte de autoridad el oficio de Cristo Cabeza y Pastor, reúnen, en nombre
del obispo, a la familia de Dios, como una fraternidad unánime, y la
conducen a Dios Padre por medio de Cristo en el Espíritu […]
enseñándolos y amonestándolos como a hijos amadísimos» (n. 6).
Específicamente, con respecto a los laicos, «por razón del Sacramento del
Orden ejercen el ministerio de padre y de maestro, importantísimo y
necesario en el pueblo y para el Pueblo de Dios» (n. 9). Recíprocamente,
continúa el Decreto, «los fieles cristianos, por su parte, han de sentirse
obligados para con sus presbíteros, y por ello han de profesarles un amor
filial, como a sus padres y pastores» (n. 9).
VIII. MAGISTERIO POSCONCILIAR
Los cuatro pontífices posteriores al Concilio Vaticano II han hecho
referencia a la paternidad espiritual del sacerdote, cada uno desde puntos de
vista distintos y complementarios.
1. San Pablo VI
Al plantearse las relaciones entre la Iglesia y el mundo en la encíclica
Ecclesiam suam, san Pablo VI (Concesio, Brescia, 1897 Roma, 1978) afirma
la paternidad del sacerdote a la vez que subraya la igualdad fundamental de
todos los bautizados: «hace falta hacerse hermanos de los hombres en el
momento mismo que queremos ser sus pastores, padres y maestros».111
Pero es al abordar el celibato en la encíclica Sacerdotalis caelibatus cuando
Pablo VI hace las menciones más explícitas a nuestro tema de estudio. El
Pontífice parte de la regeneración de la humanidad obtenida por el Hijo de
Dios mediante su Encarnación y Redención. El celibato sacerdotal
constituye un cauce privilegiado para la transmisión de esta nueva forma de
vida sobrenatural, porque manifiesta «el amor virginal de Cristo a su Iglesia
y la virginal y sobrenatural fecundidad de esta unión por la cual los hijos de
Dios no son engendrados ni por la carne ni por la sangre (cfr. Jn 1,13)».112
Al renunciar al amor legítimo de una familia propia por amor de Cristo y
de su reino, la persona célibe halla «la gloria de una vida en Cristo
plenísima y fecunda porque como Él y en Él ama y se da a todos los hijos de
Dios».113 El celibato se presenta en definitiva «como expresión de una más
alta y vasta paternidad, una plenitud y delicadeza de sentimientos, que lo
enriquecen [al sacerdote célibe] en medida superabundante».114
2. San Juan Pablo II
San Juan Pablo II (Wadowice, Polonia, 1920 Roma, 2005) desarrolla
algunos aspectos de la doctrina conciliar sobre la paternidad espiritual en el
sacerdocio ministerial. Debido a la extensión de su magisterio dividiremos
este apartado en dos secciones, una dedicada al obispo y otra al presbítero.
a) Paternidad espiritual del obispo
En Pastores dabo vobis Juan Pablo II afirma que al obispo, «que es padre y
amigo en su presbiterio, le corresponde, ante todo, la solicitud de dar
continuidad al carisma y al ministerio presbiteral, incorporando a él nuevos
miembros con la imposición de las manos».115
Una década más tarde profundizará en la paternidad episcopal en su
exhortación apostólica Pastores gregis. Tomando pie de las citas de san
Ignacio de Antioquía y de la Didascalia de los Apóstoles ya estudiadas, afirma:
Es muy antigua la tradición que presenta al obispo como imagen del Padre, el cual, como
escribió san Ignacio de Antioquía, es como el obispo invisible, el obispo de todos. Por
consiguiente, cada obispo ocupa el lugar del Padre de Jesucristo, de tal modo que, precisamente
por esta representación, debe ser respetado por todos. Por esta estructura simbólica, la cátedra
episcopal, que especialmente en la tradición de la Iglesia de Oriente recuerda la autoridad
paterna de Dios, solo puede ser ocupada por el obispo. De esta misma estructura se deriva para
cada obispo el deber de cuidar con amor paternal al pueblo santo de Dios y conducirlo, junto
con los presbíteros, colaboradores del obispo en su ministerio, y con los diáconos, por la vía de la
salvación. Viceversa, como exhorta un texto antiguo, los fieles deben amar a los obispos, que son,
después de Dios, padres y madres. […] El Obispo, actuando en persona y en nombre de Cristo
mismo, se convierte, para la Iglesia a él confiada, en signo vivo del Señor Jesús, Pastor y Esposo,
Maestro y Pontífice de la Iglesia.116
Más adelante aplica esta paternidad a diferentes ámbitos del ejercicio de su
ministerio: cuando preside las celebraciones litúrgicas en las que se presenta
visiblemente como el padre y pastor de los fieles,117 cuando vela por una
adecuada distribución del presbiterio para que los fieles puedan acceder a la
Eucaristía,118 cuando se comporta como “quien sirve” inspirándose en el
ejemplo del Buen Pastor119 y cuando anuncia el Evangelio:
La actividad evangelizadora del obispo, orientada a conducir a los hombres a la fe o
robustecerlos en ella, es una manifestación preeminente de su paternidad. Por tanto, puede
repetir con Pablo: «Pues aunque hayáis tenido diez mil pedagogos en Cristo, no habéis tenido
muchos padres. He sido yo quien, por el Evangelio, os engendré en Cristo Jesús» (1Co 4,15).
Precisamente por este dinamismo generador de vida nueva según el Espíritu, el ministerio
episcopal se manifiesta en el mundo como un signo de esperanza para los pueblos y para cada
persona.120
Respecto a sus presbíteros, el obispo ha de comportarse siempre «como
padre y hermano que los quiere, escucha, acoge, corrige, conforta, pide su
colaboración y hace todo lo posible por su bienestar humano, espiritual,
ministerial y económico».121
Finalmente, el Pontífice polaco pone en relación esta paternidad
espiritual del obispo con su filiación con respecto a Dios y a la Iglesia, ya
que
el obispo se convierte en “padre” precisamente porque es plenamente “hijo” de la Iglesia. Se
plantea así la relación entre el sacerdocio común de los fieles y el sacerdocio ministerial: dos
modos de participación en el único sacerdocio de Cristo, en el que hay dos dimensiones que se
unen en el acto supremo del sacrificio de la cruz.122
b) Paternidad espiritual del presbítero
Muchas de las características del obispo apenas mencionadas son
directamente aplicables a todo ministro ordenado, pero Juan Pablo II ha
hecho numerosas menciones específicas al sacerdote. Aquí haremos solo una
selección, que incluye prácticamente todos los elementos que hemos
encontrado en nuestro recorrido histórico.
En una homilía predicada en 1985, después de hablar de las figuras
paternas de Abraham y José, el Pontífice polaco se refirió a nuestro tema de
estudio en un denso párrafo en que pone en relación la paternidad del
sacerdote con la vocación sacerdotal, el celibato y la misión de generar y
educar a los fieles en Cristo:
También ellos [los presbíteros] han hecho una “alianza de paternidad” con Dios, gracias a la
cual muchas almas han sido generadas a una nueva vida en Cristo. Es una verdadera paternidad
espiritual la del ministro de Dios. San Pablo se refería a ello cuando exclamaba con orgullo:
«Pues, aunque tengáis diez mil pedagogos en Cristo, no tenéis muchos padres, porque yo os
engendré en Cristo Jesús por medio del Evangelio» (1Co 4,14-15). Y como también en el plano
sobrenatural, como en el natural, la misión de la paternidad no termina con el acontecimiento
del nacimiento, sino que se extiende para abarcar en cierto modo toda la vida, el Apóstol podía
dirigirse a sus cristianos con esa otra vibrante apóstrofe: «Hijos míos, por quienes padezco otra
vez dolores de parto, hasta que Cristo esté formado en vosotros» (Ga 4,19). El ministerio del
sacerdote es un ministerio de paternidad. Entender esto significa también comprender el
significado profundo de ese pacto especial con Dios que es el celibato. Es una alianza paterna
que, si se vive con fe, «esperando contra toda esperanza», se revela extraordinariamente fecunda:
como Abraham, también el sacerdote se convierte en «padre de muchos pueblos» (Rm 4,18), y
encuentra en las generaciones de cristianos que florecen a su alrededor la recompensa al trabajo,
a la renuncia y al sufrimiento de su servicio cotidiano.123
En otra ocasión añadirá a la paternidad una dimensión eucarística:
Es la gracia de la ordenación la que da al sacerdote un sentido de paternidad espiritual, por el
que, como padre, se presenta a las almas y las conduce por el camino del cielo; pero es la caridad
eucarística la que renueva y fecunda diariamente su paternidad, la que lo transforma cada vez
más en Cristo, y como Cristo, hace que se convierta en el pan de las almas, su sacerdote, sí, pero
también su víctima, porque para ellos se consume voluntariamente, imitando al que dio su vida
por la salvación del mundo.124
Este enraizamiento de la paternidad sacerdotal en la gracia de la
ordenación y, por tanto, en la identidad sacerdotal, volverá a aparecer siete
años más tarde en Pastores dabo vobis, donde señala la paternidad como un
rasgo distintivo del presbítero125, pone en relación el celibato con la
paternidad de Dios y la fecundidad de la Iglesia126, y atribuye al presbítero
elementos esponsales y maternales:
[El presbítero] está llamado a revivir en su vida espiritual el amor de Cristo Esposo con la Iglesia
Esposa. Su vida debe estar iluminada y orientada también por este rasgo esponsal, que le pide
ser testigo del amor de Cristo como Esposo y, por eso, ser capaz de amar a la gente con un
corazón nuevo, grande y puro, con auténtica renuncia de sí mismo, con entrega total, continua y
fiel, y a la vez con una especie de “celo” divino (cfr. 2Co 11,2), con una ternura que incluso
asume matices del cariño materno, capaz de hacerse cargo de los «dolores de parto» hasta que
«Cristo no sea formado» en los fieles (cfr. Ga 4,19).127
Ya unos años antes el Pontífice había señalado esos rasgos maternales, según
el modelo de Santa María:
Es necesario profundizar de nuevo en esta verdad misteriosa de nuestra vocación: esta
“paternidad en el espíritu”, que a nivel humano es semejante a la maternidad. Por lo demás,
Dios Creador y Padre ¿no hace Él mismo la comparación entre su amor y el de las madres? (cfr.
Is 49,15; 66,13). Se trata, por tanto, de una característica de nuestra personalidad sacerdotal, que
expresa precisamente su madurez apostólica y su fecundidad espiritual. Si toda la Iglesia
«aprende de María la propia maternidad» (san Juan Pablo II, Carta Enc. Redemptoris Mater, 25-
III-1987, n. 43), ¿no es conveniente que lo hagamos también nosotros [los sacerdotes]? Es
preciso, pues, que cada uno de nosotros “la reciba en su casa” (cfr. Jn 19, 27). Así como la recibió
el Apóstol Juan en el Gólgota, es decir, que cada uno de nosotros permita a María que ocupe un
lugar “en la casa” del propio sacerdocio sacramental, como madre y mediadora de aquel «gran
misterio» (Ef 5,32), que todos deseamos servir con nuestra vida.128
Mencionamos finalmente la exhortación apostólica Familiaris consortio,
donde el Papa Wojtyla escribió que la persona que vive el celibato por el
Reino de los Cielos, aun habiendo renunciado a la fecundidad física, «se
hace espiritualmente fecunda, padre y madre de muchos, cooperando a la
realización de la familia según el designio de Dios».129 De esta manera el
celibato ha de ser considerado por el sacerdote «como don inestimable de
Dios, como “estímulo de la caridad pastoral”, como participación singular
en la paternidad de Dios y en la fecundidad de la Iglesia, como testimonio
ante el mundo del Reino escatológico».130
3. Benedicto XVI
La mayor parte de las alusiones de Benedicto XVI (Marktl, Alemania, 1927
Roma, 2022) a la paternidad espiritual del ministro ordenado hacen
referencia a la relación del obispo con su presbiterio. Mencionando el gesto
del sacerdote de poner sus manos entre las del obispo el día de su
ordenación presbiteral, el Pontífice alemán afirmaba que este gesto que
compromete a ambos es «una tarea solemne que se configura para el obispo
como responsabilidad paterna en la custodia y promoción de la identidad
sacerdotal de los presbíteros encomendados a su solicitud pastoral».131 Y es
que «el ejercicio atento y cordial de la paternidad del obispo constituye un
elemento fundamental para el éxito de una vida sacerdotal»,132 mientras que
los presbíteros se benefician enormemente de la paternidad y guía fraterna
de su obispo.133 A su vez, «la paternidad y la fraternidad en Cristo son las
que dan al superior la capacidad de crear un clima de confianza, de
acogida, de afecto, y también de franqueza y de justicia».134 Por todo esto
Bene dicto XVI exhortaba a unos obispos en visita ad limina a «ser siempre
auténticos padres de sus presbíteros»,135 con los que les une un vínculo ante
todo sacramental.
El Papa Ratzinger habló también de la relación del obispo con su pueblo,
basada en el consejo, la persuasión, el ejemplo, la autoridad y la potestad
sagrada «para hacer que la grey encomendada a vosotros progrese en la
santidad y en la verdad. Este será el modo más adecuado para ejercer en
plenitud la paternidad propia del obispo con respecto a los fieles».136
Respecto a los presbíteros, el Pontífice alemán hizo mención del papel
paternal que están llamados a desempeñar en el sacramento de la
Penitencia, a través del cual los hombres experimentan «el abrazo con el
que el padre acoge al hijo pródigo, restituyéndole la dignidad filial y la
herencia (cfr. Lc 15,11-32)».137
4. Francisco
Para Francisco (Buenos Aires, 1936) el ejercicio de la paternidad espiritual
llena el ministerio del sacerdote de una profunda “alegría de la paternidad”,
que consiste en dar vida a los demás y que es necesaria para alcanzar la
madurez del sacerdote.138 Relaciona esa alegría con la fidelidad a la “única
Esposa”, que es la Iglesia:
Los hijos espirituales que el Señor le da a cada sacerdote, los que bautizó, las familias que
bendijo y ayudó a caminar, los enfermos a los que sostiene, los jóvenes con los que comparte la
catequesis y la formación, los pobres a los que socorre… son esa “Esposa” a la que le alegra
tratar como predilecta y única amada y serle renovadamente fiel. Es la Iglesia viva, con nombre
y apellido, que el sacerdote pastorea en su parroquia o en la misión que le fue encomendada, la
que lo alegra cuando le es fiel, cuando hace todo lo
que tiene que hacer y deja todo lo que tiene que dejar con tal de estar firme en medio de las
ovejas que el Señor le encomendó: Apacienta mis ovejas (cfr. Jn 21,16.17).139
Como se ve, Francisco equipara el papel paternal del sacerdote con su oficio
de buen pastor a imagen de Cristo. Con expresión gráfica afirma que «si
Jesús está pastoreando en medio de nosotros, no podemos ser pastores con
cara de vinagre, quejosos ni, lo que es peor, pastores aburridos. Olor a oveja
y sonrisa de padres».140 En efecto,
su rebaño es su familia y su vida. […] Con mirada amorosa y corazón de padre, acoge, incluye,
y, cuando debe corregir, siempre es para acercar; no desprecia a nadie, sino que está dispuesto a
ensuciarse las manos por todos. El Buen Pastor no conoce los guantes. Ministro de la comunión,
que celebra y vive, no pretende los saludos y felicitaciones de los otros, sino que es el primero en
ofrecer la mano, desechando cotilleos, juicios y venenos. Escucha con paciencia los problemas y
acompaña los pasos de las personas, prodigando el perdón divino con generosa compasión. No
regaña a quien abandona o equivoca el camino, sino que siempre está dispuesto para reinsertar y
recomponer los litigios.141
En línea con esta última idea, el Papa argentino decía a los que se iban a
ordenar presbíteros: «en el confesonario estaréis para perdonar, no para
condenar. Imitad al Padre que nunca se cansa de perdonar».142 Los
sacerdotes han de aprender a «acompañar, cuidar y vendar las heridas de su
pueblo […] con el abrazo reconciliador del padre que sabe de perdón (cfr.
Lc 15,20)»;143 han de ser testigos y ministros de la misericordia del Padre
que ellos mismos han experimentado.144 Esto está relacionado con la
fecundidad, porque «cuando [los sacerdotes] actuamos con misericordia,
como en los milagros de la multiplicación de los panes, que nacen de la
compasión de Jesús por su pueblo y por los extranjeros, los panes se
multiplican a medida que se reparten».145
Por estas razones, Francisco aconseja a los futuros presbíteros a seguir el
“estilo de Dios” caracterizado por la «compasión tierna, con esa ternura de
familia, de hermanos, de padre… con esa ternura que te hace sentir que
estás en la casa de Dios».146
Francisco subraya también la paternidad espiritual de los obispos, pues
«es Cristo el que, en la paternidad del obispo, añade nuevos miembros a su
cuerpo, que es la Iglesia».147 Por eso en la homilía de una ordenación
episcopal decía al ordenando: «vela con amor por todo el rebaño, en el que
el Espíritu Santo te pone para que gobiernes la Iglesia de Dios en el nombre
del Padre, cuya imagen haces presente».148 Imitando el ejemplo del Buen
Pastor, debe conocer y amar a sus ovejas con amor de padre y de hermano,
de modo particular a los presbíteros y a los diáconos que son sus
colaboradores.149 Recíprocamente, los presbíteros han de «estar cerca del
obispo, que es vuestro padre».150 En su discurso al simposio Por una teología
fundamental del sacerdocio el Papa volvió sobre este vínculo subrayando que el
obispo «no es un supervisor de escuela, no es un vigilante, sino un padre, y
debería ofrecer esta cercanía», y que esta “lógica de las cercanías”, posibilita
al sacerdote «romper toda tentación de encierro, de autojustificación y de
llevar una vida “de solteros” o de “solterones”».151
Finalmente, Francisco propone a los obispos y sacerdotes el modelo de la
paternidad espiritual de san José.152
IX. ESTUDIOS CONTEMPORÁNEOS
Lo primero que llama la atención al estudiar la teología contemporánea es
la ausencia de la voz “paternidad espiritual” en los diccionarios de
espiritualidad o de mística,153 así como en los diccionarios y tratados sobre el
sacerdocio.154 Son numerosos, sin embargo, los estudiosos que la han
abordado desde diversas perspectivas, habitualmente con una estructura
común. Suelen comenzar mencionando la crisis que la paternidad está
atravesando en la actualidad, deteniéndose en sus consecuencias sociales y
psicológicas, especialmente en los jóvenes y en los candidatos al sacerdocio;
a continuación, realizan una fundamentación bíblica, patrística y
magisterial más o menos extensa; y finalmente abordan una perspectiva
específica y extraen consecuencias en función de su particular intención.
Con el fin de no alargarnos ni repetirnos, haremos una selección sin
pretensión de exhaustividad, limitada a los autores que han hecho alguna
contribución original, centrándonos en esta y obviando los elementos
comunes. Por otra parte, estudiaremos solo libros o artículos que han sido
publicados o traducidos en español, italiano e inglés,155 y dejaremos fuera de
nuestro estudio la visión, en parte peculiar, de la paternidad sacerdotal en la
tradición oriental.156
En nuestra opinión, estos autores ofrecen en su conjunto un cuadro
bastante completo que presentaremos por orden cronológico, según el año
de publicación de la edición original de la primera obra que estudiaremos
de cada uno.
1. Thomas E.D. Hennessy
El primer estudio teológico que hemos encontrado en nuestra investigación
es el trabajo de doctorado del dominico Thomas E.D. Hennessy, presentado
en 1947 en la Dominican House of Studies en Washington D.C. con el título The
Fatherhood of the Priest, publicado como artículo en la revista The Thomist157 y
posteriormente en versión casi completa como libro.158
El objetivo que se propone Hennessy es, desde una perspectiva teológica,
«mostrar que el sacerdote es un verdadero padre y no es llamado así
simplemente por una metáfora».159 Comienza presentando la paternidad
como un concepto analógico que admite grados: paternidad divina natural
(del Padre respecto al Hijo), adopción divina (del Padre respecto a los
hombres), paternidad divina sobre todas las criaturas, paternidad humana y
adopción humana.
A continuación, muestra cómo Cristo participa por medio de su
sacerdocio de la paternidad del Padre, y de ahí concluye que el presbítero,
que participa del sacerdocio de Cristo, participa también de la paternidad
divina, que se ve reforzada mediante el ejercicio de su ministerio. Según
Hennessy, para el presbítero «ignorar este papel dado por Dios implica no
entender la naturaleza del sacerdocio, con la consecuente imposibilidad de
cumplir sus sagradas obligaciones», mientras que «el sacerdote que es
consciente no puede dejar de ver su obligación de conformarse más y más
con su divino Modelo»160, es decir, Cristo. Se preocupará por tanto de
ayudar a los hombres con una actitud paternal en su crecimiento
sobrenatural mediante la predicación, el ejemplo y la administración de los
sacramentos. Recíprocamente, los fieles asumirán las obligaciones de amarlo
y respetarlo, propias de un hijo:
cuando los sacerdotes ven en el fiel a su propio hijo espiritual a quien deben alimentar, proteger e
instruir en la vida sobrenatural, entonces solo pueden estar inspirados por una preocupación más
amorosa e integral por los problemas de sus fieles. Cuando esta solicitud paternal se manifiesta
en la vida diaria del sacerdote, surge un vínculo de máxima confianza entre él y el pueblo que los
llevará a presentarle todas sus dificultades como un hijo a su padre; se acercarán siempre al
sacerdote para ese alimento, ánimo y guía que son necesarios para la existencia en la vida
espiritual. Cuando, como sucede hoy, los sacerdotes y los fieles pierden conciencia de sus
respectivas relaciones de padres e hijos, el vínculo más estrecho de confianza mutua entre el
sacerdote y el fiel se ve por tanto aflojado y crece a menudo en su lugar una distancia y
desconfianza.161
Vale la pena señalar que en la bibliografía utilizada por Hennessy no se
encuentra ningún título que haga referencia explícita a la paternidad del
sacerdote. Esto nos lleva a afirmar que este trabajo de Hennessy es una
piedra basilar en el estudio teológico de la paternidad espiritual.
2. Henri J.M. Nouwen
El conocido libro de Henri J.M. Nouwen (Nijkerk, Países Bajos, 1932
Hilversum, Países Bajos, 1996) El regreso del hijo pródigo162 puede considerarse
un clásico de la espiritualidad. Aunque no se trata de un libro académico,
pensamos que vale la pena traerlo a colación por las profundas
implicaciones que este sacerdote extrae de la contemplación del conocido
cuadro de Rembrandt y que propone al lector.
El libro es concebido por el propio Nouwen como el resultado de un
itinerario espiritual. En el apartado conclusivo (“Convertirse en el padre”)
afirma:
Desde el principio estuve preparado para aceptar que tanto la figura del hijo menor como la del
mayor serían aspectos fundamentales de mi viaje espiritual. Durante mucho tiempo, el padre fue
“el otro”, el que me recibiría, me perdonaría, me ofrecería una casa y me daría paz y alegría. El
padre era el lugar al que volver, la meta de mi viaje, la última morada. Fue poco a poco, y en
ocasiones muy dolorosamente, como caí en la cuenta de que mi viaje espiritual jamás estaría
completo mientras el padre siguiera siendo un intruso. […] Pero Rembrandt, que me mostró al
Padre en su dimensión vulnerable, me hizo caer en la cuenta de que mi vocación última es la de
ser como el Padre y vivir su divina compasión en mi vida cotidiana. Aunque sea el hijo menor y
el hijo mayor, no estoy llamado a continuar siéndolo, sino a convertirme en el padre.163
Este es el gran descubrimiento de Nouwen: su vida como sacerdote no ha
de consistir en buscar la conversión de sus propios pecados (papel del hijo
menor) ni en evitar la soberbia al compararse con los demás (papel del hijo
mayor), sino en imitar el amor del Padre que acoge tanto a un hijo como al
otro. Este paso, añade, requiere una reconciliación personal con la figura
paterna, tanto con el padre biológico como con el Padre del Cielo, así como
redescubrir la misericordia divina para donarla a los demás. Para el autor
«convertirse en el Padre celestial no es solo un aspecto importante de las
enseñanzas de Jesús; es el núcleo mismo de su mensaje».164
3. Massimo Camisasca
Mons. Massimo Camisasca (Milán, 1946) es en la actualidad obispo emérito
de Reggio Emilia-Guastalla. En 1985 fundó la Fraternidad Sacerdotal de los
Misioneros de San Carlos Borromeo, inspirada en el carisma de Comunión
y Liberación. En algunas de sus numerosas obras espirituales ha tratado la
paternidad espiritual del sacerdote,165 y aquí veremos su pensamiento en
conjunto.
Su punto de partida es la dificultad que tendrá quien no ha tenido una
experiencia sana de paternidad para entablar una relación con Dios Padre,
para desarrollar un sentido de pertenencia y para convertirse a su vez en
padre, entendido como educador y custodio de la libertad del otro hasta que
se haga autónomo. Es más, para Camisasca la aceptación de la propia
biografía, aunque haya sido fuente de heridas, es necesaria para alcanzar la
madurez humana.
Ahora bien, hablar de paternidad es hablar del misterio de Dios, pues
solo Él es Padre que genera, educa y acompaña sin abandonar nunca. A
través de Cristo ha revelado su paternidad y ha establecido a la Iglesia como
el lugar donde la podemos descubrir, pues genera en la fuente bautismal,
alimenta y sostiene mediante los sacramentos, transmite la herencia de la fe
y la liturgia, educa mediante la predicación y la catequesis, escucha,
consuela, corrige con misericordia, perdona, aconseja y confiere un sentido
de pertenencia recíproca. Y lo hace a través de los sacerdotes, que «son los
servidores de la paternidad de Dios y de la maternidad de la Iglesia».166
De aquí deduce una importante tarea del presbítero tanto en el plano
sobrenatural como en el humano, pues está llamado a ser una figura
paterna para quien no la haya experimentado (que de este modo verá
facilitado su encuentro con Dios), le hará sentir que es amado por mismo,
le reforzará en su libertad, y le ayudará a encontrar su vocación en esta
vida, a enfrentarla sin miedo (como hijo y no como esclavo) y a reconciliarse
con su padre carnal.
Por otro lado, la paternidad espiritual enriquece al mismo sacerdote.
Concretamente da sentido a su celibato, que se hace generativo y fecundo,
movido por el deseo y la pasión de generar a Cristo en el corazón y en la
vida de los hombres. Por el contrario, afirma Camisasca, un sacerdote sin
paternidad no sería más que un eunuco.
En definitiva, Camisasca muestra una “cadena de transmisión de la
paternidad” que arranca en Dios y pasa a Cristo, a la Iglesia y finalmente a
cada sacerdote para llegar a los fieles cristianos. La conciencia de no ser más
que un eslabón hace que el presbítero se vea no como un posesor sino como
un mediador de Cristo, que es el verdadero Salvador, y en última instancia
como un reflejo del Padre eterno.
4. Fernando B. Felices Sánchez
Fernando Benicio Felices Sánchez (San Juan de Puerto Rico, 1953)
concluyó su licenciatura en Teología espiritual en la Universidad Pontifica
Gregoriana en 2004. Profundizando en su tesis de licenciatura publicó dos
años después el libro La Paternidad Espiritual del Sacerdote. Fundamentos teológicos
de la Fecundidad Apostólica Presbiteral.167 La obra tiene por tanto un carácter
eminentemente académico.
Tras la habitual introducción sobre la crisis contemporánea de la
paternidad (y en consecuencia de la fecundidad), el autor trata de
fundamentar la paternidad espiritual del sacerdote en las Sagradas
Escrituras (primer capítulo), los Padres de la Iglesia (segundo capítulo),
algunos teólogos y autores espirituales medievales y modernos (tercer
capítulo) y el magisterio reciente desde Benedicto XV a Juan Pablo II
(cuarto y quinto capítulos). Hasta aquí tiene un carácter recopilatorio, y ha
sido una de las fuentes de que nos hemos servido en los anteriores epígrafes.
El sexto y último capítulo pretende agrupar sintéticamente los hallazgos
del recorrido histórico. Fundamenta la paternidad del sacerdote en la de
Cristo, conectando ambas con la relación esponsal con la Iglesia que ha sido
ya mencionada en las páginas precedentes. Esta paternidad, que no
sustituye a la del Padre sino que lleva hacia Él, se manifiesta en la
transmisión de vida sobrenatural a los hijos de Dios –lo que llena de
fecundidad el celibato– por medio de la dirección espiritual, la predicación,
la celebración de los sacramentos, el papel educativo, el ejercicio de la
autoridad al servicio del bien de los hijos y la caridad pastoral. Felices
Sánchez concluye que
Siempre y cuando tengamos el concepto cristiano de la paternidad muy claro, llamar a los
presbíteros “padres” supone, no solo reunir los conceptos que se encuentran en los demás
“títulos” (Pastor, Maestro, Siervo) sino darles un contexto en la extensa “familia” eclesial. Este
nombre implica la noción de gobierno y au toridad, de liderazgo y servicio a los demás […],
pero también de una autoridad bienhechora. […] El padre de familia también debe ser un
proveedor, un protector: estimula y corrige, reta y protege, da libertad y espera
responsabilidad168.
Señalamos por último que en la bibliografía –que no incluye a Thomas
Hennessy– no hay más citas específicas sobre la paternidad espiritual del
sacerdote que el libro de Camisasca que acabamos de estudiar y el artículo
de Jean-Claude Sagne a que hicimos referencia en la nota 155.
5. John Cihak
John Cihak (San Diego, California, 1970) fue Oficial de la Congregación
para los Obispos y posteriormente Maestro de ceremonias pontificio con
Benedicto XVI y Francisco; actualmente trabaja como capellán de la
escuela Christ the King de Milwaukie (Oregon).
Ha abordado nuestro tema de estudio169 partiendo de la crisis de los
abusos en la Iglesia. Para Cihak, así como la humanidad es un elemento
indispensable en el sacerdocio de Cristo, la solución a esta crisis no vendrá
por cambios en la función del presbítero, sino por el redescubrimiento de su
identidad como hombre, esposo y padre.
El primer elemento, la humanidad, se refiere a la madurez afectiva, que
hace a la persona capaz de entregarse libremente en cuerpo y alma a un
amor responsable y sacrificado, asumir el sufrimiento que esta entrega
pueda requerir, aceptar sus debilidades, luchar contra la concupiscencia con
la ayuda de la gracia, tener una clara identidad sexual y tratar con
naturalidad a las personas del otro sexo. Este acento en la masculinidad es
un elemento original que volveremos a encontrar en autores posteriores.
La dimensión esponsal lleva a una relación con la Iglesia a imagen de
Cristo, el Esposo, que la ama y se entrega por ella. Tiene que ver con el
celibato y, al igual que la esponsalidad humana, incluye un aspecto unitivo
(la fidelidad) y uno procreativo, que da pie al tercer elemento: la paternidad.
Esta consiste en generar hijos a la vida de la gracia, educarlos en la fe y
alimentarlos con los sacramentos, especialmente la Eucaristía.
En definitiva, el sacerdote de Cristo no es un burócrata, un empleado, un
gerente o un carrerista, sino un padre que a imagen del Padre se entrega a sí
mismo por su familia.
6. José Granados García
En el denso artículo Priesthood: A Sacrament of the Father170, José Granados
García, dcjm (Madrid, 1970) comienza afirmando que la crisis actual de la
figura del padre dificulta entender quién es el sacerdote. Sin embargo,
ocurre también lo contrario: el oscurecimiento de la paternidad del
sacerdote dificulta al hombre de hoy entender la paternidad tanto humana
como divina. En consecuencia, una teología del ministerio sacerdotal
requiere una teología de la paternidad, que ayudará a comprender tanto la
identidad como la misión del presbítero.
Después de mostrar la necesidad de la paternidad (tanto para el padre
como para el hijo), Granados toma pie de Is 9,6 («Nos ha nacido un niño,
que se llamará Padre eterno») para evidenciar que la misión de Cristo se
puede comprender en términos de paternidad. Apoya esta afirmación en
otros textos escriturísticos y de la tradición cristiana tanto antigua como
reciente, que muestran que Cristo transmite lo que ha recibido del Padre a
sus discípulos, los cuales establecen una relación filial con el Hijo. Esa
paternidad de Cristo ha de ser llamada espiritual, pues comunica la plenitud
del Espíritu de Dios.
El sacerdote está llamado a representar la entrega de Cristo por el mundo
a través de los sacramentos, la predicación, el servicio, la autoridad
ministerial y, en definitiva, de toda su existencia vivida in persona Christi como
un don total de su persona al Padre en favor de sus hermanos. Granados se
sirve también de la eclesiología paulina del Cuerpo místico (cfr. Col 1,18;
2,18-19; Ef 4,15-16) para ilustrar la relación esponsal de Cristo con la
Iglesia, de la cual participa el sacerdote. La Iglesia no se da vida a misma,
sino que la recibe de Cristo, el cual se hace presente en ella por medio del
presbítero:
El sacerdote, como padre, no solo recibe la vida de Jesús y luego la da a los demás (transmisión
que es propia de todos los cristianos); lo específico del sa cerdote es que transmite la vida con la
originalidad de Cristo mismo, fuente de la gracia, mediante su identificación con Cristo como
cabeza de la Iglesia, in persona Christi capitis.171
Esta paternidad ilumina el celibato sacerdotal, que no es una renuncia sino
una afirmación de amor que se extiende a todas las personas.
Entre las consecuencias para la vida del sacerdote, Granados destaca el
compromiso con el mundo y una participación en las alegrías y sufrimientos
de los demás que abarca toda la existencia del ministro ordenado.
Al igual que hemos visto con Hennessy y Felices Sánchez, en el artículo
de Granados llama la atención la ausencia de referencias a obras que traten
específicamente el tema de estudio, que se limitan al artículo de Camisasca
en Communio del año 2009.
7. Perry J. Cahall
Perry J. Cahall (1974) es un teólogo laico profesor en el Pontifical College
Josephinum de Columbus (Ohio). Sus publicaciones tratan principalmente
sobre el matrimonio, basadas en la teología del cuerpo de san Juan Pablo II,
pero en un artículo publicado en 2011172 abordó la paternidad espiritual en
general y su aplicación al sacerdocio.
Para Cahall todo hombre está llamado a la paternidad espiritual, es decir,
a realizarse como esposo y como padre dando vida a través del don de sí.
Esta paternidad es más difícil que la biológica, porque supone no solo la
generación física, sino que se concreta en el amor a la esposa, en la
enseñanza, la guía, la misericordia y el autosacrificio. Para llegar a ser
padre, sin embargo, la persona necesita antes asumir una identidad de hijo
y hermano, lo que requiere una relación sana con Dios Padre, con Jesucristo
Señor y hermano, y con su familia natural, sanando si fuese necesario
eventuales heridas.
El sacerdote célibe no genera hijos biológicos, pero no puede ignorar o
renunciar a esta necesidad generativa, que satisface cuando vive las cuatro
dimensiones de la paternidad espiritual: ama a su esposa, la Iglesia, por medio
de la cual otorga la vida a los cristianos; es maestro y guía de los fieles en su
camino hacia la casa del Padre, con firmeza pero respetando su libertad; se
muestra misericordioso con los que sufren y los que yerran, a imagen del Padre,
y está siempre dispuesto a ofrecerles el perdón, sobre todo en el sacramento
de la Reconciliación; por último, el sacerdote se sacrifica abnegadamente para
engendrar y alimentar a su progenie (especialmente por medio de los
sacramentos), dejando de lado sus propios deseos y ambiciones, y a veces
incluso sus necesidades personales. A lo largo del texto presenta la figura de
san José como modelo de paternidad espiritual.
8. Antonio Mendoza
Antonio Mendoza, sacerdote de la diócesis de Tuxtla Gutiérrez (México),
publicó en 2011 un artículo titulado De la filiación a la paternidad en la vida y
ministerio del presbítero.173 Comienza evidenciando las consecuencias que la
crisis contemporánea de la paternidad ha tenido en la vida eclesial: crítica a
un modelo supuestamente autoritario y paternalista de Iglesia,
cuestionamiento de la autoridad del Papa y los obispos, autoritarismo en
algunos pastores y pusilanimidad en otros debido a un vacío afectivo
derivado de sus malas experiencias filiales, búsqueda compensatoria de un
placer insano y dificultad para entender la bondad de Dios Padre.
Propone como remedio la paternalización del sacerdote, un proceso
dinámico que permita al ministro ordenado el paso de la experiencia de
filiación a la experiencia de paternidad. El punto de partida es la
configuración con Cristo, que se sabe hijo de Dios y, en lo humano, también
hijo de María y de José, a quienes obedeció libremente. El presbítero, por
tanto, está llamado a
recuperar su memoria histórica personal y familiar para sanar (según el caso) la experiencia
humana de filiación; memoria que le recuerde que siempre es hijo, pues jamás deja de ser hijo; la
recuperación gradual del amor paterno-materno humano fortalece su pertenencia a una familia,
además fortalece su identidad, y como consecuencia lógica fortalece su pertenencia a un
presbiterio y a la Iglesia.174
Esta experiencia de ser hijo, de tener un padre y un Padre, le permitirá
reflejar en mismo la perfección humana del hijo de Dios hecho hombre.
La vivencia de filiación abrirá además las puertas a la vivencia de la
paternidad, que pone en relación con el celibato, pues este no es estéril sino
«la experiencia intensa de una filiación divina que le permite ejercer una
auténtica paternidad que le da sentido a su vida»175 y que se extiende a
todos los hombres mediante la caridad pastoral.
Una vivencia adecuada de la filiación-paternidad, concluye Mendoza,
ayudará al presbítero a integrar obediencia y libertad, heteronomía y
autonomía, dependencia e independencia, servicio y autoridad, santidad y
pecado, debilidad y misericordia.
Entre las peculiaridades de este texto señalamos su perspectiva a la vez
teológica y psicológica, así como el carácter dinámico que concede a la
paternidad, entendida no como un hecho sino como un itinerario.
9. Carter H. Griffin
Carter Harrell Griffin, sacerdote de la diócesis de Washington DC, realizó
su tesis de doctorado en Teología en la Universidad Pontificia de la Santa
Cruz sobre la paternidad espiritual en el sacerdocio célibe, basándose en el
pensamiento de santo Tomás de Aquino.176 Unos años después volvió sobre
el tema con un enfoque más divulgativo y añadiendo algunos argumentos
nuevos.177
Basándose en las obras del Aquinate, Griffin afirma que la diferencia
sexual es una perfección de la especie humana, en la que la generación tiene
una modalidad activa (la paternidad, propia de la masculinidad y de Dios
Padre) y una pasiva (la maternidad, propia de la feminidad). A
continuación, estudia la paternidad divina, tanto la del Padre como la que el
Hijo lleva a cabo a través de su relación esponsal con la Iglesia. Continúa
explicando la paternidad de las criaturas (los ángeles, los hombres y los
animales), distinguiendo en el hombre una paternidad biológica
(procreación), una natural (cuidado y educación) y una sobrenatural en el
orden de la gracia. A esta última pertenece la paternidad del sacerdote (de
la que muestra los fundamentos bíblicos y patrísticos), que lo configura con
Cristo Cabeza al permitirle generar y cuidar hijos espirituales (todo lo cual
es facilitado por el don del celibato) a la vez que lo afianza en su
masculinidad.
Ofrece algunas consecuencias prácticas para la selección y formación de
los candidatos al sacerdocio. La paternidad, afirma, proporciona una
identidad sólida, supone un impulso para la entrega a los fieles, y la
capacidad de ejercerla es un criterio de idoneidad para los aspirantes a las
sagradas órdenes. Además, propone la paternidad espiritual como un
remedio frente a los riesgos de narcisismo, clericalismo y activismo del
sacerdote, y en consecuencia como un modo de prevenir los distintos tipos
de abuso.
El trabajo de Griffin es reseñable desde varios puntos de vista. Por un
lado, realiza una sólida fundamentación teológica que incluye y supera
todos los trabajos anteriores que hemos estudiado: la paternidad espiritual
del sacerdote tiene su origen en el Padre a través del Hijo y de su relación
esponsal con la Iglesia, tiene raíces bíblicas y patrísticas, y ayuda a la
identidad y a la misión del presbítero. Por otro lado, subraya la especificidad
de la paternidad masculina, así como su complementariedad con un modo
femenino de ejercer la generatividad. Reseñamos finalmente que es el único
de los trabajos estudiados hasta ahora que cita a Hennessy (al que en cierto
modo rescata del olvido), y que en ámbito norteamericano se ha convertido
en punto de referencia obligado en trabajos posteriores.178
10. Rafael F. Carrascosa Salmoral
Rafael Francisco Carrascosa Salmoral (Madrid, 1971) realizó su tesis de
doctorado en Teología litúrgica en la Universidad Pontificia de la Santa
Cruz sobre la paternidad espiritual en los ritos de ordenación episco pal y
presbiteral.179 En el primero de los cinco capítulos de este trabajo realiza un
estudio bíblico-histórico de los fundamentos escriturísticos, patrísticos y
magisteriales de nuestro tema de estudio, que nos han sido de utilidad en los
apartados anteriores del presente artículo.
La mayor parte de la tesis se dedica a estudiar los pasajes del Pontifical
Romano en que se expresa –de forma explícita o implícita– la paternidad
que están llamados a ejercer el obispo y el sacerdote que están recibiendo la
ordenación. Asimismo, estudia las dimensiones de la paternidad del
sacerdote que se deducen de los textos estudiados, que se resumen en
cuatro: trinitaria, eclesial, eucarística y pastoral. De acuerdo con el adagio
lex orandi, lex credendi, esta parte del trabajo de Carrascosa confirma los
hallazgos del primer capítulo y lleva a la conclusión de que «la paternidad
es una dimensión de la que no se puede prescindir a la hora de dibujar los
rasgos del sacerdocio cristiano».180
11. Pavel Syssoev
El dominico Pavel Syssoev (Vilnius, 1977) ha escrito un libro relativamente
breve pero muy completo en el que aborda nuestro tema de estudio.181
Como indica el título, La paternidad espiritual y sus perversiones, se propone
abordar los abusos tanto espirituales como sexuales cometidos en nombre
de la paternidad, y a eso dedica la segunda mitad del libro (capítulos “Las
patologías de la paternidad” y “Causas de las patologías y vías de
curación”). Pero para Syssoev «si el dominio espiritual resulta tan
monstruoso es porque parasita un bien»,182 y a estudiar ese bien dedica la
primera mitad del libro (capítulos “Qué es la paternidad espiritual” y “Los
tipos de acompañamiento”). Puesto que no se limita a demostrar esta
paternidad en el sacerdote, sino que se detiene a describir los rasgos a
fomentar y a evitar, nos detendremos algo más en este autor.
Su estudio parte de la paternidad de Dios tal como aparece ya en el
Antiguo Testamento y nos ha sido plenamente revelada por Cristo, que nos
invita a participar de su filiación natural como hijos adoptivos mediante un
nuevo nacimiento que es obra del Espíritu. Esa paternidad divina es
fundamento de cualquier paternidad humana (cfr. Ef 3,14-15), que queda
así elevada. La paternidad biológica es la forma más evidente de paternidad
humana pero no la única, pues, así como los padres están llamados también
a educar a sus hijos, a insertarlos en una cultura, etc., existe una paternidad
espiritual que consiste en engendrar hijos a una nueva vida, la divina.
Ejemplos de esa paternidad son san José, los textos paulinos ya
mencionados y varias figuras de la historia de la Iglesia que van desde los
padres del desierto (la gran mayoría de los cuales no eran ministros
ordenados) a los sacerdotes y obispos, sin olvidar tantos hombres y mujeres
que han contribuido a que otros experimentaran el nuevo nacimiento de
que habló Jesús a Nicodemo. Ahora bien, el sacerdote recibe una especial
configuración con Cristo (especialmente con su tria munera), de quien recibe
una tarea pastoral al servicio de sus hermanos los hombres: engendrar hijos
para Dios por medio de los sacramentos (sobre todo el Bautismo), la
predicación y el gobierno.
Como participación de la paternidad de Dios, prosigue el dominico
lituano, la paternidad espiritual tiene como características la imperfección
(solo Dios es Padre en sentido absoluto y completo), la multiplicidad (no es
llevada a cabo por una misma persona durante toda la vida) y la
complementariedad (no invade terrenos que corresponden a otros,
especialmente a Dios y a los padres biológicos).
Syssoev menciona tres modos de ejercitar la paternidad espiritual: la
confesión, el consejo espiritual y el acompañamiento o dirección espiritual.
Añade algunas precauciones para alejar el riesgo de abuso, como evitar todo
lo que pueda dar lugar a confusión entre fuero interno y fuero externo, no
confundir un consejo con un mandato, no sustituir al acompañado en su
discernimiento de la voluntad de Dios para él, y respetar –es más fomentar–
que la persona acompañada acuda a alguien más preparado o que le inspire
más confianza. Pero para este dominico la paternidad espiritual va más allá
de estas ayudas, pues supone un don de Dios que «no se programa, no se
decreta, no puede controlarse ni provocarse».183 Se trata de un
reconocimiento mutuo que es descubierto por el hijo más que por el padre,
y que da lugar a una relación que es
exigente, requiere una entrega recíproca, una atención y una disponibilidad inscrita en el tiempo.
Todo lo que afecta a mi hijo espiritual me afecta, soy de él en todo momento. Estoy a su servicio,
y mi alegría es verlo crecer. Puedo desear su agradecimiento y su amistad, pero ellos son también
un don, no una obligación.184
Por último, un padre espiritual sabe poner a su acompañado delante de
Dios y retirarse:
Un padre no marca el inicio de la vida interior, y menos aún su centro. Lo decisivo –y vital– es lo
que se juega entre Dios y el alma: entrar en la vida filial que Dios me ofrece. El padre espiritual
está al servicio de esta realidad profunda. Le alegrará ir disminuyendo a medida que crezca la
vida filial del hijo de Dios.185
El abuso supone una traición a la paternidad, pues supone aprovecharse de
la confianza depositada por el hijo espiritual para satisfacer el propio deseo
de dominio o las pasiones más bajas. Aunque sale de los objetivos de esta
tesis, mencionaremos cinco características del abuso que Syssoev pone en
relación con la paternidad espiritual (ya sea ejercida por sacerdotes o por
laicos) y la arruinan. Las tres primeras, que considera “por defecto”, son la
renuncia a ser padre (habitualmente por falta de convicciones o por no
haber tenido un padre espiritual), el formalismo (acompañar sin poner el
corazón ni involucrarse personalmente) y el diletantismo (voluntad de
erigirse en padre sin estar capacitado, lo que generalmente esconde
curiosidad malsana o deseo de poder). Las dos últimas patologías, llamadas
“por exceso”, son el autoritarismo (que no consiste solo en tratar de
imponer la propia voluntad sino en presentarse como la fuente de la vida
divina) y la manipulación seductora (atraer al otro para para que lo ame,
lo reconozca, lo admire y lo adore). Estas dos patologías, que revelan una
gran inmadurez en el abusador, privan al acompañado de su libertad y son
caldo de cultivo de los abusos de poder, de conciencia y sexuales.
El libro concluye con una propuesta de prevención y sanación de la
paternidad espiritual que incluye la unión con Dios, la humildad, una gran
disponibilidad interior (que es favorecida por el celibato), el respeto de la
autonomía del otro, una vida virtuosa y el respeto a las normas canónicas.
12. Jacques Philippe
Jacques Philippe, cb (Metz, Francia, 1947) es un conocido autor de
espiritualidad contemporáneo. Muchas de sus obras tienen origen en retiros
predicados a clérigos, y este parece ser el caso de La paternidad espiritual del
sacerdote.186
El autor comienza con una llamada a la precaución motivada por la crisis
de los abusos en la Iglesia y –en relación con lo anterior– por el riesgo de
olvidar que toda paternidad proviene de Dios y no tiene sentido más que en
la medida en que está al servicio de la paternidad divina. El sacerdote es
presentado como padre tanto en las Escrituras como en la tradición de la
Iglesia, pero esta paternidad no se alcanza directamente, sino que es una
gracia que se concede después de haber sido un buen pastor; se trata por
tanto de un proceso que tiene su fundamento en la configuración con
Cristo, que lleva al presbítero a participar de su relación filial con el Padre.
Tras esta presentación, que sirve de marco para todo el libro, Philippe
pasa a comentar la crisis moderna de la paternidad, cuyas consecuencias
son sintetizadas en cinco ausencias: de transmisión (el padre inserta en una
línea de ascendientes y da una herencia que tendrá que pasar a los
descendientes), de misericordia (es muy ilustrativa su versión de la parábola
del hijo pródigo sin un padre que le esté esperando), de discernimiento para
ejercer la libertad (el padre guía y construye con el hijo “diques de
contención”) y de fraternidad (la cual carece de fundamento si no hay un
padre común). Un padre, afirma Philippe, combina el amor incondicional y
la exigencia, de modo que confirma al hijo en su derecho a existir tal como
es, con sus errores y debilidades (lo que le confiere seguridad y libertad
interiores) y es figura de autoridad que le ayuda a crecer en libertad hasta la
adultez. En resumen, le da dos certezas fundamentales: la de ser amado y la
de poder amar.
A continuación señala algunas posibles deficiencias de paternidad en el
sacerdote: la ausencia, la exigencia y severidad excesivas, la renuncia a la
exigencia (conformarse con ser un amigo o un colega), la tentación de
mostrarse impecable, el activismo, el afán de dominio y, en definitiva, la
búsqueda de satisfacer sus propias necesidades ignorando (o incluso a costa)
de las del hijo.
Un tercio del libro está dedicado a explicar cómo hacerse padre. Sitúa
como primera condición crecer en la conciencia de ser hijo de Dios por
medio de la oración, y sentirse hijo y esposo de la Iglesia. Además, el
sacerdote ha de ser hermano de los demás hombres (en primer lugar, de los
sacerdotes), vivir la pobreza de espíritu, pensar en el otro más que en
mismo, aceptar las propias limitaciones, y cultivar la fe, el desprendimiento,
la humildad y el espíritu de las bienaventuranzas. Termina señalando los
lugares donde habrá de ejercer la paternidad en el ejercicio de su ministerio:
la intercesión, los sacramentos (especialmente Eucaristía y confesión), la
dirección espiritual, la predicación, el gobierno y el cuidado de los pobres y
los pequeños.
13. Amadeo Cencini
Amadeo Cencini, F.d.C.C. (Senigallia, Italia, 1948) es conocido por sus
numerosas obras en las que presenta la vida espiritual desde una perspectiva
psicológica. En un reciente artículo aborda específicamente nuestro tema de
estudio.187
Para el autor, la ausencia de paternidad en la sociedad actual conlleva
una incapacidad –que afecta a laicos y sacerdotes– para ser padre, educar y
ejercer la autoridad. La solución a esta crisis comienza por saberse hijo de
Dios, lo que lleva al hombre a sentirse amado gratuitamente (desde su
origen hasta el día de hoy) y lo capacita para amar. Ahora bien, Dios quiere
servirse de mediadores para transmitir su paternidad, asumiendo que lo
harán de modo imperfecto, y aquí entra en escena la paternidad espiritual
del presbítero, que Cencini pone en relación con el celibato.
Un segundo paso necesario es la aceptación del pasado, incluidos sus
aspectos dolorosos. En efecto, la aceptación de haber sido generado –por
Dios y por el hombre– hace a la persona libre para generar, que es la forma
más alta de amar, pues incluye custodiar, proteger, acompañar al hijo hasta
que sea independiente y responsable… y dejarlo marcharse cuando llegue
ese momento. Una integración lograda de la propia biografía es para
Cencini un criterio de discernimiento vocacional, pues de lo contrario
quedará un vacío afectivo que, para compensarlo, puede dar lugar a
actitudes narcisistas o clericales, y en casos extremos degenerar en
conductas abusivas.
El ejercicio de la paternidad espiritual incluye para Cencini cuatro pasos:
desear, traer al mundo, cuidar y dejar avanzar al hijo por su camino.
Sintetiza este modo sano de vivir la paternidad en aceptar el misterio del
otro mediante la compasión, que para él es la cualidad constitutiva de la
autoridad del sacerdote.
Por el contrario, señala que la principal corrupción de la paternidad es el
autoritarismo, concretamente cuando se trata de compensar la baja
autoestima apelando a una investidura divina que habilitaría para invadir,
imponer, poseer y usar a los otros, sintiéndose dispensado del cumplimiento
de los mandamientos.
En definitiva, para Cencini conviene presentar ya desde la formación
inicial la figura de un Dios que es amor y no tanto omnipotente, y recordar
a los candidatos que la paternidad del sacerdote va más allá de algo sensible
y consiste en generar hijos no para sí sino para Dios.
14. Anthony Isacco
Anthony Isacco es laico, psicólogo y profesor en la Chatham University de
Pittsburgh (USA), su ciudad natal. En sus publicaciones ha abordado la
paternidad, la masculinidad y la valoración de la idoneidad de los
candidatos al sacerdocio. En una reciente publicación188 parece unir estos
tres temas para ilustrar –desde una perspectiva tanto teológica como
psicológica– cómo la paternidad espiritual es un componente esencial de la
identidad sacerdotal, que debería formar parte de la formación inicial y
permanente de los clérigos, con el fin de revitalizar su ministerio y prevenir
eventuales desviaciones. Este artículo ha sido publicado en una de las
revistas de la American Psychiatric Association, por lo que, al contrario que en
los casos anteriores, los destinatarios no son los sacerdotes sino los
profesionales de la salud mental, especialmente aquellos que colaboran en la
evaluación psicológica de los seminaristas o en su ayuda terapéutica.
Pensamos, por tanto, que merece una atención especial.
El autor define la paternidad espiritual del presbítero como la «capacidad
de un sacerdote para sacrificarse, orientar, guiar, proteger, proveer y educar
a otros como hombre célibe ordenado».189 Muestra sus raíces teológicas
fundadas en las Escrituras y en la tradición de la Iglesia, así como en autores
más recientes que ya han sido estudiados (especialmente Griffin y
Granados), que podemos sintetizar como una relación esponsal con la
Iglesia basada en la configuración sacramental con Cristo, imagen del
Padre.
La parte más original del artículo es su estudio de la psicología de la
paternidad y su aplicación al sacerdote. Tomando pie de varios autores,
Isacco muestra que la paternidad, más allá de la generación, incluye la
implicación, que se concreta en interacción (pasar tiempo juntos, calidez,
empatía), disponibilidad (estar accesible, escuchar) y responsabilidad
(supervisión, organización, toma de decisiones, atención a las necesidades
materiales y espirituales). Estas actitudes generan una identidad, un
conjunto de disposiciones interiores para cumplir con las expectativas y el
rol que conlleva ser padre, tradicionalmente resumidos en ser protector y
proveedor (de alimento, vestido, cobijo, educación, orientación, cuidado y
seguridad), si bien estas funciones se han ampliado con los modelos más
recientes de participación paterna.
Para el autor, todos estos elementos identitarios y comportamentales
están incluidos en lo que se espera de un sacerdote, y lo llevan a una actitud
generativa que llena de sentido su celibato y a darse a mismo para
resolver las necesidades de sus fieles. Ahora bien, la formación de la
identidad estará condicionada por los modelos que el presbítero haya
experimentado en su familia de origen, en otros sacerdotes (el párroco, los
formadores, el director espiritual), en la imagen que dan los medios de
comunicación y en la propia asimilación del concepto teológico de
sacerdocio y del modelo que es Jesucristo. Como elementos que pueden
dificultar la identidad paternal del sacerdote, Isacco cita el clericalismo
(sentirse superior y autorizado), la asunción de un “estilo de vida de soltero”
y la pasividad en la guía de la comunidad.
El autor se detiene a poner la paternidad sacerdotal en relación con la
masculinidad, señalando que es un arma de doble filo. Por un lado,
recientes estudios han señalado once características positivas de la
masculinidad que facilitan una mayor implicación con el hijo: estilo
relacional, cuidado, paternidad generativa, autosuficiencia, relación trabajo-
proveedor, respeto a la mujer, valentía, orientación al grupo y al equipo,
servicio, uso del humor y heroísmo. Por otro lado, la masculinidad tiene
también connotaciones de mayor rigor, pues en la cultura occidental ha sido
relacionada tradicionalmente con ser emocionalmente estoico, competitivo,
asumir riesgos, perseguir el estatus y ser independiente. Por tanto, en la
formación de los candidatos vale la pena reforzar los aspectos positivos y
prevenir los negativos. Esto último implica fomentar la expresividad de sus
emociones y vulnerabilidades, apreciar la ayuda que pueden prestar los
demás y rechazar los modos dominantes. Se trataría, en fin, de desarrollar
un modelo de “masculinidad afectuosa”.
La última parte del texto está específicamente dirigida a los profesionales
de la salud mental que colaboran en los seminarios. Sostiene que la
evaluación psicológica de la idoneidad debería incluir el sentido de
paternidad espiritual que el candidato tiene interiorizado, así como su
disposición para crecer en ella. Según Isacco, los candidatos que no posean
cualidades para ser un padre espiritual y/o no se muestres abiertos o
capaces de vivirla no deberían ser admitidos en el seminario. Pero no se
trata simplemente de excluir sino de fomentar, a nivel individual y grupal,
habilidades que en última instancia son humanas, como la efectividad
interpersonal, el servicio a los demás, la humildad, la abnegación, la
generatividad y la seguridad en una masculinidad positiva y con capacidad
de cuidar. Para prestar esta ayuda es necesario que los profesionales también
estén formados en la paternidad espiritual del sacerdote, de modo que sean
capaces de reforzar la identidad y de detectar déficits e incoherencias que
estarían en la base de algunas anormalidades.
Por su parte, los formadores pueden también ayudar a los seminaristas a
ganar en conocimiento de los fundamentos teológicos, de sus propias
competencias, de la influencia que tienen en el trato con los demás y de los
modos prácticos de poner en ejercicio la paternidad espiritual.
15. José María Martínez Ortega
Terminamos el recorrido por los autores contemporáneos con la
publicación más reciente, y en nuestra opinión más exhaustiva, sobre la
paternidad espiritual del sacerdote, pues contempla la mayor parte de los
autores y argumentos que hemos estudiado. Se trata de la tesis de doctorado
de José María Martínez Ortega (Granada, 1977), defendida en la
Universidad Pontificia de la Santa Cruz.190
La principal aportación de este trabajo no es tanto su contenido (aunque
amplía algunos de los ya expuestos) sino el hecho de presentar la paternidad
desde una visión dinámica articulada en tres fases. Martínez Ortega parte
de que el sacerdote es objetivamente padre por el hecho de la ordenación, y
lo fundamenta en la Escritura, la Patrística, el magisterio y números autores
medievales, modernos y contemporáneos. En segundo lugar, el presbítero se
hace padre en el ejercicio de su ministerio en la medida en que asume el tria
munera Christi (especialmente por medio de una relación esponsal con la
Iglesia) y vive la caridad pastoral en el trato con los fieles. Por último, el
sacerdote se siente subjetivamente padre en la medida en que ha
experimentado la filiación en su familia de origen, o al menos ha sanado e
integrado las eventuales carencias y heridas; como marco para esta sección
se sirve de la psicología evolutiva y especialmente de la teoría del apego del
psicólogo inglés John Bowlby.
Finalmente, Martínez Ortega presenta algunas implicaciones prácticas de
la paternidad espiritual en la identidad (filial, esponsal y paternal) y en el
ministerio del presbítero (que se ve protegido del narcisismo, el clericalismo,
el activismo y las conductas abusivas), así como algunas sugerencias para la
selección y formación de los candidatos al sacerdocio.
X. SÍNTESIS CONCLUSIVA
La paternidad espiritual es una disposición a dar vida a través del don de sí.
Se trata de una realidad presente en todas las personas, también en los
cónyuges, que no se limitan a procrear, sino que están llamados a cuidar,
educar y acompañar a sus hijos en su crecimiento humano y espiritual.
Nadie, tampoco el ministro ordenado célibe, puede renunciar a esta
dimensión profundamente inserta en la naturaleza humana.
Hemos comprobado que la paternidad espiritual del sacerdote tiene un
sólido fundamento en la tradición cristiana. Después de haber presentado
una a una las teselas del mosaico, a continuación, trataremos de mostrar
brevemente la imagen en su conjunto.
Ya desde el siglo II varios Padres de la Iglesia han llamado padre al
obispo, considerándolo representante del Padre y partícipe, por tanto, de su
autoridad en la enseñanza (predicación y catequesis) y en el cuidado
amoroso de los fieles. Esta paternidad episcopal tiene fundamento
sacramental: en primer lugar, porque está fundada en la plenitud del
Orden, pero también porque el obispo engendra a la vida sobrenatural
mediante el Bautismo, la refuerza con la Confirmación, la alimenta con la
Eucaristía, la regenera con la Penitencia y da lugar a otros padres
espirituales mediante el Orden sacerdotal. Bien pronto la paternidad
espiritual se aplicó a los sacerdotes, pues realizan todas las funciones
enumeradas salvo las específicamente episcopales, y desde los padres del
desierto se atribuyó también a los monjes (en su mayoría no ordenados) por
su papel de guías espirituales.
A partir de san Efrén el Sirio (s. IV) se abrió una justificación distinta de
la paternidad. Se basa en una transmisión que comienza en el Padre, origen
toda paternidad (cfr. Ef 3,15), se continúa en Cristo y llega a los fieles por
medio de la Iglesia a través de la persona de los apóstoles, los obispos y los
sacerdotes. Esta cadena explica el sentido de Mt 23,9: la paternidad del
sacerdote está subordinada a la del Padre, y solo se ejercita de modo
legítimo cuando se propone acercar a los fieles a Él. Algunos autores han
enriquecido esta dimensión cristológica señalando que el sacerdote genera a
Cristo en la Eucaristía y en el corazón de los hombres.
Esta visión cristológica y eclesiológica, que no contradice sino que
complementa la anterior, subraya la especificidad de la paternidad espiritual
del sacerdote, pues estaría fundada en la configuración con Cristo Cabeza y
con el ejercicio del tria munera. Por otra parte, justifica el celibato sacerdotal,
ya que el sacerdote está configurado con Cristo Esposo, y lo enriquece con
una gran fecundidad, puesto que no da lugar a un número limitado de hijos
carnales sino a una multitud de hijos espirituales.
La paternidad espiritual es uno de los motivos de la dignidad del
sacerdote, que a cambio recibe la responsabilidad de estar presente entre sus
fieles, cuidarlos con caridad pastoral, administrarles los sacramentos,
interceder por ellos, corregirlos amorosamente y guiarlos hacia Dios. Para
llevarlo a cabo, el presbítero necesita tener él mismo una sólida vida de
oración y de virtud y, en definitiva, estar configurado con Cristo para amar
a su pueblo con su Corazón paternal.
Estos argumentos han sido desarrollados por numerosos Padres de la
Iglesia, teólogos y autores espirituales medievales y modernos, así como por
el magisterio más reciente. La teología contemporánea ha tardado en
estudiar la paternidad espiritual del sacerdote, pero en las últimas décadas
son numerosos los autores que la han abordado ofreciendo algunas
perspectivas originales, como una mayor atención a los aspectos psicológicos
(especialmente los derivados de una figura paterna ausente o defectuosa) y
una mención a la crisis de los abusos en la Iglesia, proponiendo como
prevención de estos un sano ejercicio de la paternidad por parte del
presbítero y advirtiendo de los riesgos de una paternidad mal entendida.
En definitiva, sin ser el único ni quizá el principal modo de entender el
sacerdocio, la paternidad espiritual constituye un elemento esencial e
irrenunciable de la identidad y del ministerio presbiteral. Un sacerdote que
sea verdaderamente padre podrá entender e interiorizar mejor su propia
vocación, desempeñar con alegría su ministerio, superar con más facilidad
las dificultades que se presenten en su vida de entrega, experimentar el
celibato como un don fecundo, y llevar a cabo una generosa labor pastoral,
dando vida sobrenatural, alimento espiritual, consuelo y curación para
muchas almas. De este modo se convertirá en un referente para sus fieles,
que podrán entender mejor su propia paternidad y filiación humanas, y
establecer una relación más cercana con el Padre.
Confiamos en que este estudio ayude a los presbíteros a ganar en
conciencia de su propia paternidad espiritual y les mueva a ejercerla a través
de una vida santa al servicio de sus fieles, reflejando en su vida la paternidad
de Dios como hizo Jesucristo.
1 FRANCISCO, Homilía, 26-VI-2013, en IDEM, Las homilías de la mañana en la capilla de la Domus Sanctae
Marthae, LEV, Città del Vaticano 2013, 307.
2 El mismo término se emplea en italiano, mientras que en inglés se le llama father y en francés l’abbé.
3 Para esta primera parte nos hemos servido, además de las obras que citaremos en cada apartado, de
L. TOUZE, Paternidad divina y paternidad sacerdotal, en J.L. ILLANES, J. SESÉ, T. TRIGO, J.F. POZO, J. ENÉRIZ
(eds.), El Dios y Padre de Nuestro Señor Jesucristo. XX Simposio Internacional de Teología de la Universidad de
Navarra, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 2000, 655-664; F.B.
FELICES SÁNCHEZ, La Paternidad Espiritual del Sacerdote. Fundamentos teológicos de la Fecundidad Apostólica
Presbiteral, Javegraf, San Juan de Puerto Rico 2006, 37-95; R.F. CARRASCOSA SALMORAL, La paternidad
sacerdotal en los ritos de ordenación episcopal y presbiteral del “De Ordinatione Episcopi, presbyterorum et
diaconorum”, Tesis de Doctorado, Pontificia Università della Santa Croce, Roma 2013, 75-97; M.
MAYERHOFER, The Spiritual Fatherhood of the Priest in Patristic and Medieval Pauline Commentaries, «Logos» 23
(2020) 105-128.
4 Cfr. J.J. AYÁN (ed.), Padres apostólicos, Ciudad Nueva, Madrid 2000, 330, nt. 29.
5 Martirio de Policarpo, XI, en D. RUIZ BUENO (ed.), Actas de los mártires, BAC, Madrid 19965, 273-274.
6 SAN IGNACIO DE ANTIOQUÍA, Epistola ad Magnesios, III, 1, en J.J. AYÁN CALVO (ed.), Ignacio de Antioquía:
Cartas. Policarpo de Esmirna: Cartas. Carta de la Iglesia de Esmirna a la Iglesia de Filomelio, Ciudad Nueva,
Madrid 1991, 129-131.
7 SAN IGNACIO DE ANTIOQUÍA, Epistola ad Trallianos, III, (141).
8 IDEM, Epistola ad Smyrnaeos, VIII, 1, (177).
9 IDEM, Epistola ad Ephesios, V, 1, (109).
10 «Cuando alguien burla al obispo visible, no engaña a este sino al invisible» (IDEM, Carta a los
Magnesios, III, 2, [131]).
11 Didascalia apostolorum, II, 20, en J. URDEIX (ed.), La Didascalia de los Apóstoles. Doctrina católica de los doce
Apóstoles y de los santos discípulos de nuestro Salvador, Centre de Pastoral Litúrgica, Barcelona 2003, 31.
12 Ibidem, 33, (45).
13 ORÍGENES, In Leviticum homiliae, VI, 6, en PG 12, 474.
14 EUSEBIO DE CESAREA, Demonstrationis evangelicae, en PG 22, 81.
15 EFRÉN DE SIRIA, Carmina nisibena, XIX, 1, en CSCO 218/Syr 92, 50 y CSCO 219/Syr 93, 61.
16 Cfr. ibidem, XIX, 13; XX, 1; XX, 4; XX, 5, en CSCO 218/Syr 92, 52-54 y CSCO 219/Syr 93, 64-
66.
17 SAN BASILIO MAGNO, Sancti patris nostri Basilii epistolae, CCIV, 2, en PG 32, 746. San Gregorio
Taumaturgo había sido, un siglo antes, el primer obispo de Neocesarea, y era considerado el
fundador de toda la Iglesia de Capadocia.
18 Ibidem, LXXXI, en PG 32, 458.
19 Cfr. ibidem, LXXXII, en PG 32, 459.
20 Ibidem, XC, en PG 32, 471.
21 Cfr. ibidem, CLIII, en PG 32, 610.
22 Cfr. ibidem, XC, en PG 32, 471; CLVI, en PG 32, 639.
23 Cfr. ibidem, CC, en PG 32, 734; CCLVIII, en PG 32, 946-948.
24 Ibidem, CLXXVI, en PG 32, 654.
25 Ibidem, CLXI, en PG 32, 630. Un abordaje más extenso de la paternidad espiritual ejercida por san
Basilio de Cesarea como presbítero y como obispo se puede encontrar en G.D. MARTZELOS, Basilio di
Cesarea, modello di paternità spirituale, en S. CHIALÀ, L. CREMASCHI, A. MAINARDI (a cura di), La paternità
spirituale nella tradizione ortodossa, Qiqajon, Magnano 2009, 59-88.
26 Para profundizar en el origen de esta atribución, especialmente en san Antonio y san Pacomio, cfr.
FELICES SÁNCHEZ, La paternidad espiritual del sacerdote, 42-46.
27 EVAGRIO PÓNTICO, Sententiae ad Monachos, 73, en J.I. GONZÁLEZ VILLANUEVA (ed.), Evagrio Póntico.
Obras espirituales, Ciudad Nueva, Madrid 1995, 194.
28 Ibidem, 88, (198).
29 Ibidem, 92, (199).
30 Ibidem, 91, (199).
31 Cfr. ibidem, 88, 90, (198-199).
32 Ibidem, 91, (199).
33 IDEM, Sententiae ad virginem, 5, (216).
34 Cfr. BUNGE, La paternità spirituale nel pensiero di Evagrio, Qiqajon, Magnano 1991, 46-50.
35 EVAGRIO PÓNTICO, Capita practica ad Anatolium, 100, en PG 40, 1251.
36 SAN JUAN CRISÓSTOMO, De Sacerdotio, VI, 4, en D. RUIZ BUENO, Obras de San Juan Crisóstomo. Tratados
ascéticos, BAC, Madrid 1958, 735; ibidem, V, 5, (720): «el sacerdote ha de portarse con sus súbditos
como un padre con sus hijos pequeños».
37 Ibidem, III, 6, (650-651).
38 Ibidem, (649).
39 Codex Justinianus, I, 3, 41, en Corpus Iuris Civilis, II, P. KRÜGER (ed.), Weidmannos, Berlin 195912, 31.
40 Ibidem, 47, (34).
41 JUAN DE DARA, De sacerdotio, IV, 10, en Codificazione Canonica Orientale, Fonti. Serie II, Fasc. XXVII:
Disciplina Antiochena Antica. Siri. III (Textes concernant les sacrements), Tipografia Poliglotta Vaticana, Città
del Vaticano 1941, 230.
42 SIRICIO, Epistola X seu Canones Synodi Romanorum ad gallos episcopos, II, 5, en PL 13, 1184B-1185A.
43 SAN AMBROSIO DE MILÁN, De officiis, I, 1, 1-2, en Los deberes, Ciudad Nueva, Madrid 2015, 23.
44 Ibidem, I, 7, 24 (33-34).
45 Ibidem, (34).
46 SAN JERÓNIMO, In Epistulam ad Galatas, II, 374, en Obras completas de San Jerónimo [= OCSJ] IX, BAC,
Madrid 2010, 155. Este comentario está datado en torno al año 380.
47 IDEM, Commentariorum in Matheum, IV, 213, en OCSJ, II, BAC, Madrid 2002, 321-323.
48 IDEM, Epistola ad Furiam, 5, en OCSJ, Xa, BAC, Madrid 2013, 523.
49 Ibidem.
50 IDEM, Epistola ad Nepotianum, 4, en OCSJ, Xa, 447. Nepociano era un monje recién ordenado
presbítero por su tío, el obispo Heliodoro, que pedía a san Jerónimo orientaciones para ser buen
sacerdote y monje.
51 IDEM, Epistola ad Agustinum, 5, en OCSJ, Xb, 447.
52 «Uno solo es el Señor, uno solo el templo, uno solo sea también el ministerio» (IDEM, Epistola ad
Nepotianum, 7, en OCSJ, Xa, 485).
53 Ibidem, 8 (487).
54 Ibidem (485-487).
55 Cit. en G. MORIN, Pages inédites de deux Pseudo-Jérôme des environs de l’an 400, «Revue Bénédictine» 40
(1928) 289-318, (aquí 313).
56 SAN AGUSTÍN, Enarrationes in Psalmos, CI, 8, en Obras de San Agustín, XXI, BAC, Madrid 1966, 640-
641.
57 Ibidem, XLIV, 32, en Obras de San Agustín, XX, BAC, Madrid 20182, 464-465.
58 SAN GREGORIO MAGNO, Regulae pastoralis, III, 4, en Regla pastoral, Ciudad Nueva, Madrid 20012,
121.
59 Cfr. M.T. LOVATO (ed.), Gregorio Magno. La Regola Pastorale, Città Nuova, Roma 1981, 22.
60 SAN GREGORIO MAGNO, Homiliarum in Ezechielem, I, 11, 27, en Obras de San Gregorio Magno, BAC,
Madrid 1958, 375.
61 LANFRANCO DE CANTERBURY, Epistola Beati Pauli Apostoli ad Ephesios, III, 13, en PL 150, 294-295.
62 SAN PEDRO DAMIÁN, De caelibatu sacerdotum, III, en PL 145, 385.
63 Cfr. I.C. LEVY, Bruno the Carthusian: Theology and Reform in His Commentary on the Pauline Epistles,
«Analecta Cartusiana» 300 (2013) 5-61.
64 HER DE DÉOLS, Epistolam ad Ephesios, III, 15, en PL 181, 1236.
65 SANTO TOMÁS DE AQUINO, Super Epistolam Beati Pauli ad Ephesios, III, lect. 4, en Comentario a la Epístola
de San Pablo a los Efesios, Editorial Tradición, México 1978, 123.
66 IDEM, In Epistolam I ad Corinthios, IV, lect. 3, en Comentario a la Primera Epístola a los Corintios, I,
Editorial Tradición, México 1983, 121.
67 IDEM, Summa contra Gentiles, IV, 58, en L. ROBLES CARCEDO, A. ROBLES SIERRA (eds.), Suma contra los
Gentiles, II, BAC, Madrid 1968, 882-883.
68 Ibidem.
69 Catecismo para los párrocos según el decreto del Concilio de Trento, Editorial Magisterio Español, Madrid
1972, parte III, cap. V, 8.
70 SAN JUAN DE ÁVILA, A un predicador [Fr. Luis de Granada, OP], en Obras Completas de San Juan de Ávila,
BAC, Madrid 2003, 5.
71 Ibidem, 5-6.
72 Ibidem, 6.
73 Ibidem.
74 Ibidem.
75 Ibidem, 7. Por eso afirma san Juan de Ávila que «[los sacerdotes] amamos más los que por el
Evangelio engendramos que a los que naturaleza y carne engendra, porque es más fuerte que ella, y
la gracia que la carne» (ibidem).
76 Cfr. ibidem.
77 Ibidem. San Juan de Ávila alude al ejemplo de santa Mónica: «a llorar aprenda quien toma oficio de
padre, para que le responda la palabra y respuesta divina, que fue dicha a la madre de san Agustín
por boca de san Ambrosio: “Hijo de tantas lágrimas no se perderá”» (cfr. ibidem).
78 Ibidem.
79 Ibidem, 8-9.
80 Cfr. ibidem, 22-27.
81 SAN JUAN DE ÁVILA, Memorial I al Concilio de Trento, n. 14, en Obras Completas de San Juan de Ávila,
BAC, Madrid 2001, 493. En otros textos añade como origen de la paternidad la celebración de los
sacramentos, especialmente la Eucaristía; cfr. J.J. GALLEGO PALOMERO, Sacerdocio y Oficio Sacerdotal en
San Juan de Ávila, Obra Social y Cultural Cajasur, Córdoba 1998, 179, 227; J. DEL RÍO MARTÍN, La
paternidad espiritual del sacerdote en tiempos de tribulaciones, según el Maestro Ávila, «Seminarios» 57 (2011)
141-155.
82 SAN JUAN DE ÁVILA, Segunda Plática a los sacerdotes, n. 7, en Obras Completas de San Juan de Ávila, BAC,
Madrid 2000, 802.
83 SAN JUAN EUDES, Le mémorial de la vie ecclésiastique, en G. BEAUCHESNE et al. (eds.), Œuvres complètes du
vénérable Jean Eudes, III, Vannes, Paris 1906, 15.
84 Ibidem, 14-15.
85 Cfr. ibidem, 16.
86 Ibidem, 18.
87 J.J. OLIER, Traité des Saints Ordres, Seminaire de Saint-Sulpice, Paris 1929, III, 422.
88 Ibidem, 423. Cfr. L. MEZZADRI, A lode della gloria. Il sacerdozio nell’Ecole française (XVII-XX secolo), Jaca
Book, Milano 1989, 20-21.
89 J.J. OLIER, Traité des Saints Ordres, III, 437.
90 Ibidem, 444.
91 Ibidem.
92 Cfr. ibidem, 435, 462.
93 S. ALFONSO MARÍA DE LIGORIO, Pratica del confessore, Coi Tipi di Luca Corbetta, Monza 1832, 7.
94 Ibidem, 9-10.
95 PÍO XII, Discurso a los párrocos de Roma y a los predicadores de la cuaresma, 6-II-1940.
96 IDEM, Discurso a los párrocos de Roma y a los predicadores de la cuaresma, 25-II-1941.
97 IDEM, Discurso, 15-I-1941.
98 IDEM, Ex. Menti nostrae, I, 10.
99 Ibidem.
100 Ibidem, III, 31.
101 Se puede profundizar en A. FRANCESCHINI, La paternità spirituale come itinerario di libertà in san Filippo
Neri, Extracto de la Tesis de Doctorado, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2017.
102 P.G. BACCI, Vita di san Filippo Neri, fondatore della Congregazione dell’Oratorio, II, Tipografia dell’Istituto
dei paolini, Monza 1851, 113.
103 Cfr. FRANCESCHINI, La paternità spirituale come itinerario di libertà in san Filippo Neri, 21.
104 SAN JUAN BOSCO, Circular sobre la corrección disciplinaria, en R. FIERRO (ed.), Biografía y Escritos de San
Juan Bosco, BAC, Madrid 1955, 471.
105 Ibidem.
106 Ibidem, 474. Se vea también A. GONZÁLEZ VINAGRE, El padre de la juventud: Don Bosco, palabra y
ejemplo, CCS, Madrid 2004.
107 J.P. NAULT, La paternité du prêtre chez le Curé d’Ars, en SOCIÉTÉ JEAN-MARIE VIANNEY, Prêtre, une question
de paternité, Artège, Paris 2019, 105. Cfr. B. NODET, Jean-Marie Vianney, sa pensée, son cœur, Cerf, Paris
2006, 105; BENEDICTO XVI, Audiencia general, 5-VIII-2009.
108 CONCILIO VATICANO II, Const. dogm. Lumen gentium, 21-XI-1964.
109 IDEM, Decr. Christus Dominus, 28-X-1965.
110 IDEM, Decr. Presbyterorum Ordinis, 7-XII-1975.
111 SAN PABLO VI, Carta Enc. Ecclesiam Suam, 6-VIII-1964, n. 39.
112 IDEM, Carta Enc. Sacerdotalis caelibatus, 24-VI-1967, n. 26.
113 Ibidem, n. 30.
114 Ibidem, n. 56.
115 SAN JUAN PABLO II, Ex. ap. Pastores dabo vobis, 25-III-1992, n. 41.
116 IDEM, Pastores gregis, n. 7.
117 Cfr. ibidem, n. 33.
118 Cfr. ibidem, n. 37.
119 Cfr. ibidem, nn. 42-43.
120 Ibidem, n. 26.
121 Ibidem, n. 47.
122 Ibidem, n. 10.
123 IDEM, Homilía en la Catedral de Avezzano, 24-III-1985.
124 IDEM, Discurso al clero de Italia, 16-II-1984.
125 Cfr. IDEM, Pastores dabo vobis, n. 74.
126 Cfr. ibidem, n. 29.
127 Ibidem, n. 22.
128 IDEM, Carta a los sacerdotes con ocasión del Jueves Santo, 25-III-1988. El Papa añade que una de las
manifestaciones de este cuidado maternal es hacer llegar a los hombres el alimento eucarístico.
129 IDEM, Ex. ap. Familiaris consortio, 22-XI-1981, n. 16.
130 IDEM, Pastores dabo vobis, n. 29.
131 BENEDICTO XVI, Discurso en un Encuentro para nuevos obispos, 21-IX-2009. El Pontífice alude al n. 47
de la Ex. ap. Pastores gregis (16-X-2003), en el que Juan Pablo II afirma que con este gesto «el joven
presbítero decide encomendarse al obispo y, por su parte, el obispo se compromete a custodiar esas
manos».
132 IDEM, Discurso a los obispos de la Conferencia Episcopal de Bielorrusia en visita «ad limina Apostolorum», 17-
XII-2009.
133 Cfr. IDEM, Discurso a los obispos de la Conferencia Episcopal de Uganda en visita «ad limina Apostolorum», 5-
III-2010.
134 IDEM, Discurso a los nuevos obispos que participan en un encuentro organizado por la Congregación para los
obispos, 13-IX-2010.
135 IDEM, Discurso a los obispos de la Conferencia Episcopal de Rumanía en visita «ad limina Apostolorum», 12-II-
2010.
136 IDEM, Discurso a los participantes en el Congreso para los nuevos obispos organizado por las Congregaciones para
los obispos y para las Iglesias Orientales, 22-IX-2008.
137 IDEM, Discurso en curso sobre el fuero interno organizado por la Penitenciaría Apostólica, 11-III-2010.
138 Cfr. FRANCISCO, Homilía, 26-VI-2013, en IDEM, Las homilías de la mañana en la capilla de la Domus
Sanctae Marthae, LEV, Città del Vaticano 2013, 307.
139 IDEM, Homilía en la Santa Misa Crismal, 17-IV-2014.
140 IDEM, Homilía en la Santa Misa Crismal, 2-IV-2015.
141 Cfr. IDEM, Homilía en el Jubileo de los sacerdotes, 3-VI-2016.
142 IDEM, Homilía en Ordenaciones presbiterales, 26-IV-2015.
143 IDEM, Carta a los sacerdotes de la diócesis de Roma, 31-V-2020.
144 Cfr. IDEM, Homilía en la Santa Misa Crismal, 24-III-2016.
145 IDEM, Primera meditación del retiro espiritual con ocasión del Jubileo de los sacerdotes, 2-VI-2016.
146 IDEM, Homilía en Ordenaciones presbiterales, 26-IV-2015.
147 IDEM, Homilía en Ordenación episcopal, 19-III-2016.
148 IDEM, Homilía en Ordenación episcopal, 9-XI-2015.
149 IDEM, Homilía en Ordenaciones episcopales, 24-X-2013.
150 IDEM, Homilía en Ordenaciones presbiterales, 12-V-2019.
151 IDEM, Discurso al simposio “Por una teología fundamental del sacerdocio”, 17-II-2022. El Papa Francisco
señala en este discurso cuatro “cuatro cercanías” que son como columnas constitutivas de la vida
sacerdotal: a Dios, al obispo, entre los sacerdotes y al pueblo.
152 Cfr. IDEM, Carta ap. Patris corde, 8-XII-2020, n. 7.
153 Cfr. por ejemplo, M. VILLER, F. CAVALLERA, J. DE GUIBERT, A. RAYEZ (eds.), Dictionnaire de
spiritualité: ascétique et mystique, doctrine et histoire (17 vols.), Beauchesne, Paris 1932-1995; B. MARTÍN
SÁNCHEZ, Diccionario de espiritualidad bíblico-teológico, Ediciones Alonso, Madrid 1981; S. DE FIORES, T.
GOFFI (coords.), Nuevo diccionario de espiritualidad, Ediciones Paulinas, Madrid 1983 (aquí aparece la voz
“padre espiritual”, pero entendida como guía espiritual); E. ANCILLI (a cura di), Dizionario enciclopedico
di spiritualità (3 vols.), Città Nuova, Roma 1990; L. BORRIELLO (ed.), Dizionario di mistica, LEV, Città del
Vaticano 1998; G. CASTRO MARTÍNEZ, P. DINZELBACHER (eds.), Diccionario de la mística, Monte
Carmelo, Burgos 2000.
154 Cfr. por ejemplo, G. CACCIATORE (ed.), Enciclopedia del sacerdozio, Libreria Editrice Fiorentina,
Florencia 1953; J. LÉCUYER, Il sacerdozio di Cristo e della Chiesa, EDB, Bologna 1965; J. GALOT, Teologia
del sacerdozio, LEF, Firenze 1981; J. SARAIVA, Il sacerdozio ministeriale: storia e teologia, Pontificia Università
Urbaniana, Roma 1991; PROFESORES DE LA FACULTAD DE TEOLOGÍA DE BURGOS, Diccionario del
sacerdocio, BAC, Madrid 2005; M. PONCE CUÉLLAR, Teología del sacerdocio ministerial, BAC, Madrid
2016.
155 En ámbito francófono destacamos: J.-C. SAGNE, Le prête comme figure paternelle et fraternelle, ou
l’ambivalence du frère aîné, «La vie Spirituelle» Suplemento 22 (1969) 491-524; SOCIÉTÉ JEAN-MARIE
VIANNEY, Prêtre, une question de paternité, Artège, Paris 2019.
156 Puede profundizarse en N. ARSENIEV, V. LOSSKY, Padri nello Spirito. La paternità spirituale in Russia
Qiqajon, Magnano 1997; N. STEBBING, Bearers of the Spirit. Spiritual Fatherhood in Romanian Orthodoxy,
Cistercian Publications, Kalamazoo 2003; E. BIANCHI et al. (a cura di), La paternità spirituale nella
tradizione Ortodossa, Qiqajon, Magnano 2009; L. BARBU, Spiritual Fatherhood as Symbol of Divine Fatherhood:
A Viewpoint from the Eastern Orthodox Tradition, «Revista Portuguesa de Filosofía» 69/2 (2013) 255-267;
CH. LOCKWOOD, Spiritual Fatherhood after the Model of Christ in the Gospel according to John, «Greek
Orthodox Theological Review» 59 (2014) 81-127; G. DI LAURO, «Preparate nel deserto la via del Signore». Il
carisma della paternità spirituale a partire dal deserto di Gaza, Milella, Lecce 2019. Vale la pena señalar que
en estos textos hay una gran presencia del Espíritu Santo, que en la mayor parte de los autores que
estudiaremos está solo implícita.
157 T. HENNESSY, The Fatherhood of the Priest, «The Thomist» 10 (1947) 271-306.
158 IDEM, The Fatherhood of the Priest, The Rosary Press, Somerset 1950.
159 Ibidem, X.
160 Ibidem, 69.
161 Ibidem, X.
162 H.J.M. NOUWEN, El regreso del hijo pródigo, PPC, Madrid 1998 (original: The Return of the Prodigal Son.
A Meditation on Fathers, Brothers and Sons, Darton, Longman & Todd, London 1992).
163 Ibidem, 131-132.
164 Ibidem, 136.
165 M. CAMISASCA, El desafío de la paternidad. Reflexiones sobre el sacerdocio, Encuentro, Madrid 2005
(original: La sfida della paternità. Riflessioni sul sacerdozio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003). A pesar de
lo que parece indicar el título, la paternidad espiritual del presbítero solo se trata específicamente en
el sexto y último capítulo (103-117), mientras que los cinco anteriores abordan diversos aspectos del
sacerdocio (naturaleza del mismo, pobreza, virginidad y sexualidad) sin hacer apenas mención
explícita a la paternidad. Ha desarrollado también estas reflexiones en Called to Be Fathers in the Church,
«Communio» 31/3 (2004) 496-500; y La paternidad cristiana, fruto maduro de una vida casta, en F. INSA
(ed.), Amar y enseñar a amar. La formación de la afectividad en los candidatos al sacerdocio, Palabra, Madrid
2019, 235-250.
166 CAMISASCA, El desafío de la paternidad, 115.
167 F.B. FELICES SÁNCHEZ, La Paternidad Espiritual del Sacerdote. Fundamentos Teológicos de la Fecundidad
Apostólica Presbiteral, Javegraf, San Juan de Puerto Rico 2006.
168 Ibidem, 173.
169 J. CIHAK, The Priest as Man, Husband and Father, «Sacrum Ministerium» 12/2 (2006) 75-85.
170 J. GRANADOS, Priesthood: A Sacrament of the Father, «Communio» 36/2 (2009) 186-218; IDEM, Radiating
Fatherhood. The task and purpose of Christian fatherhood is to make room for God in the lives of one’s children,
«Columbia» 90/6 (2010) 15-17.
171 IDEM, Priesthood, 208.
172 P.J. CAHALL, Spiritual fatherhood and generativity, «The Downside Review» 129 (2011) 77-88.
173 A. MENDOZA, De la filiación a la paternidad en la vida y ministerio del presbítero, «Medellín» 37 (2011) 551-
590.
174 Ibidem, 575.
175 Ibidem, 576.
176 C.H. GRIFFIN, Supernatural Fatherhood Through Priestly Celibacy. Fulfillment in Masculinity. A Thomistic
Study, Edusc, Roma 2011.
177 IDEM, ¿Por qué el celibato?: Reclamando la paternidad del sacerdote, Emmaus Road Publishing, Steubenville
2019 (original: Why Celibacy? Reclaiming the Fatherhood of the Priest, Emmaus Road Publishing,
Steubenville 2019). Más recientemente ha concretado una propuesta de formación a seminaristas en
Forming Fathers. Seminary Wisdom for Every Priest, Emmaus Road Publishing, Steubenville 2022.
178 Cfr, por ejemplo, F.J. ESTÉVEZ, A.H. COZZENS (eds.), Spiritual Husbands Spiritual Fathers. Priestly
Formation for the 21st Century, En Route Books and Media, St. Louis 2020.
179 R.F. CARRASCOSA SALMORAL, La paternidad sacerdotal en los ritos de ordenación episcopal y presbiteral del “De
Ordinatione Episcopi, presbyterorum et diaconorum”, Tesis de Doctorado, Pontificia Università della Santa
Croce, Roma 2013.
180 Ibidem, 513.
181 P. SYSSOEV, La paternidad espiritual y sus perversiones, Sígueme, Salamanca 2022 (original: De la paternité
spirituelle et de ses contrefaçons, Cerf, Paris 2020).
182 Ibidem, 10.
183 Ibidem, 75.
184 Ibidem.
185 Ibidem, 78.
186 J. PHILIPPE, La paternidad espiritual del sacerdote. Un tesoro en vasos de barro, Rialp, Madrid 2021 (original:
La paternité spirituelle du prêtre. Un trésor dans des vases d’argile, Editions des Béatitudes, Nouan-le-Fuzelier
2021).
187 A. CENCINI, Paternità presbiterale per generare figli a Dio: approccio psico-pedagogico, «Tredimensioni» 18
(2021) 236-252.
188 A. ISACCO, D. SONGY, Spiritual Fatherhood of Catholic Priests: Conceptualization and Practical Applications,
«Spirituality in Clinical Practice» 9/2 (2022) 114-126.
189 Ibidem, 116.
190 J.M. MARTÍNEZ ORTEGA, Ser, hacerse y sentirse padre en el sacerdocio ministerial. De la filiación a la paternidad
espiritual a través de la esponsalidad con la Iglesia en Cristo, Edusc, Roma 2024. La tesis –de la que fue
director el segundo autor del presente artículo– ha servido de base para estas páginas.
RECENSIONI
N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS J. SEDANO, Derecho canónico en perspectiva
histórica: fuentes, ciencia e instituciones, Eunsa (Manuales del Instituto Martín de
Azpilcueta), Pamplona 2022, 368 pp.
Nicolás Álvarez de las Asturias es profesor de Historia del Derecho
Canónico en la Universidad Eclesiástica San Dámaso (Madrid). Su
trayectoria científica comenzó con su tesis doctoral sobre la Collectio
Lanfranci, una de las importantes colecciones canónicas compiladas por el
beato Lanfranco obispo de Canterbury (ca. 1005-1089), que defendió en la
Universidad Pontificia de la Santa Cruz y publicó en 2008. A partir de ahí
se ha ocupado de diversas temáticas históricas en diversos foros
internacionales. Entre otras aportaciones destacamos la edición del
congreso sobre El IV concilio de Letrán en perspectiva histórico-teológica (Madrid
2016).
Joaquín Sedano es profesor de Historia del Derecho Canónico en la
Universidad de Navarra. Entre otros méritos, ha estudiado desde el punto
de vista crítico y doctrinal diversas colecciones medievales, como la Panormia
de Ivo de Chartres (1040-1115) y la Colección de Diez Partes. Fruto de sus
trabajos en foros internacionales son las contribuciones al Diccionario Histórico
de Derecho Canónico en Hispanoamérica y Filipinas del Max Planck Institute for
European Legal History Research de Frankfurt a.M. Muy importante para
entender esta obra es la condición de Sedano de editor del Diccionario General
de Derecho Canónico de la Universidad de Navarra (DGDC, Cizur Menor
2012).
Estos dos relativamente jóvenes profesores acometen en esta ocasión el
desafío de todo buen enseñante: proveer a los alumnos de un subsidio serio,
actualizado y claro de la asignatura. El título de la obra muestra ya su
pensamiento: Derecho canónico en perspectiva histórica: fuentes, ciencia e instituciones.
Se quiere ofrecer una visión integral de la historia del Derecho canónico, sin
separar las fuentes de la ciencia canónica y de las instituciones. En este
sentido, la perspectiva del maestro Gabriel Le Bras y su célebre Histoire du
droit et des institutions de l’Église en Occident (1955) les ha servido de inspiración.
Por otra parte, en la Introducción Álvarez de las Asturias y Sedano se
posicionan en una visión del derecho entendido no principalmente como el
conjunto de normas como pensaba Francisco Suárez (1548-1617) –, sino
como la disciplina que señala lo que es justo en la Iglesia. Con expresiones
netas rechazan «la tentación de equiparar automáticamente “lo justo” con
“lo legal”, de pensar que lo “hoy legal” es la única y, por tanto, mejor
expresión de “lo justo” y que, en último término, el canonista es el siervo de
la ley, llamado a saber aplicarla» (p. 19). Ambos autores explican que en
realidad la justicia precede a la norma, y que en la Iglesia esa justicia se
refiere a la divina. En este ambiente de trascendencia y de guía de la justica
sobre la norma la historia tiene un papel nada secundario: «La historia
ayuda a conocer el sentido y el origen de la ley vigente, así como su mayor o
menor contingencia; y también a situarse ante ella con la mirada crítica de
quien sabe que puede ser perfectible, quizás tomando experiencia de
realidades del pasado» (p. 20).
Formalmente, los 19 capítulos del libro están distribuidos en cuatro
secciones que ayudan a comprender el desarrollo canónico a partir de
eventos mayores: Ius antiquum (desde los inicios de la Iglesia), Ius novum (desde
el Decreto de Graciano, 1140), Ius novissimum (desde el Concilio de Trento,
1563) y Ius hodierno (a partir del Vaticano II, 1965). Es decir, frente otros
manuales de Historia del Derecho Canónico más sistemáticos (Plöchl,
Gaudemet), aquí prima la cronología, pero una cronología específicamente
canónica, lo cual a nuestro juicio hace la exposición más inteligible. Los
capítulos son homogéneos: inician con una breve introducción a la que
sigue un contexto histórico. A continuación, cada capítulo se estructura
según las diversas problemáticas. Se trata de capítulos no muy extensos pero
muy densos, con pocas concesiones a la retórica. Consideramos algo
fundamental que al final de cada capítulo, además de una breve bibliografía
específica, hay una remisión a una o varias voces del DGDC de la
Universidad de Navarra y a algunas fuentes por vía informática. La
simbiosis con el citado Diccionario es muy eficaz para profundizar lo tratado
en cada capítulo sin exigir largas lecturas complementarias. Cierran el
volumen algunas secciones de bibliografía general, de fuentes citadas, de
voces citadas del DGDC y de toda la bibliografía citada. Señalamos por
desgracia la presencia de diferentes erratas en el texto.
En conclusión, nos parece que la obra, formalmente, está orientada como
firme apoyo para el profesor y para el estudiante, pues pide una posterior
reflexión o aclaración de diversos puntos que el texto presenta y resuelve,
aunque no puede hacerlo de forma exhaustiva. Desde el punto de vista del
contenido es un ejemplo muy valioso de como conjugar la idea de concebir
«el derecho canónico no única ni principalmente como un conjunto de
normas, sino como las relaciones de justicia existentes en una sociedad
humana y divina» (p. 40) con una presentación clara y técnicamente
refinada de un desarrollo bimilenario de la Iglesia, atravesado de cuestiones
variadísimas sacramentos, relaciones Iglesia-Estado, Romano pontífice,
ciencia canónica, etc.. Felicitamos a los autores y esperamos que su manual
se extienda también en ambientes no canonísticos, como los de la teología y
la historia.
L. MARTÍNEZ FERRER
G. BERNAGOZZI, Lo Spirito e la Chiesa. Una lettura pneumatologico-ecclesiologica a
partire dalle preghiere eucaristiche, CLV, Roma 2023, 329 pp.
L’opera di Gabriele Bernagozzi, pubblicata dal Centro Liturgico
Vincenziano, è il CCIX volume della Bibliotheca Ephemerides Liturgicae-
Subsidia. L’autore è sacerdote dell’Arcidiocesi di Genova. Attualmente, nella
stessa città, è parroco e professore presso la Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ligure. Il testo si
propone di studiare il rapporto Chiesa-Spirito e sceglie come contesto per
questo studio lo stretto legame che esiste tra la Chiesa e l’Eucaristia. La
liturgia eucaristica è presentata dall’autore come il locus in cui lo Spirito
agisce e si rivela. Questa azione dello Pneuma divino nella Chiesa la rende
capace di realizzare un «culto spirituale, un’offerta razionale» (p. 202), che
tende a quella comunione e unità voluta da Cristo Gesù (cfr. Gv 17,21).
Fin dall’Introduzione (pp. 11-13), l’autore chiarisce l’obiettivo del suo
testo. Si tratta di «una originale lettura ecclesiologica in chiave
pneumatologica. Il fine è quello di evidenziare, a partire della liturgia,
l’azione del Paraclito sulla Chiesa» (p. 11). Egli parte dal principio che
l’azione liturgica e i testi che la mediano rivelano il mistero del la Chiesa.
Nella celebrazione, intesa come atto dell’Ecclesia, avviene il passaggio dalla
fede proclamata alla fede vissuta. La Liturgia non solo rivela la salvezza per
la vita dei fedeli, ma soprattutto la attua a loro vantaggio. Si tratta, dunque,
di «una teologia dell’Eucaristia e non sull’Eucaristia nelle sue
ripercussioni ecclesiali» (p. 12).
Il libro si compone di tre capitoli. Il primo si intitola: “Una lettura
pneumatologico-ecclesiologica dalle preghiere eucaristiche” (pp. 15-144). Si
parte da un approccio storico, riassumendo le vicende che hanno avuto
luogo nel Concilio Vaticano II e, soprattutto, nel Consilium ad exsequendam
Constitutionem de Sacra Liturgia con il suo Coetus X, che fu proprio il gruppo
dedicato alla riforma dell’Ordo Missae. Una parte molto importante dell’Ordo
è il settore anaforico. È specificamente su questo che si concentra la sezione
storica. Da questo sguardo alla storia, si passa a una breve spiegazione
generale della “struttura di base” delle Preghiere Eucaristiche del Messale
Romano attuale, per arrivare infine a una lunga sezione dal titolo “Le
preghiere eucaristiche e lo Spirito” (pp. 45-141), in cui l’autore si dedica alla
presentazione di ciascuna delle anafore presenti nell’Ordo attuale (Preces
Eucharisticae I, II, III e IV) e nell’appendice all’Ordo (Preces Eucharisticae “de
reconciliatione” I e II e Preces Eucharisticae “in Missis pro variis necessitatibus”, nelle
loro quattro diverse forme).
Per ciascuna delle anafore, l’autore presenta brevemente la storia e la
struttura. Questi due elementi, che fungono da necessaria premessa, ci
conducono poi alla presentazione delle epiclesi sui doni del pane e del vino
e sui comunicanti. Dal titolo dell’opera e dal suo ambito, ci rendiamo conto
che, nel primo capitolo, lo studio delle epiclesi sembra rappresentare la
parte più importante. Bernagozzi aggiunge anche, per ogni preghiera
eucaristica, parti dedicate all’offerta, all’anamnesi e alle intercessioni
presenti in esse. Queste parti, però, sono sempre analizzate alla luce del loro
rapporto con le epiclesi.
Il secondo capitolo del libro si intitola: “I temi ecclesiologici tratti dalle
preghiere eucaristiche a confronto con i Padri e gli scrittori medievali” (pp.
145-218). I “temi ecclesiologici” che, tra l’altro, danno il titolo a questo
capitolo, sono stati evidenziati durante lo studio del capitolo precedente, in
particolare quello sulle epiclesi di ogni anafora. Già nel primo paragrafo,
l’autore presenta i temi da affrontare: «il raduno, la comunione, l’unità, il
“noi” ecclesiale, il culto spirituale e la riconciliazione» (p. 145).
Naturalmente, la radice comune che attraversa tutti è lo Spirito.
Una volta individuati questi “temi ecclesiologici” nelle epiclesi (e nelle
relative sezioni anaforiche ad esse correlate), Bernagozzi è andato a cercarli
nei testi dei Padri e degli autori medievali. Gli scritti teologico-liturgici
trovati dall’autore provengono da almeno tre tipi di testi: le catechesi rivolte ai
catecumeni e ai neofiti, le omelie delle feste liturgiche e «le opere di carattere
teologico e polemico in cui i Padri e autori medievali fanno ricorso alla
Liturgia al fine di difendere la fede cattolica o esplicitarne qualche
caratteristica» (p. 146). Questo capitolo è particolarmente ricco di
riferimenti a importanti autori latini di varie epoche tra l’antichità cristiana
e il Medioevo, con un’interessante molteplicità di citazioni dai loro testi che
possono arricchire notevolmente le conoscenze del lettore in questo campo.
L’esercizio di “raccolta” letteraria compiuto dall’autore colloca le
Preghiere Eucaristiche in un contesto che funge da chiave ermeneutica per i
temi ecclesiologici in esse presenti. Ad eccezione del Canone Romano (e, in
parte, della Preghiera Eucari stica II, che si ispira alla Traditio apostolica),
tutte le altre anafore sono di nuova composizione. Questo, però, non
significa che i loro testi (e i temi in essi contenuti) siano avulsi da una
tradizione, o lontani dal “come” la Chiesa ha compreso ogni parola o
espressione utilizzata lungo i secoli. L’“atmosfera” interpretativa sui temi
ecclesiologici creata all’interno di questo quadro storico patristico-medievale
ha contribuito a rivelare sfumature semantiche di cui non ci si rende conto
ad un primo sguardo sui testi anaforici. Queste sfumature, raccolte e
presentate dall’autore, aiutano il lettore a comprendere non solo i dati
teologici e dogmatici su Cristo, lo Spirito e la Chiesa che transitano tra gli
autori antichi e le preghiere eucaristiche, ma soprattutto rivelano il modus
operandi dello Spirito durante l’actio liturgica, cioè il radunare e il costituire la
Chiesa, per renderla capace di un culto rationabilem e per attuare in essa la
salvezza.
Nonostante l’apporto fondamentale e basilare dei Padri e degli autori
medievali, l’autore non manca di menzionare il contributo teologico
realizzato anche da autori degli ultimi decenni. Il terzo capitolo, intitolato “I
temi ecclesiologici nel pensiero teologico attuale. Una prospettiva
pneumatologica” (pp. 219-317), ha proprio lo scopo di considerare questa
riflessione più recente. Nel capitolo precedente, i “temi” davano il nome alle
parti e il pensiero degli autori patristici e medievali arricchivano
l’argomento di ogni parte, ciascuno con il proprio contributo. Il terzo
capitolo, invece, presenta una leggera differenza. I temi danno il nome alle
parti, ma ogni parte è suddivisa in settori intitolati col pensiero di un
particolare autore “attuale” e con il suo contributo fornito in materia.
Così, per affrontare la celebrazione come “Epifania dello Spirito”,
l’autore presenta i contributi di Achille M. Triacca, che intende la liturgia
come «storia salvifica resa presente virtute Spiritus Sancti» (p. 220). Dallo stesso
autore, Bernagozzi riprende pure il tema del “raduno” e della
“partecipazione”. Dalla vasta ricerca sulla pneumatologia condotta da Yves
Congar, il nostro autore coglie uno degli attributi dello Spirito, ovvero
quello di essere “co-istituente” della Chiesa. La Chiesa, a sua volta, nei suoi
attributi (Una, Santa, Cattolica e Apostolica) è presentata da Congar come
una manifestazione dello Spirito. Sul tema della “comunione”, Bernagozzi
raccoglie i contributi di Jean-Marie Roger Tillard e Henri de Lubac, oltre
ad alcuni testi magisteriali tratti dal pontificato di Giovanni Paolo II a quello
di Benedetto XVI.
Bernagozzi affronta anche il tema dell’unità con riferimenti alle opere di
Hans Urs von Balthasar e Joseph Ratzinger, il quale viene citato anche nei
contributi sul “culto spirituale”. Sul tema escatologico del “regno promesso”
sono presenti i pensieri del teologo riformato Jürgen Moltmann e del
teologo ortodosso Joannis Zizioulas. Infine, come ultimo tema del terzo
capitolo, l’autore presenta il “Mistero pasquale” sulla base dei contributi di
Marcello Bordoni.
Nelle conclusioni generali (pp. 319-329) del suo libro, Bernagozzi
propone una sintesi di tutta la sua ricerca attraverso tre punti. Nel primo,
intitolato “La liturgia luogo attuativo e rivelativo dell’azione dello Spirito
nella e per la Chiesa” (pp. 319-324), l’autore si concentra sulla liturgia intesa
come locus theologicus in cui egli ha dimostrato di essere possibile e
conveniente studiare le relazioni Spirito-Chiesa. Nel secondo punto, la
stessa liturgia, in accordo con il percorso intrapreso dal ricercatore, viene
chiamata “culto spirituale” e, attraverso l’azione dello Spirito, come realtà
che «opera l’oblazione esistenziale che non può essere intesa solo come
azione privata del singolo fedele perché ha una valenza ecclesiologica» (p.
325). Tale culto, in cui si rende visibile la comunione-unità generata dallo
Spirito, dimostra il legame causale tra l’Eucaristia e la Chiesa. Il terzo punto
delle conclusioni generali è dedicato all’escatologia. Nei risultati della
ricerca di Bernagozzi, la liturgia appare come il “luogo” in cui lo Spirito fa
pregustare alla Chiesa il «regno di Dio nella comunione con il Cristo
“veniente”» (p. 328).
Il volume recentemente pubblicato è interessante proprio perché è il
frutto di un investimento di sforzi che ha prodotto un discorso teologico
basato sulla lex orandi. Se è vero che i testi eucologici e l’actio celebrativa della
Chiesa non hanno come obiettivo primario l’esposizione sistematica dei
dogmi della fede, è altrettanto vero che la liturgia, «per ritus et preces» (SC 48),
si rivela un grandioso depositum fidei. Raccogliere da essa i temi che ci aiutano
a comprendere la relazione Spirito-Chiesa può fornire al lettore sfumature
diverse sugli stessi dogmi trattati classicamente in modo discorsivo. Questo
perché la liturgia ci permette di sfuggire alla formalità dei discorsi aulici e
spesso presenta, attraverso la poesia, la metafora e il linguaggio del corpo
presente nei suoi gesti, un interessante mezzo per accedere alle stesse verità
di fede, però attraverso un altro “percorso”. In conclusione, Lo Spirito e la
Chiesa è un eccellente contributo ai campi della Pneumatologia,
dell’Ecclesiologia e, naturalmente, della Scienza Liturgica. Si può
aggiungere pure che, in questi tempi in cui stiamo cercando di approfondire
la nostra comprensione sulla sinodalità e il ruolo dello Spirito nelle relazioni
all’interno della Chiesa, questo libro può fornire al lettore interessato alla
materia un contributo molto importante.
E. NUNES PUGLIESI
C. BETSCHART, L’umano, immagine filiale di Dio. Un’antropologia teologica in dialogo
con l’esegesi, Queriniana, Brescia 2022, 395 pp.
Ci sono molti modi di studiare l’antropologia teologica; l’Autore si propone
di farlo a partire da una profonda riflessione sull’essere umano come
immagine filiale di Dio, da un punto di vista esegetico-dogmatico. Christof
Betschart OCD dal 2020 è preside della Pontificia Facoltà Teologica
Teresianum (Roma), dove insegna Antropologia teologica. È esperto del
pensiero di Edith Stein. La presente monografia si inquadra nel contesto
dell’antropologia teologica sviluppata dopo il Concilio Vaticano II e il suo
oggetto si può sintetizzare nell’affermazione che «l’umano è per creazione e
diventa per grazia immagine filiale di Dio nell’immagine filiale che è
Cristo» (p. 17).
Il libro è diviso in tre capitoli principali: “L’immagine di Dio nella Bibbia
da pensare” (pp. 21-127), “Il Concilio Vaticano II e il suo impulso per
l’antropologia teologica” (pp. 129-231) e “L’immagine filiale di Dio tra
creazione e salvezza” (pp. 233-349). Nel primo capitolo, l’Autore
approfondisce gli studi esegetici sui testi biblici che trattano dell’immagine
di Dio sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Analizza il tema
dell’immagine in Gn 1,26-28, 5,1-3 e 9,6, e spiega i due modelli
interpretativi sul contenuto dell’immagine più influenti negli ultimi decenni:
il modello funzionale, secondo il quale lo scopo dell’immagine sarebbe la
funzione di cura responsabile del creato, e il modello relazionale, secondo il
quale il contenuto dell’immagine sarebbe la relazione con Dio e gli altri
esseri umani in un rapporto che, secondo alcuni esegeti, ha anche un
carattere filiale. Questi due modelli interpretativi implicano presupposti
filosofico-teologici che non sempre vengono esplicitati dai loro
rappresentanti. Allo stesso tempo, secondo Betschart, è possibile affermare
che il testo biblico si mostri aperto a un terzo modello interpretativo, quello
ontologico, in virtù del quale è possibile chiedersi chi o che cosa sia la
creatura capace di svolgere una funzione o di entrare in una relazione.
A continuazione, l’Autore va oltre il significato letterale dell’immagine
secondo il testo sacerdotale e integra la Genesi con la prospettiva paolina,
proponendo un’interpretazione cristologica non solo della ricreazione ma
anche della creazione. La rilettura cristologica permette di dedurre una
concezione dinamica dell’immagine di Dio in cui Cristo è al contempo il
prototipo (Urbild) e il modello (Vorbild) dell’essere umano creato in relazione
a Lui. In tal modo, l’Autore mostra un’ermeneutica non di sostituzione, ma
di integrazione e novità nella continuità. L’interpretazione cristologica e
dinamica dell’immagine è direttamente collegata alla filiazione divina di
Cristo e degli esseri umani. Questa relazione non si trova solo nel corpus
paolino, ma si può già dedurre dal rapporto tra Gn 1,26s e Gn 5,1-3.
Il secondo grande capitolo della monografia si concentra sul tema
dell’immagine da un punto di vista sistematico nel contesto
dell’antropologia teologica contemporanea. In primo luogo, l’Autore
analizza il contributo della costituzione Gaudium et Spes allo sviluppo
teologico del tema dell’immagine, mostrando come nel testo coesistano due
vie: «una procede dall’antropologia verso la cristologia, mentre l’altra
abbraccia l’antropologia all’interno della cristologia» (p. 19). Non c’è
opposizione tra i due approcci; anzi, la diversità evidenzia la necessità di
approfondire l’argomento. Per questo l’Autore amplia la riflessione
conciliare con uno studio sul rapporto tra cristologia e antropologia e tra
natura e grazia, alla luce di alcuni testi della Commissione Teologica
Internazionale e del contributo di grandi teologi del XX secolo come Karl
Barth, Hans Urs von Balthasar, Karl Rahner, Walter Kasper, Wolfhart
Pannenberg e Henri de Lubac. Questi autori gli permettono di
approfondire meglio il fatto che Cristo è il prototipo e il modello
dell’immagine di Dio presente in noi, e anche il modo in cui questa
mediazione creazionale di Cristo si collega con la realizzazione
dell’immagine per grazia fino alla sua pienezza escatologica.
Betschart prende posizione per la seconda via presentata nella Gaudium et
Spes (n. 22), secondo la quale la cristologia abbraccia l’antropologia, il che
non gli impedisce di valorizzare la ricerca umana e una giusta autonomia
del creato. L’Autore si ispira principalmente alla teologia sviluppata da
Henri de Lubac sull’argomento, ma, come egli stesso sottolinea, non fa
un’analisi esaustiva della sintesi tomistica che sta alla base della teologia di
de Lubac: «ai nostri fini, ciò che interessa di più a Lubac non è la precisione
delle sue analisi storiche, ma piuttosto la sua visione d’insieme che è –oltre
all’influenza di Blondel e altri– frutto di una lunga e paziente conoscenza
della tradizione bimillenaria della Chiesa» (p. 225). Questo punto è forse
uno dei limiti dello studio in questione. Allo stesso tempo, l’influenza
lubachiana non impedisce all’Autore di analizzare criticamente la sua
posizione sul tema dell’immagine alla luce della recente ricerca esegetica
sintetizzata nelle pagine precedenti. Betschart sottolinea che l’immagine
designa la persona umana nella sua totalità, anche nella sua dimensione
corporea, e preferisce evitare la distinzione tra immagine naturale o creativa
e somiglianza soprannaturale o escatologica.
Infine, nella terza sezione della monografia, l’interpretazione cristologica
dell’immagine viene messa in relazione con l’interpretazione filiale della
stessa. La stretta relazione tra l’immagine di Dio e la figliolanza divina non
è frutto di una costruzione teologica, ma ha una chiara radice biblica che
può essere approfondita con l’esperienza umana della figliolanza. La
connessione tra l’immagine e la filiazione aiuta a superare l’artificiosa
opposizione tra la dimensione relazionale o funzionale e quella ontologica
dell’immagine di Dio, come presentata da molti autori contemporanei.
Infatti, se il concetto di filiazione è di per relazionale, allo stesso tempo
implica che la figlia o il figlio abbia un’identità propria, distinta da quella
dei genitori. L’Autore fonda la sua posizione in modo originale e
convincente ispirandosi all’opera di Edith Stein. In particolare, in Essere finito
ed essere eterno, la Stein mette esplicitamente in relazione l’immagine di Dio
con il modo unico e irriducibile in cui ogni persona realizza l’immagine.
Questa individualità personale qualitativa è la condizione per una vera
complementarità interpersonale in senso ontologico.
L’Autore difende la tesi secondo la quale è possibile parlare di figliolanza
a livello creazionale. In altre parole, il concetto paolino di adozione divina
non può essere interpretato come una separazione radicale tra un prima e
un dopo. Ecco perché, sottolinea Betschart, «essere creati a immagine del
Figlio significa per tutti gli esseri umani essere figlio o figlia di Dio. Poi,
diventare immagine di Dio per la conformazione a Cristo significa diventare
figlio o figlia di Dio per adozione» (p. 316). Il concetto di immagine e quello
di filiazione, tuttavia, non sono sinonimi. Il primo permette di comprendere
meglio la filiazione in senso creazionale, mentre il secondo contribuisce ad
evidenziare la dimensione personale dell’immagine. L’idea di adozione,
invece, aiuta a distinguere la nostra figliolanza da quella del Figlio. Il
linguaggio interpersonale ha il vantaggio di poter esprimere meglio il
rapporto dell’umanità con Dio nel corso della storia, rapporto caratterizzato
da rotture e riconciliazioni, come espresso nella parabola del figliol prodigo.
L’Autore sottolinea che nella sua ricerca ha lasciato da parte la
tradizionale interpretazione trinitaria dell’immagine di Dio nelle nostre
facoltà e atti spirituali per privilegiare una lettura cristologica della Genesi
come punto di partenza dell’antropologia. Allora la domanda che si pone è
come integrare la dimensione pneumatologica, trinitaria ed ecclesiologica
dell’immagine con questa interpretazione cristologica. Secondo Bertschart,
il divenire dell’immagine, cioè il passaggio dalla capacità alla sua
realizzazione, ci apre alla prospettiva pneumatologica. È lo Spirito Santo
che attualizza la nostra capacità di amare, rendendoci partecipi di Cristo e
facendoci entrare nella pericoresi dell’amore trinitario. Il terzo capitolo si
chiude con un audace riferimento all’immagine filiale in un contesto
ecclesiale. Secondo l’Autore, la ri-generatio battesimale presuppone una
generatio precedente. Questo porta con delle conseguenze quando si parla
della Chiesa, nel senso che «tutti gli esseri umani ne sono membra, ma non
necessariamente membra vive. La vivificazione celebrata e realizzata nel
battesimo non è altro che la partecipazione alla riconciliazione realizzata nel
mistero pasquale di Cristo» (p. 327).
Il libro finisce delineando due prospettive per un ulteriore
approfondimento della teologia dell’immagine filiale che si è sviluppata. La
prima è la questione della salvezza nel contesto di una teologia cristiana
delle religioni e la seconda è un approfondimento dell’interpretazione
funzionale dell’immagine filiale di Dio in relazione all’ecologia
contemporanea.
In sintesi, la proposta di Betschart è quella di considerare il concetto di
immagine filiale di Dio come una chiave di accesso all’antropologia
teologica nel suo insieme. Secondo lui, «i teologi sono consapevoli di questo
potenziale, ma pochi hanno effettivamente cercato di pensarlo fino in fondo,
cioè di farne il concetto centrale della loro antropologia teologica, a partire
dal quale si possono affrontare le altre questioni» (p. 337). La proposta
risulta senza dubbio interessante e merita di essere presa in considerazione
per il potenziale integratore che offre a una disciplina così ampia e a volte
frammentata com’è l’antropologia teologica. Una prospettiva futura di
sviluppo dello studio in questione potrebbe forse essere l’approfondimento
della dimensione pneumatologica e trinitaria dell’immagine filiale in
relazione alla dimensione cristologica, da un punto di vista esegetico, storico
e dogmatico. L’argomento viene trattato nell’ultima parte del libro, ma
potrebbe essere ampliato con uno studio più completo.
Infine, il lavoro ha il merito di mettere in dialogo l’esegesi contemporanea
sul tema dell’immagine filiale di Dio con gli studi sistematici post-conciliari.
Ciò è poco frequente perché, in genere, le opere dogmatiche non tengono
conto in modo sufficientemente approfondito della ricchezza del testo
biblico e, d’altra parte, la tradizione esegetica tende a svalutare lo studio
sistematico. La corretta integrazione delle due discipline contribuirà, senza
dubbio, al rinnovamento della riflessione teologica contemporanea.
C. VIAL DE AMESTI
B. BLANKENHORN, Pane dal Cielo. Introduzione alla teologia eucaristica, («Teologia
Ecclesiale», 7/3), Fede & Cultura, Verona 2023, 390 pp.
Il sacerdote domenicano Bernhard Blankenhorn è, dal 2021, professore
ordinario di Teologia Dogmatica presso l’Università di Friburgo (Svizzera),
dopo avere insegnato per otto anni presso la Pontificia Università di San
Tommaso d’Aquino (Angelicum) a Roma. Con questa pubblicazione ci offre
un manuale di teologia dogmatica sul sacramento dell’Eucaristia.
L’opera inizia con una teologia biblica del sacramento, con l’analisi di
due figure dell’Antico Testamento, secondo la logica dell’unità tipologica
della Storia della Salvezza. Nel primo capitolo (pp. 25-43) la figura è quella
della manna: il cibo simile al pane che Dio inviava dal cielo al mattino per
alimentare il suo popolo durante la traversata nel deserto verso la terra
promessa. L’autore sottolinea che la stessa manna aveva per i giudei un
senso trascendente in quanto era segno del nutrimento spirituale nel
manifestare «la sovranità di Dio sulla creazione, la sua immanenza e anche
la sua radicale trascendenza» (p. 30). La comprensione del suo senso
tipologico, cioè il senso della manna alla luce del sacramento dell’Eucaristia
in quanto suo compimento, prosegue con lo studio del discorso del pane di
vita del capitolo sesto del vangelo di san Giovanni.
Nel capitolo secondo (cfr. pp. 44-58) è presentata la seconda figura: la
cena pasquale. In armonia con l’esegesi tipologica, l’autore sostiene una
continuità e una discontinu ità tra la cena pasquale ebraica e quella di Gesù.
La continuità sta nel fatto che l’ultima cena fu una cena pasquale. A questa
conclusione arriva soppesando gli argomenti a favore e contro. La
discontinuità si evince nel modo di interpretare le parole di Gesù sul pane e
il vino. Blankenhorn critica la posizione di Giraudo nel suo libro, In unum
corpus (San Paolo, Cinisello Balsamo 2007), in cui interpreta le parole di
Gesù strettamente alla luce del rituale giudaico e del memoriale. Per
Blankenhorn invece «il dono dell’Eucaristia è talmente nuovo che le
categorie giudaiche offrono un necessario, ma non sufficiente, fondamento
per l’interpretazione delle parole di Cristo» (p. 53, nota 42). La novità della
Nuova Pasqua messa in evidenza dopo un’attenta analisi dei racconti
biblici dell’ultima cena è la realtà della cena come sacrificio e banchetto,
tenendo conto che quest’ultimo aspetto non è «in posizione dominante
rispetto a quello del sacrificio. Piuttosto, troviamo un bilanciamento tra i
due aspetti» (p. 58).
L’autore presenta nell’introduzione un’idea che si intravede come forma
che struttura ogni capitolo dei sette succesivi. L’idea è che «la teologia
eucaristica si è giovata molto del rinnovamento degli studi biblici e liturgici,
ma questi apporti possono offrire il proprio contributo alla vita della Chiesa
in modo pieno solo se sono accompagnati dall’assimilazione degli
insegnamenti dogmatici della Chiesa sull’Eucaristia e dalle teologie di
stampo metafisico che li sorreggono» (p. 20). In armonia con questo
principio, ciascun capitolo contiene un’analisi biblica dell’argomento
specifico in studio, seguita da un’esplorazione storica della liturgia
celebrativa e degli insegnamenti dei Padri della Chiesa e del Magistero.
Successivamente, vengono esposte le questioni affrontate dalla teologia
contemporanea, per concludere con uno studio dogmatico dell’argomento
trattato basato sulla dottrina di san Tommaso d’Aquino, che, nelle sue
parole, «ci offre la più completa teologia eucaristica di qualunque altro
teologo classico» (p. 15).
Nel terzo capitolo (pp. 59-89) si affronta con un’originale prospettiva
l’istituzione dell’Eucaristia. Lo studio non si sofferma sui fondamenti biblici,
già esaminati nei capitoli precedenti, bensì si concentra sull’analisi del
legame tra l’Ultima Cena di Gesù e la celebrazione liturgica dell’Eucaristia
nei primi cinque secoli dell’era cristiana. Blankenhorn si propone di
rispondere a Paul Bradshaw e ad altri storici della liturgia che tendono a
minimizzare tale legame, sostenendo l’esistenza di una supposta diversità
radicale tra le varie liturgie cristiane delle origini.
Attraverso l’esame delle fonti liturgiche di quest’epoca, con particolare
attenzione all’anafora di Addai e Mari l’unica testimonianza che sembra
non presentare le parole e i gesti di Gesù sul pane e il vino Blankenhorn
dimostra in modo soddisfacente due tesi fondamentali. In primo luogo, che
l’Eucaristia celebrata dai primi cristiani trova la sua origine nell’Ultima
Cena, intesa da Gesù come un rito liturgico da ripetere in memoria sua. In
secondo luogo, che Gesù stesso istituì alcuni degli elementi specifici che sono
stati fedelmente rispettati nelle celebrazioni successive.
Il capitolo si conclude con una riflessione sistematica di taglio scolastico
sull’istituzione e sul segno sacramentale.
Prima di esporre ciò che egli considera il fulcro del manuale, ossia il
sacrificio eucaristico (cap. V) e la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia
(cap. VI), Blankenhorn ritiene opportuno intraprendere due digressioni
(cap. IV).
La prima digressione si concentra sulla convenienza di portare avanti la
riflessione sull’Eucaristia sostenuta dai fondamenti cristologici ed
ecclesiologici. Questo approccio si allinea con l’orientamento del Magistero
e della teologia contemporanea, i quali tendono a comprendere i sacramenti
partendo dal mistero di Cristo e della Chiesa. Dalla seconda metà del secolo
XX ciò ha portato alcuni autori a estendere l’applicazione del termine
“sacramento” sia a Cristo che alla Chiesa. Attualmente, è diffusa
l’abitudine, riprendendo una terminologia di Rahner, di designare Cristo
come il sacramento primordiale e la Chiesa come il sacramento
fondamentale. Tuttavia, Blankenhorn dimostra che non è opportuno
definire Cristo come un sacramento, poiché l’umanità di Cristo non
rappresenta ontologicamente un’altra realtà, bensì costituisce l’umanità
della persona di Cristo (ossia il mistero dell’unione ipostatica). Al contrario, i
sacramenti, in quanto segni, costituiscono una realtà ontologicamente
differente rispetto alla realtà che essi significano. Riguardo all’Eucaristia, le
specie del pane e del vino non sussistono nella Persona del Figlio (cfr. pp. 91-
92).
In relazione alla Chiesa, Blankenhorn la definisce come il sacramento di
Comunione, in armonia con quanto affermato nella Costituzione
dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II (cfr. n. 1). Egli spiega il
significato di questa espressione adottando la dottrina di Benoît-Dominique
de La Soujeole, come esposta nel suo libro Introduzione al Mistero della Chiesa
(Parole et silence, Paris 2006). La tesi di base su cui si fonda questa definizione
è che la «Chiesa partecipa ai doni che appartengono all’umanità di Gesù
Cristo. È questa la ragione per la quale la Chiesa può anche comunicare tali
doni di grazia. Dato che essa è unita al proprio Capo, può anche
trasmettere una comunicazione alla vita di lui» (pp. 92-93).
La seconda digressione contenuta nel capitolo quarto consiste nel capire,
in base al pensiero di san Tommaso, la natura dell’umanità di Cristo e dei
sacramenti come causa della salvezza (cfr. pp. 98-103), e del sacrificio di
Cristo come soddisfazione per i peccati dell’uomo a partire dalle due figure
nell’Antico Testamento (cfr. pp. 103-119). Sono due presupposti di partenza
per affrontare i due capitoli successivi.
Nel capitolo quinto (cfr. pp. 120-188) si presenta la natura sacrificale
dell’Eucaristia. Secondo l’autore, la teologia del sacrificio è caduta in
disgrazia a causa dell’antropologia di Karl Rahner, la filosofia del sacrificio
di René Girard e la teologia sul sacrificio di Louis-Mariae Chauvet (cfr.
pp.120-123). Lo studio biblico, liturgico e magisteriale conclude con la sua
proposta dogmatica in armonia con quella di san Tommaso. Blankenhorn
afferma che il sacrificio della Messa è la rappresentazione del sacrificio di
Cristo, cioè, nel «rappresentare la Passione, quel medesimo sacrificio è reso
presente qui e ora» (p. 146). Nella parte storica, tuttavia, manca un’epigrafe
sul Movimento liturgico. Infatti, dopo il Concilio di Trento la teologia
il Magistero insegnano l’unità sostanziale tra il sacrificio di Cristo e il
sacrificio dell’Eucaristia. Il Movimento liturgico, come spiega Benedetto
XVI, ha contribuito significativamente a far che il Magistero
contemporaneo riprendesse tale unità. Blankenhorn, inoltre, non rende
giustizia all’insegnamento di Odo Casel. Lo menziona soltanto una volta in
una nota a piè di pagina per dire che è un autore a cui si ispira Giraudo (cfr.
p. 152, nota 116).
Riguardo all’efficacia del sacrificio, l’autore conclude che è salvifica
«perché in essa: 1) Cristo è rappresentato nel suo atto di offerta; 2) Cristo è
la vittima realmente presente; 3) le specie, consacrate separatamente,
vengono offerte al Padre; 4) il celebrante comunica all’oblazione in persona
Ecclesiae» (pp. 177-178). Un punto della sua proposta da evidenziare è la sua
critica a identificare nella consacrazione l’essenza del sacrificio eucaristico in
modo che la comunione del sacerdote sotto le due specie sia valutata
semplicemente come qualcosa di richiesto per l’“integrità del sacrificio”. Per
Blankenhorn non si può distinguere la comunione del sacerdote dall’essenza
del sacrificio. La base biblica si trova nella continuità tipologica del sacrificio
della Pasqua giudaica: così come nella figura si riteneva compiuto il
sacrificio dell’agnello solo quando gli israeliti lo avevano mangiato, lo stesso
accade con la comunione del sacerdote, in quanto agisce in persona Christi et
Ecclesiae (cfr. pp. 173-178).
Nel capitolo sesto (cfr. pp. 189-254) si sofferma sulla presenza sostanziale
di Cristo nell’Eucaristia. Dopo uno studio storico sugli insegnamenti dei
padri, dei teologi e del Magistero fino al secolo XIII (cfr. pp. 191-200), passa
all’esposizione sistematica sulla conversione e la presenza reale di Cristo
sotto le specie eucaristiche (cfr. pp. 200-239). Nell’insegnamento dogmatico
riprende la dottrina di san Tommaso con un discorso filosofico per aiutare il
lettore a capire la sua metafisica. Termina il capitolo rispondendo alle
obiezioni che provengono dalla dottrina dei riformatori protestanti e di due
autori contemporanei: la proposta di Edward Schillebeeckx di parlare di
transignificazione invece di transustanziazione, e la proposta di Chauvet
sull’efficacia simbolica (cfr. pp. 239-254).
Nel capitolo successivo, il settimo (cfr. pp. 255-282), Blankenhorn studia il
momento in cui avviene la conversione del pane e del vino nel corpo e
sangue di Cristo. Nella parte storica presenta la posizione della Chiesa
Latina e Ortodossa che nel secolo XVII sono ben definite e appaiono in
contrasto. Per la Chiesa Latina, «le offerte poste sull’altare diventano il
corpo e il sangue di Cristo mediante le parole di istituzione» (p. 270) mentre
la posizione della Chiesa Ortodossa è «che l’epiclesi (susseguente le parole
istituzionali) operi la trasformazione delle oblate, rimanendo comunque
necessario recitare il racconto istituzionale» (p. 267). Blankenhorn propone
una soluzione che armonizza entrambe le posizioni in base all’unità tra il
segno sacramentale e la celebrazione liturgica. Siccome l’Eucaristia è
sacrificio e sacramento, il sacerdote, nel momento della consacrazione, «non
dovrebbe avere la mera intenzione di convertire il pane e il vino nel corpo e
sangue di Cristo, ma anche quella di celebrare un sacrificio [...] sembra che
sia necessario un contesto cultuale affinché le parole di istituzione siano
efficaci» (p. 277). Perciò solo all’interno della Preghiera Eucaristica, che
contiene tra altro l’epiclesi consacratoria e la comunione del sacerdote
celebrante che è parte costitutiva dell’essenza del sacrificio –, il pane e il
vino si convertono nel corpo e sangue di Cristo nella consacrazione.
Conclude che le tradizioni, latina e bizantina, potrebbero trovare un
accordo in questo modo: «celebrando il rito, il sacerdote accetta la struttura
e il significato di esso e la sua intenzione viene così modellata dal rito
medesimo. L’intenzione del sacerdote latino è di pronunciare le parole
dell’istituzione non come una semplice narrazione, ma applicandole sulle
oblate poste sull’altare. L’intenzione consacratoria del sacerdote bizantino si
concentra sull’epiclesi, per celebrare il mistero chiedendo allo Spirito Santo
di rendere efficaci le parole di istituzione. Questo però non significa
necessariamente che negli orientali le oblate si trasformano solo quando è
stata pronunciata l’epiclesi» (p. 279).
Come detto poc’anzi, nel capitolo settimo Blankenhorn si sofferma sul
ministro dell’Eucaristia e nell’ultimo capitolo riflette sulla comunione con
un excursus sulla comunione spirituale riprendendo il dibattito aperto con il
Covid-19.
Desidero ora sottolineare quelli che considero i due pregi più significativi
di questo manuale. In primo luogo, il mostrare la necessità della ragione
metafisica per avvicinarsi alla comprensione del mistero dell’Eucaristia.
Recentemente la Commissione Teologica Internazionale, nel suo
documento sulla reciprocità tra la fede e i sacramenti nell’economia
sacramentale, del 2021, afferma appunto che una delle cause della crisi
attuale della dissociazione tra fede e sacramenti è il fatto di negare alla
ragione la sua capacità di conoscere la verità dell’essere (cfr. n. 4). Dal
manuale si evince che la comprensione del sacramento dell’Eucaristia con
un pensiero che si dissocia dalla filosofia dell’essere mette in crisi la fede sul
sacramento stesso. Ciò significa che non vi è necessariamente
un’opposizione tra pensiero metafisico e pensiero liturgico, antropologico o
culturale, ad esempio. Tutt’altro, perché solo la filosofia dell’essere può
orientare e aprire la ragione a una comprensione vera dalla realtà.
In secondo luogo, mi riferisco al dialogo tra teologia dogmatica e teologia
liturgica presente nel libro. Di solito, la teologia dogmatica guarda il segno
sacramentale e la teologia liturgica la forma celebrativa nella storia; per
Blankenhorn non è possibile comprendere il segno sacramentale isolandolo
dal rito liturgico in cui viene celebrato. E nell’unità tra segno e liturgia
celebrativa egli rinviene una splendida luce, capace di illuminare questioni
dibattute da secoli.
R. DÍAZ DORRONSORO
S. FONTANA, La Dottrina politica cattolica. Il quadro completo passo dopo passo,
Fede&Cultura, Verona 2023, 255 pp.
“La Chiesa cattolica ha una dottrina politica?” è la domanda, per certi versi
provocatoria e per altri dovuta, a cui Stefano Fontana intende rispondere
programmaticamente, a un livello base, tramite questo agile manuale di
Dottrina sociale della Chiesa [DSC]. Quest’interrogativo si rivela presto
inseparabile da un altro, che può essere considerato la vera anima del libro:
qual è il ruolo di Dio (e più precisamente di Cristo, della Chiesa e del
Vangelo) nella vita pubblica, del quale l’A., esponendo efficacemente
l’impossibilità della neutralità nella sfera pubblica, intende far riemergere la
centralità, per accogliere l’invito leonino a ricostruire una società cristiana.
Fontana, direttore dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van
Thuân, preferisce sin dal titolo l’espressione Dottrina politica cattolica,
evidenziando il ruolo politico del cattolicesimo e la compresenza di vari
livelli di discorso: non espone solo il Magistero sociale sistematico, ma,
riallacciandosi all’intera dottrina sociale e politica cattolica «classica e
tradizionale» (p. 7) sia teologica che filosofica, implicitamente ai Padri e ai
Dottori, introduce ad un universo della fede e del pensiero molto più vasto,
messo in relazione con l’attualità. Riflette così l’anima molteplice ma
unitaria della DSC: ne presenta essenza, fondamenti e principi e ne esprime
l’attenzione all’attualità sia politica e geopolitica sia del dibattito teologico
contemporaneo. La prospettiva, fedele all’insegnamento leonino, è
saldamente tomista, dal forte riferimento alla Regalità sociale di Cristo e
molto critica verso la modernità e le ideologie derivatene, verso il
personalismo cattolico e la svolta antropologica rahneriana e si spinge fino
ad affron tare errori, a giudizio dell’A., entrati nella cattolicità.
L’impostazione è impiegata per affrontare anche il presente e il passato
recentissimo, ad es. la “questione antropologica” legata a quella della
tecnica –, la cultura del consumo, la “società palliativa”, la nascita del
potere terapeutico, la biopolitica e l’obbligo vaccinale nella pandemia di
Covid, l’“emergenza educativa”, il globalismo, l’ecologismo e la transizione
ecologica, il transumanesimo. La proposta dell’A. si caratterizza in modo
piuttosto netto nell’ambito di visioni diverse, anche autorevoli dal punto di
vista scientifico, nell’approccio a problemi che, come si vedrà, risultano
notevolmente controversi.
Tratto caratterizzante del testo è la struttura didattica e sistematica,
ripresa dal Catechismo di papa Pio X ma oggi effettivamente innovativa:
domande e risposte brevi, frutto della ricerca di sintesi teoretica (ispirate alla
brachilogia socratica), volutamente non argomentate ma collegabili tra loro
tramite studio e riflessione in modo da ricostruire l’insieme del discorso. A
seconda del tema, possono essere corredate da un elenco più o meno lungo
di documenti magisteriali (in sigla), che le fondano o le riguardano (anche
con una prospettiva differente). L’A. sottolinea la diversità dei vari casi
quanto a competenza del Magistero e ad assenso di fede, sia in termini
generali sia nel corso del testo. Ad es., apprezza il distributismo, ma
sottolinea che la DSC non sostiene un solo sistema economico. Il lettore alle
prime armi è favorito e stimolato.
Tranne eccezioni, le fonti filosofiche e teologiche non sono indicate per
semplicità. Tuttavia, sono molto presenti l’impianto tomista, soprattutto nei
principi metafisici, epistemologici e antropologici, e la critica della
modernità e delle sue incompatibilità con la DSC.
Il volume, corredato da un paragrafo iniziale di Avvertenze (pp. 7-8) e, in
chiusura, dai due indici Riferimenti e sigle adoperate (pp. 245-252) e Libri di
Stefano Fontana (pp. 253-254; utile per confrontarsi con il suo pensiero,
rintracciando un’argomentazione più approfondita delle varie tesi), è
composto da tre parti divise in totale in quattordici capitoli: La dottrina sociale
cattolica [Natura e fini della Dottrina sociale cattolica (pp. 11-31); La dottrina sociale
nel quadro del sapere (pp. 32-43); La legge naturale (pp. 44-57); La religione e le
religioni (pp. 58-65)]; Fondamenti della Dottrina sociale cattolica [La centralità di Dio
nella vita pubblica (pp. 69-74); Il bene comune (pp. 75-80); La precedenza dei doveri
sui diritti (pp. 81-91); La persona umana (pp. 92-100); L’indisponibilità della vita
umana (pp. 101-120); Il principio di sussidiarietà (pp. 121-126); La proprietà privata
e l’universale destinazione dei beni (pp. 127-137)]; Gli ambiti della Dottrina sociale
cattolica [La politica (pp. 141-166); Il matrimonio e la famiglia (pp. 167-172);
Educazione e scuola (pp. 173-184); La società (pp. 185-197); Il lavoro (pp. 198-
209); L’economia (pp. 210-228); La comunità internazionale (pp. 229-243)]. L’A.
intende coprire tutti i principali argomenti e nozioni di DSC, presentando
in ogni capitolo nozione e principali implicazioni del relativo oggetto,
soffermandosi prima sull’essenza e la struttura della DSC per poi estendersi
ai fondamenti teologici e filosofici e agli ambiti di applicazione. I temi
trattati sono perciò molto numerosi e, mentre i più importanti sono
approfonditi man mano, programmaticamente anche in capitoli e parti
differenti (repetita iuvant), altri sono giocoforza accennati in modo breve.
L’ordine adottato è già una dichiarazione teoretica, che evidenzia il primato
dell’essere, della metafisica, della religione vera (e del fine); essendo Dio il
fondamento assoluto della DSC, non si inizia dall’analisi sociologica
dalla persona, pur ribadendo l’importanza della “questione antropologica”
e che la persona è essenzialmente sociale (persona e società sono altrettanto
originarie): «senza Dio la persona perde il proprio fondamento. La
questione antropologica, in fondo, è una questione teologica» (p. 70).
Tratto caratterizzante è che vari temi sono affrontati in modo non
clericale, in aperto dissenso rispetto a correnti teologiche affermate (ad es. la
pastorale che contribuisce a creare la dottrina) o alla “teologia ufficiale
cattolica”, indicando anche casi in cui il Magistero è espresso in modo poco
chiaro o coerente con la dottrina consolidata. Tra questi, spicca la libertà
religiosa, sulla quale per l’A. il Magistero dovrà pronunciarsi nuovamente:
Dignitatis Humanae «non ha chiuso il problema della libertà di religione, ma
l’ha aperto» (p. 62), in primis perc la religio vera è essenziale per il bene
comune e per fondare la dignità della persona e il bene pubblico, senza che
ciò dia vita a un fondamentalismo religioso.
Notevole punto di interesse è l’importanza riconosciuta alla filosofia per il
suo apporto alla teologia – e dunque non solo alla dimensione propriamente
filosofica ma anche a quella teologica della DSC, «teologia che, in quanto
tale, abbisogna anche della filosofia» (p. 35) e per lo sviluppo di
quest’ultima come vera scienza; il dogma ha esigenze epistemiche. La
filosofia, quindi, non può essere qualsiasi ma deve evidenziare le verità della
ragione naturale la legge naturale, la metafisica e la sua apertura alla
trascendenza della religione sotto pena che la DSC sia inevitabilmente
deformata (ad es. il pastoralismo nasce dall’assunzione del paradigma
moderno e dell’apriori trascendentale). Sono necessari il realismo metafisico
di Tommaso d’Aquino e l’impostazione della filosofia cristiana leonina: «essa è
la continuazione della filosofia e della teologia di san Tommaso d’Aquino»
(p. 42) che usa la ragione filosofica nella fede: «la ragione sociale e politica,
staccata dalla fede, assolutizza se stessa e diventa una nuova religione, una
religione ideologica, perché è una parte che vuole valere per l’intero» (p.
43).
Nella prima parte, è molto puntuale l’esposizione della natura della DSC
e della legge naturale (con largo spazio ai principi non negoziabili). Tra i
punti trattati, si segnalano l’appartenenza della DSC all’essenza e alla
missione della Chiesa e la sua unità e continuità pur nelle «variazioni
postconciliari» (p. 20): essa è annuncio di Cristo come Creatore e Salvatore
e dunque Re nelle realtà temporali; ciò significa combattere
l’estromissione di Dio dalla vita pubblica, per una sua «ri-cristianizzazione»
(p. 14). Il fine dell’uomo è «duplice [...], ossia un unico fine articolato in
due» (p. 23), naturale e soprannaturale, in cui quello terreno non è solo
strumentale ma è subordinato al secondo e dei quali la Chiesa si occupa
direttamente ma in modo diverso. Dai forti risvolti attuali è la dannosità
dell’ateismo, che «non permette di costruire relazioni sociali nella loro
pienezza» (p. 25). Il rapporto tra fede e ragione, fondativo della DSC, è
ricostruito in modo molto accurato. Altro elemento di interesse,
approfondito in seguito, è l’inserimento della DSC nella gerarchia classica
del sapere. Il capitolo sulla religione è occasione per spiegare percsolo il
cattolicesimo esprime la DSC, soffermandosi sulle motivazioni filosofiche e
teologiche e per introdurre appunto la questione della libertà religiosa.
La seconda parte sviluppa gli argomenti in modo da condurre il lettore,
passaggio dopo passaggio, alla terza, partendo dalla centralità di Dio e dalla
necessità della sopra-natura percla natura consegua i propri fini naturali
per arrivare ai principi: dignità della persona (con la conseguente
indisponibilità della vita umana), bene co mune, sussidiarietà, proprietà
privata e destinazione universale dei beni (con l’opzione preferenziale per i
poveri). Ivi l’A. presenta la precedenza dei doveri sui diritti e il loro
fondamento, rigettando l’emotivismo, e si sofferma sul personalismo
cattolico, rigettato per il modo di concepire la persona, in particolare come
«sintesi ultima della costruzione della società e della politica» (p. 96) che
quindi nega la dipendenza della persona stessa da Dio e «Lo esclude
indirettamente» (ibidem) dalla pubblica piazza: «l’impegno dei cattolici in
politica deve essere anonimo e invisibile, dando di fatto vita a una
separazione» (p. 97) tra fede e impegno politico. La svolta antropologica
rahneriana «rende impossibile» (ibidem) la DSC, riducendola a «residuo
ideologico della cristianità» (ibidem) basato sulla metafisica. Spicca per
ampiezza ed esaustività la questione dell’aborto. È molto interessante la
sottolineatura che, con le soluzioni dello sharing globalista (come con quelle
comuniste), la proprietà privata è solo trasferita ad altre persone.
Nella terza parte, in cui i temi divengono talvolta occasione per
presentare questioni più fondative, morali o epistemiche, spicca il capitolo
dedicato alla politica, molto corposo, che considera la comunità politica
organica, con un fine comune e caratterizzata da amicizia civica; sottolinea
l’importanza della famiglia e del matrimonio (a cui è dedicato il cap.
successivo) e giunge a toccare la storia delle idee del ’900 e i temi più attuali
in modo forte e originale, ad es. la democrazia «totalitaria» (p. 153) e la sua
veste «procedurale moderna» (ibidem), conseguenza del costruttivismo.
Molto tomista la dipendenza della politica dalla filosofia teoretica, anche se
non è ammessa la scientificità della politica e della filosofia pratica,
intendendo il termine in senso moderno. La politica è autonoma dalla
religione cattolica in quanto «ha fini propri (il bene comune temporale),
metodi propri (le sintesi di governo per realizzare il bene comune temporale)
e una propria fonte di legittimazione (il diritto naturale)» (p. 155), ma non è
indipendente in quanto non sa fondarsi da darsi il suo fine ultimo:
«l’autorità politica dipende da quella religiosa per la sua legittimazione
ultima, non per la sua legittimazione prossima per i suoi criteri e metodi
operativi, e quindi sta a essa come il corpo all’anima» (p. 148).
Interessantissimo è che il legame dello Stato moderno con la Riforma, in
virtù della separazione tra fede e ragione, si esprime nel compito del
principe riformato non più «di lavorare per il bene comune, ma solo di
reprimere gli istinti malvagi dei cittadini con la pura forza» (p. 157) e che,
per la morale cattolica, il bene si compie realizzando le inclinazioni naturali
con l’aiuto della Grazia divina. Educazione e scuola sono unite nello stesso
capitolo senza che la seconda venga identificata con la prima e
sottolineando la dimensione pubblica del dovere/diritto educativo dei
genitori e della Chiesa e il carattere «derivato e sussidiario» (p. 176) di
quello dello Stato. L’A. è molto lucido nel trattare i problemi
dell’uguaglianza e della povertà, rigettando concezioni utopiche e dannose
per la società, che «deve essere gerarchica, serve una classe sociale che
faccia da guida all’intera popolazione per quanto riguarda l’integrità morale
della vita e la conservazione e la trasmissione dei valori naturali e
tradizionali, compresi quelli religiosi» (p. 189). Molto interessanti sono la
pericolosità del nomadismo lavorativo e la difesa del corporativismo
cattolico (da non confondere con quello fascista) e, soprattutto, il legame
forte tra economia e morale. Dell’ultimo capitolo, spiccano i motivi naturali,
ontologici e morali, e trascendenti dell’unità del genere umano e la
concezione della fraternità universale (non fratellanza), che conducono al
rigetto del globalismo.
Il testo, coniugando l’esposizione dei fondamenti della DSC con
l’attualità, è un sussidio utile sia per il semplice lettore interessato, sia a
livello didattico per il docente, tenendo presente, però, che non si tratta
dell’unica visione possibile di questi problemi di quella maggioritaria. Il
valore maggiore di questo libro, sicuramente ambizioso, risiede forse nella
capacità di far trasparire la complessità e i diversi piani di articolazione, pur
nella semplicità e brevità dell’impianto, e nella presentazione senza
compromessi e clericalismi della prospettiva teologica e filosofica
tradizionale e delle principali conseguenze trattene, permettendo così anche
allo specialista di confrontarsi con una prospettiva antimoderna, combattiva
e ben precisa, assumendo la concisione delle tesi come spunto di riflessione.
M. SAVARESE
C.L. ROSSETTI, Dignità e fraternità. L’eutopia cattolica tra islamismo e
transumanesimo, Cantagalli-Chirico, Siena-Napoli 2023, 256 pp.
Una «sintesi di teologia morale e sociale» (retro di copertina) unita alla
presentazione di un possibile futuro “eu-topico” e di due altrettanto possibili
“dis-topie” «con parrhesia profetica» (p. 215): non si può dire che il saggio di
don Carlo Lorenzo Rossetti difetti di ambizione e idealità.
L’Autore, laureato in Storia e in Filosofia e Dottore in Teologia, ha
insegnato in atenei e seminari e riprende qui il suo breve libro La civiltà
dell’amore e il senso della storia (2009) per riflettere su «un necessario nuovo
modello di rapporto tra la Chiesa e Mondo» (p. 7). Dopo il definitivo
tramonto della Cristianità «prestigioso esperimento [...] epoca anche
gloriosa» (p. 6) e «teocrazia o “ierocrazia” [...] Sharìa cristiana”» (p. 6)
auspica la «civiltà dell’Amore» (p. 7) di papa Paolo VI, identificata con una
“eu-topia” cattolica mai «storicamente del tutto raggiungibile» (p. 9), una
società cristianizzata retta da: dignità intesa come filialità, è fondamento
della morale e fraternità conseguenza della prima in ambito sociale e
«fondamento dell’etica comunitaria» (p. 80); «Papa Francesco ha il merito di
aver[la] post[a] come mai prima d’ora [...] al centro dell’attenzione» (p.
9) alle quali si accosta come contesto l’ecologia umana. Le due distopie, non
del tutto avveratesi ma già in lotta, sono islamismo, fanatismo religioso e
teocratico, e transumanesimo, culto tardo-occidentale, ateo e tecnocratico della
libertà.
«[S]e la Chiesa è “sale”, “lampada” e “lievito”, la società fraterna è la
pietanza salata, la stanza illuminata, la pasta fermentata» (p. 9), laddove,
con Teilhard de Chardin, «la comunità dei battezzati (fraternità cristiana) è
quell’elemento (luce/sale/fermento) soprannaturale necessario nel corpo
dell’umanità percsi possa manifestare la fraternità naturale» (p. 111). La
tesi sembra chiarirsi a fondo trattando di un islâm «emblema della religiosità
naturale» (p. 161), «[i]l mistero [del quale] sarebbe allora quello della
volontà di Dio di accettare la distinzione tra “cristiani” e “cristianizzati”; tra
la grazia e la natura aperta ad essa; tra la “lampada” e la “stanza
illuminata”. Come dire che Dio acconsente che nel mondo vi siano dei
gradi distinti di assimilazione della Verità» (p. 165).
Il contributo della teologia e della spiritualità neocatecumenali è
sotterraneo ma preponderante (ad es. la concezione dell’atteggiamento
filiale, consapevole della propria dignità e che culmina nella libertà e nella
parrhesia; l’importanza della comunità; la centralità dell’«amore kenotico [...]
per cui l’Innocente diventa “peccato”», p. 67), fino a diventare quasi un
manifesto di teologia morale sociale e per il futuro della Chiesa: «adulta,
matura e profetica, di santità popolare, laicale» (p. 232), con un largo spazio
per i movimenti post-Vaticano II, guidati forse da «“profeti”
contemporanei» (p. 231). L’avveramento dell’eutopia richiede che «il
cristianesimo si manifesti sempre più come fede oltre la religione» (p. 223),
dalla predicazione non amartiocentrica ma imperniata sul kerygma, a cui
segua «una prassi pastorale di iniziazione e mistagogia capace di portare
tale processo di adozione filiale e quindi di ‘divinizzazione’ nel concreto del
vissuto dei fedeli» (p. 225); essenziale è il «catecumenato» (p. 226).
Il testo si divide in Introduzione (pp. 5-11); due parti, I. L’Eutopia cattolica
(pp. 13-156) e II. Distopie del mondo. Islamismo e transumanesimo (pp. 157-218),
per un totale di cinque capitoli: 1. “Dignità filiale” (pp. 15-76), 2.
“Fraternità” (pp. 77-112), 3. “Rispetto della natura: l’ecologia umana” (pp.
113-156), 4. “La tentazione teocratica: l’islamismo” (pp. 159-180), 5. “La
tentazione tecnocratica: il transumanismo” (pp. 181-218); Conclusione A
mo’ di epilogo. Precondizioni per un futuro umano” (pp. 219-241). È
corredato da: Appendice (pp. 243-245) di tre schemi, il primo (sulla I parte),
aggiunge ulteriori idee sui fondamenti della civiltà dell’Amore, con il
passaggio biblico da Lamek a Mosè a Gesù, gli altri (sulla II parte)
rispettivamente sull’utopia/distopia e sull’utopia/eutopia; Indice di
abbreviazioni e sigle (p. 246) e Bibliografia scelta e fonti (pp. 247-251). A fine del
primo capitolo c’è un’ulteriore scheda: La tavola della figliolanza (p. 76).
L’ambizioso progetto dell’Autore si declina nella presentazione e ri-
presentazione (non sempre lineare) sotto diverse angolature dei vari
concetti, talvolta tagliata per un pubblico alle prime armi e talaltra
approfondendo alcuni aspetti particolari, appoggiandosi a passi scritturistici
ed evangelici e a tesi o nozioni teologiche o filosofiche di un ampissimo
ventaglio di autori, di più o meno rilievo (tra i quali spicca Kant). Rossetti
preferisce selezionare di volta in volta rapidi passaggi dei suoi autori e
sommare lunghe citazioni di documenti magisteriali recenti (soprattutto di
Benedetto XVI e Francesco), affrontati singolarmente. Spiccano
l’appassionata difesa del Documento di Abu Dhabi e di Fratelli Tutti, nella cui
«originale e coraggiosa apertura alle religioni» (p. 11) l’Autore ravvisa
«un’indole frenante (“katechontica”)» (p. 11), e il costante impiego del
magistero di papa Francesco come sostegno delle proprie tesi. Il testo si
sviluppa affrontando più o meno rapidamente molti temi particolari, tra cui:
un possibile «decalogo originario», con Gerhard von Rad; la legge naturale;
«la verità come bellezza dell’unità tramite la bontà» (p. 135); le migrazioni
in Europa; il jihad; disruzione umana e capitalismo di sorveglianza;
l’auspicio di un pronunciamento magisteriale sul matrimonio, riproponendo
un testo a cui l’Autore ha contribuito; la conclusione favolistica con un
«libero adattamento, quasi una sorta di targum o midrash» (p. 240) di Lc
15,11-32. Il presente è considerato fonte di urgenza e, specie nella seconda
parte, sono presenti brevi valutazioni storiche o sull’attualità, che pure
hanno spinto l’Autore a dichiarare di non «cadere nel complottismo» (p.
195n).
L’introduzione offre un inquadramento storico e teoretico poi non
approfondito: non bisogna aspettarsi una discussione rigorosa delle nozioni
di “utopia”, “distopia” ed “eutopia” né di “Cristianità” o “teocrazia”.
Nella prima parte, l’Autore intende esprimere «la pregnanza e la
legittimità dell’eutopia cattolica» (p. 10), ma il programma si esprime nella
presentazione (che intenderebbe compendiare il messaggio sociale della
Chiesa a riguardo e illuminare il rapporto tra humanum e cristiano) nei tre
capitoli delle nozioni rispettivamente di (1) dignità come filialità (concetto
principalmente trattato), (2) fraternità («principio» e insieme «valore cardine
di una futura nuova cultura e civiltà veramente umana», p. 9) centrali
rispettivamente nel rapporto “verticale” a Dio e in quello “orizzontale”
interpersonale e sociale e (3) natura, nella duplice accezione di «natura
ambientale e umana» (p. 10). Sono presentate delle Tesi sistematiche.
Nel primo capitolo, che si può considerare il nucleo teoretico portante ma
presentato a un livello piuttosto semplice, l’Autore intende «illustrare quanto
il rinvenimento della struttura antropologica fondamentale dell’uomo
(“filialità”), con la coscienza che essa comporta, corrisponda alla rivelazione
della creaturalità in Cristo [...] e consenta di fondare un’etica della libertà-
responsabilità filiale e della fraternità» (p. 16). Presenta la dignità umana
come filialità, distinta secondo tre aspetti: 1) naturale o familiare: «rapporto
di originaria dipendenza e fiduciosa attesa nei riguardi di un’autorità buona
(maternità/paternità)» (p. 26); 2) religiosa; 3) cristiana: figliolanza in Cristo,
espressa pienamente da Cristo in Croce, che permette il sorgere
dell’autocoscienza, della coscienza degli altri e di Dio e quindi della
solidarietà fraterna. La figliolanza adottiva rende l’uomo veramente libero,
cioè umile, grato, fiducioso e responsabile. Tra le varie suggestioni, spicca il
superamento «di fatto» del dibattito tra autonomia e teonomia:
«bisognerebbe parlare di “autonomia filiale”» (p. 132). Il secondo capitolo
sostiene la centralità della fraternità nel rapporto interpersonale e sociale,
unendovi la scelta di non adottare sviluppo umano ma progresso. Si distingue
«tra la dimensione ontologica dell’essere fratelli e il sentimento o
l’atteggiamento morale che ne dovrebbe conseguire» (p. 77), rispettivamente
fratellanza e fraternità, entrambe con uno stadio naturale e uno cristiano; la
prima è trasformabile nella seconda solo grazie all’influsso della Chiesa
«come comunità in cui tali realtà sono vissute per grazia» (p. 78). «La
fratellanza cristiana si vive nella solidarietà; allorcla fratellanza universale
si manifesta nella solidarietà sociale» (p. 85). Il terzo capitolo, inteso come
completamento, giustappone le nozioni di «natura ambientale e umana» (p.
10), alternandole e distinguendole in modo non sempre chiaro, e senza
giungere a raccoglierle in una visione pienamente comprensiva; si sofferma
sulla legge naturale e il vero progresso.
Nel quarto capitolo, l’islamismo è fede islamica e atteggiamento religioso
islamico che si ergono «a verità ultima e a sistema ideologico-politico con
pretesa all’assolutezza esclusiva e al dominio universale» (p. 161),
istituzionalizzando prassi tradizionali e assolutizzando la sconfessione della
paternità divina; la Ummah è «comunità fraterna su base religiosa e
confessionale» (p. 173). Non va confuso con Islam, fenomeno storico, e
islâm, suo nucleo spirituale con elementi evangelici: il pio musulmano «non
è [...], di per sé, un nemico di Cristo» (p. 165) e la sua fraternità è un tertium
quid tra l’universale e la cristiana. L’Islam forse non sorge a caso quando il
popolo cristiano passa «dalla fede viva nel Padre” al “culto religioso della
Trinità”» (p. 176): richiama all’orien tamento al Padre, «termine ultimo del
nostro culto» (p. 177). Il quinto capitolo, dalla volenterosa denuncia
«profetica (elenchein(p. 182), presenta e valuta basilarmente il transumanismo
(termine preferito a transumanesimo), «tentativo di auto-soteria anticristica» (p. 211),
con i grandi interessi economici, militari e geopolitici e l’influsso diabolico,
la metamorfosi dei diritti umani in senso libertario e individualistico, tramite
Gregor Puppinck, e il «transumanismo sociale» (p. 195) odierno (l’uso del
termine naturalismo lascia perplessi). Si vede incombente (in modo troppo
certo) la divisione dell’umanità tra ricca élite potenziata e massa controllata
sub-umana, criticando i mezzi economici impiegati a tali fini (compresi i
viaggi «interstellari»).
La conclusione, che più che su società e Stato si sofferma sulla Chiesa,
indica uno stretto rapporto tra speranza di progresso (ora terreno e
immanente) della civiltà dell’amore e speranza escatologica, tendendo a
sovrapporli e accostando al Magistero Victor Hugo («provvidenza e
progresso sono la stessa cosa, e il progresso non è che uno dei nomi umani
del Dio eterno», p. 220); la Chiesa deve forse sostituire la «triade
transumanistica “Comte-Darwin-Nietzsche”» con «quella cattolica “Pascal-
Teilhard-Maritain”» (p. 217). Dichiara di addentrarsi in qualche modo nella
futurologia (cfr. p. 221) con i due possibili scenari, distopico ed eutopico.
La rifondazione di morale e morale sociale sulla base rispettivamente
della filialità e della fraternità si presenta come una visione suggestiva che
ambisce alla comprensività; ma si risolve non tanto in una visione unitaria e
scientificamente rigorosa della “civiltà dell’amore” e dei suoi avversari o dei
principi “intermedi” dell’edificazione della società, quanto in un saggio
inanellato di questioni particolari esemplificative collegate in modo non
sempre evidente. Non bisogna cercarvi l’analisi rigorosa di utopia, dis-topia ed
eu-topia della Cristianità, della concezione cattolica dello Stato e del suo
rapporto con la Chiesa o della teocrazia una visione teologica e filosofica
scientificamente sistematica capace di abbracciare, articolare e ordinare le
questioni di morale sociale che ne discendono senza dimenticare che,
storicamente parlando, è un errore accostare la riflessione teologica e
filosofica della Cristianità (da cui la non ricordata dottrina suareziana della
subordinazione indiretta dei due poteri) con l’impostazione islamica passata
e presente. Il saggio si risolve in un vasto affresco che colpisce per il numero
dei temi trattati, talvolta scivola nel particolarismo ed evidentemente non
ambisce a un livello strettamente scientifico, preferendone uno forse più
facile da diffondere a livello pastorale.
M. SAVARESE
M. SCANDROGLIO, Una parola dura ma feconda. Il linguaggio difficile della profezia e
la sua portata “evangelica”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, 186 pp.
Il prof. Scandroglio, docente della Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale (sezione parallela del Seminario di Milano), dichiara,
nell’introduzione al presente volume, di ispirarsi allo scritto di E. Galbiati e
A. Piazza, Pagine difficili della Bibbia, pubblicato per la prima volta nel 1951.
L’intenzione in comune con quel libro di successo (ebbe numerose edizioni e
ristampe) è quella di avvicinare i cristiani all’Antico Testamento, più
precisamente ad alcune tematiche che possono sembrare molto distanti
dalla sensibilità e dalla cultura contemporanea. Come dice il sottotitolo, si
tratta di pagine che possono avere, se correttamente comprese, una portata
“evangelica”, aiutando ad approfondire la «natura paterna di Dio nei
confronti di Israele» (p. 8).
Le tematiche sono affrontate, nei cinque capitoli che costituiscono il libro,
in riferimento a specifici passi profetici per evitare un approccio troppo
teorico, sganciato dal linguaggio biblico e dalla sua contingenza. I passi
sono scelti dal libro dei Dodici profeti (o Profeti minori), un ambito di
ricerca a cui il prof. Scandroglio ha dedicato diverse pubblicazioni (in parte
riprese in questo volume, come indicato nella n. 2 a p. 9).
Il primo capitolo affronta il tema: “L’inevitabilità della ʻfineʼ” attraverso
l’analisi delle visioni di Amos. Si inizia con una breve (ma efficace)
presentazione complessiva del ciclo delle visioni dal punto di vista storico e
letterario (manca però un inquadramento dei passi scelti nel complesso del
libro di Amos, che avrebbe aiutato il lettore). Si passa a un’accurata analisi
esegetica dei singoli brani (Am 7,1-3; 7,4-6; 7,7-9; 8,1-3; 9,1-4), svolta in
dialogo con un’ampia e aggiornata letteratura secondaria, che mette in
rilievo il progresso retorico delle visioni nel dialogo tra Dio e il profeta, la
funzione di quest’ultimo (sia come intercessore sia come testimone della
volontà divina) e il valore di appello alla conversione/pentimento che esse
hanno. La conclusione è però drammatica, essendo la fine, cioè la
distruzione del popolo, inevitabile data la perseveranza nella colpa. Ma,
come mostrano efficacemente le ultime pagine del capitolo, in cui si
riassumono i risultati dell’analisi esegetica, si tratta anzitutto della fine di
una storia di peccato. La trasmissione della predicazione di Amos nella
tradizione biblica attesta che questa fine è percepita anche come speranza di
un nuovo inizio: è questa l’intenzionalità salvifica «inscritta in ogni
pronunciamento profetico, anche in quello più duro […]. Perché alla fine, se
Dio parla, è perc cerca sempre e comunque la conversione e la
redenzione del suo popolo» (p. 32).
Con lo stesso schema il capitolo secondo tratta “La responsabilità
dell’uomo nella distruzione annunciata”, attraverso l’analisi di Mic 3,1-12. I
tre oracoli che costituiscono il c. 3 di Michea sono prima brevemente
inquadrati dal punto di vista storico e letterario. Anche qui manca un
riferimento più ampio all’intero libro di Michea che sarebbe stato utile, data
la complessità della sua composizione (soprattutto perché nella n. 39 a p. 52,
si afferma che la prima sezione di Michea è composta dai cc. 1-3,
affermazione che non sembra coerente con l’idea che i cc. 3-5 siano la
seconda parte del libro come si dice a p. 33). L’esegesi dei tre oracoli (Mic
3,1-4; 3,5-8; 3,9-12; pp. 35-54), sempre molto accurata, mette in luce come
tutte le élite di Gerusalemme siano accusate di gravi ingiustizie, con una
forza retorica che ha pochi eguali nella predicazione profetica. La
conclusione del capitolo riprende lo stretto legame, che si ha nelle parole di
Michea, fra la gravità delle colpe di capi, profeti e sacerdoti e il destino
annunciato per essi: dominati esclusivamente dal proprio interesse,
indifferenti alle esigenze altrui, essi subiranno il peso dell’indifferenza di
Dio, che non si occuperà più di loro. Essi, che riducono la presenza di Dio
in mezzo al popolo, rappresentata dal Tempio, a un talismano,
trasformando Dio in un idolo e la religione in un’ideologia al servizio del
loro potere, dovranno constatare come Dio si sottragga a tale perversione,
abbandonando il suo Tempio alla distruzione. Il linguaggio duro di Michea
ha proprio lo scopo di mettere in luce l’assurdità dei comportamenti
stigmatizzati, dando rilievo alla responsabilità umana nell’assecondare il
disegno divino sulla storia. Anche qui la distruzione annunciata è anzitutto
l’eliminazione di un sistema corrotto, per aprire lo spazio a una novità di
vita.
Nel terzo capitolo, “La lotta di Dio contro il male nella storia (Na 3,1-
19)”, la parte introduttiva è più lunga rispetto a quella dei capitoli
precedenti, a motivo della maggiore difficoltà che il linguaggio
particolarmente violento del profeta Naum suscita nel lettore odierno. Il
corretto inquadramento storico-culturale, oltre che letterario, del libro
diventa quindi importante per evitare fraintendimenti. Scandroglio mette
anche in guardia da una teologia “impoverita”, che, per esaltare la
misericordia di Dio, dimentichi la sua determinazione nel combattere il
male e l’ingiustizia. Segue l’analisi esegetica dei tre brani che costituiscono il
c. 3 del libro (Na 3,1-7; 3,8-17; 3,18-19), come sempre molto accurata e
chiara. Nella conclusione si mette in rilievo come la chiave di lettura
dell’annuncio della distruzione di Ninive sia anzitutto la scelta di mettersi
dalla parte delle vittime, di coloro che avevano subito la sua oppressione.
L’uso di toni violenti si spiega anche considerando il fatto che la guerra era
considerata all’epoca parte dell’esperienza umana (ed è sempre dalla
propria esperienza che gli uomini traggono il linguaggio per parlare di Dio),
ma ciò non implica la descrizione di un Dio vendicativo, quanto di un Dio
che tende a ristabilire la giustizia, l’equilibrio delle relazioni.
Nel quarto capitolo, “Il castigo per la conversione (Os 2,4-25)”, la parte
introduttiva è dedicata a illustrare il valore e i limiti dell’uso della metafora
matrimoniale in Osea: l’agire di Yhwh «non corrisponde in toto a quello di
un marito tradito, perché qui l’obiettivo è […] non rivalersi per sanare
l’onta dell’infedeltà subita, bensì recuperare la relazione attraverso la
conversione del partner infedele» (p. 87). L’esegesi che segue divide il brano
in due parti: 2,4-17 e 2,18-25, per le quali si ipotizzano anche due datazioni
diverse; non c’è un’esplicita giustificazione di tale suddivisione, che non è da
tutti condivisa (p. es., G. Benzi, Osea. Introduzione, traduzione e commento, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2018, 44 e 51, divide in 2,4-15 e 2,16-25).
L’esegesi è sempre molto precisa e documentata; soltanto qui, nel libro, ci
sono passaggi in cui ritengo, però, che l’interpretazione sia discutibile. Uno
riguarda l’immagine del «deserto», al v. 16, per il quale si offre una visione
positiva, come fanno molti commentatori, quale luogo del nuovo
fidanzamento (pp. 104-105). Ma il nuovo inizio (rappresentato in Osea dal
fidanzamento) viene spesso nei testi profetici dopo una “fine”, che qui
potrebbe ben essere simboleggiata dal deserto, come segno negativo del
fatto che Israele ha perso tutto, compresa la terra in cui abitava. Condurre
nel deserto sarebbe quindi la forma ultima del castigo, o meglio, della
strategia di privazione dei doni del marito/Yhwh, per indurre la
sposa/Israele a riconoscere i propri torti. Secondo, sebbene sia certamente
vero che per il nuovo fidanzamento l’iniziativa sia esclusivamente divina,
«un incondizionato atto di grazia da parte di Yhw(p. 110), non si può
concordare con l’idea che non ci sia «alcuna richiesta corrispondente di
fedeltà, rivolta a Israele», come si afferma nella n. 83, citando
Brueggemann: l’obbligo di fedeltà è evidente nell’uso del verbo שׂרא
«fidanzare», che, come osserva lo stesso Scandroglio (p. 111), ha valore
giuridico. La conclusione del capitolo riflette sull’idea di castigo che emerge
dal passo: non si può che concordare con l’autore nell’insistere sulla valenza
pedagogica e non retributiva di esso nella prospettiva profetica. Lo scopo è
portare alla coscienza della colpa, in modo da poter offrire un vero perdono
e ristabilire la relazione, come fa Yhwh/sposo.
Nel quinto capitolo, “Il giorno di Yhwh, culmine e paradigma del castigo
(Sof 1,2-2,3)”, si inizia con una breve spiegazione delle caratteristiche del
«Giorno di Yhwh» e un inquadramento storico letterario del libro di
Sofonia. Si discute se in tale libro il Giorno di Yhwh abbia carattere storico
o escatologico: Scandroglio ritiene che l’alternativa sia mal posta,
considerando la possibilità di almeno tre fasi di composizione del libro (una
al tempo di Giosia, una esilica e una ancora successiva). In questo sviluppo,
alla concezione storica del Giorno, riconoscibile nella prima fase
compositiva, si sarebbe poi aggiunta una concezione più marcatamente
escatologica-universale. L’analisi esegetica approfondisce i seguenti passi:
Sof 1,2-6; 1,7-13; 1,14-18; 2,1-3. Ciò che emerge, e che viene ripreso nella
conclusione del capitolo, è che il tema del Giorno di Yhwh è anzitutto un
richiamo alla sua decisione di mettersi dalla parte dei poveri e delle vittime
nella storia umana. Il profeta contesta l’idea che Yhwh non faccia «né bene
male» (Sof 1,12), sia indifferente o ininfluente nelle vicende terrene, per
ribadire invece la sua decisione di intervenire per contrastare e annullare il
male. Da qui l’invito ai potenti di smettere di confidare nel loro potere e
nelle loro ricchezze e l’appello ai poveri perché perseverino nella loro ricerca
del Signore. Così potranno sperimentare il Giorno di Yhwh, come evento di
salvezza, senza negare che esso abbia una dimensione distruttiva universale
contro ogni forma di male e di peccato.
La breve conclusione finale riassume quattro punti che dovrebbero
guidare nella lettura di pagine profetiche difficili. 1) Considerare le
peculiarità del linguaggio simbolico antico usato dai profeti di Israele,
lontano dalla sensibilità odierna; ogni linguaggio umano, in ha risorse
limitate, ma proprio in questi limiti sta la possibilità di comunicare. 2) I passi
profetici non sono trattati teologici completi, non rispondono a tutte le
domande, ma soltanto a questioni specifiche. 3) I destinatari delle parole
profetiche sono spesso persone che sperimentano situazioni difficili, di
sofferenza e oppressione; sono vittime che hanno bisogno di una parola di
consolazione e speranza. 4) Resta il compito ineludibile, per l’esegeta
cristiano, di raccordare il messaggio dei brani profetici con il mistero di
Gesù Cristo.
Certamente il prof. Scandroglio ha ben esemplificato nel suo libro
l’attenzione a questi punti, con un percorso chiaro ed efficace e una scrittura
piacevole. Molto utili anche la Bibliografia finale e gli Indici (degli autori,
delle citazioni, generale). Nel complesso il volume, pur basandosi su
un’accurata analisi del testo ebraico dei libri profetici, si indirizza a un
pubblico più ampio rispetto a quello degli specialisti. Studenti di teologia o
Scienze religiose e cultori della Scrittura possono trovare ampie occasioni di
riflessione e formazione in queste pagine.
F. SERAFINI
LIBRI RICEVUTI
N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS J. SEDANO, Derecho canónico en perspectiva histórica: fuentes, ciencia e
instituciones, Eunsa (Manuales del Instituto Martín de Azpilcueta), Pamplona 2022.
G. BERNAGOZZI, Lo Spirito e la Chiesa. Una lettura pneumatologico-ecclesiologica a partire dalle preghiere
eucaristiche, CLV, Roma 2023.
C. BETSCHART, L’umano, immagine filiale di Dio. Un’antropologia teologica in dialogo con l’esegesi, Queriniana,
Brescia 2022.
B. BLANKENHORN, Pane dal Cielo. Introduzione alla teologia eucaristica, («Teologia Ecclesiale», 7/3), Fede &
Cultura, Verona 2023.
S. CAVALLI, C. CAVALLINI (a cura di), Educare alla diversità. Uno sguardo all’Europa, Ise San Bernardino,
Venezia 2023 («Quaderni di Studi Ecumenici», 47).
S. FONTANA, La Dottrina politica cattolica. Il quadro completo passo dopo passo, Fede&Cultura, Verona 2023.
M. PESCARELLA, Teologia della Chiesa locale. Dal Vaticano II alla sfida della sinodalità, Cittadella Editrice,
Città di Castello 2024.
C.L. ROSSETTI, Dignità e fraternità. L’eutopia cattolica tra islamismo e transumanesimo, Cantagalli-Chirico,
Siena-Napoli 2023.
M. SCANDROGLIO, Una parola dura ma feconda. Il linguaggio difficile della profezia e la sua portata “evangelica”,
San Paolo, Cinisello Balsamo 2023.
Table of Contents
1. In memoriam Prof. Don Antonio Aranda
2. STUDI
1. Massimo del Pozzo: I MISSIONARI DELLA MISERICORDIA
1. I. Un richiamo rappresentativo ed esemplare nel “tempo
della misericordia”
2. II. L’individuazione e l’abilitazione dei Missionari della
Misericordia
3. III. La missione specifica
4. IV. Il supporto istituzionale
5. V. Una simbiosi di carisma e ministero
6. VI. La crescita estensiva e intensiva dei Missionari della
Misericordia
2. Bohdan Bychko: LA FEDE COME RISPOSTA AL PROBLEMA
DEL MALE SECONDO F. DOSTOEVSKIJ
1. I. Introduzione
2. II. La presenza della sofferenza e del male nel mondo
secondo Dostoevskij
3. III. L’idiota come figura messianica
4. IV. La fede in Gesù Cristo come risposta al problema del
male e della sofferenza
5. V. Conclusione
3. NOTE
1. Antonio Aranda: «SER OPUS DEI PARA HACER EL OPUS
DEI»
1. I. Introducción: un lema habitual del fundador del Opus Dei
2. II. «Ser Opus Dei»
3. III. El Opus Dei ha sido suscitado por Dios con unas
características propias
4. IV. Poner a Cristo en la cumbre de las actividades humanas
5. V. Santificar el trabajo ordinario, santificarse en esa tarea y
santificar a los demás con el ejercicio de la propia
profesión20
6. VI. Esencial secularidad y especial perspectiva cristocéntrica
7. VII. Formación específica
2. Fabio Ciardi: CARISMI IN RELAZIONE: IDENTITÀ E
CONDIVISIONE
1. I. Carismi personali in relazione all’interno del medesimo
carisma
2. II. Carismi in relazione all’interno della Famiglia carismatica
3. III. Carismi in relazione tra di loro
4. IV. Carismi in relazione con le diverse vocazioni ecclesiali
5. V. Carismi in relazione con il mondo
6. VI. Un metodo per la comunione
3. Fernando Puig : RADICI ED ESPANSIONE DELLA
“CONSACRAZIONE” NELLA RECENTE TEOLOGIA DELLA
VITA CONSACRATA1
1. I. La consacrazione alla radice della comprensione della vita
consacrata nel Concilio Vaticano II e nella sua ricezione
2. II. L’espansione della nozione di consacrazione
3. III. Bilanciamento e necessità di un livello ecclesiale e
teologico per pensare e vivere ogni forma di vita cristiana,
quindi anche la vita di consacrazione
4. IV. Conclusione e proposta: le istanze di una tradizione della
vita religiosa
4. Gonzalo de la Morena: THE JEWISH ROOTS OF DIVINE
CHRISTOLOGY: THE DIVINE WORD BEFORE JESUS
1. I. Introduction
2. II. Perspectives on the Jewish Roots of the Divinity of Jesus
3. III. The Jewish Divine Word
4. IV. NT Continuity and Discontinuity with the Jewish Word
5. V. Conclusion
5. Claudio Tagliapietra, Giovanni Zaccaria, José Luis Gutiérrez:
COSMO, EUCARISTIA E ATTIVITÀ UMANA
1. I. Introduzione
2. II. La “Messa” di Teilhard: genesi di un’esperienza spirituale
prolungata e la sua eco nell’insegnamento dei pontefici
3. III. Verso una comprensione dell’esercizio del sacerdozio
comune a partire dalla celebrazione eucaristica
4. IV. Tra sacro e profano: l’Eucaristia e il senso della presenza
sacramentale di Dio nel mondo e nella storia umana
6. Roberto Di Ceglie: FEDE, RAGIONE E CARITÀ. UNA
PROSPETTIVA TOMMASIANA
1. I. Introduzione
2. II. L’assenza di considerazione della carità quale causa dei
problemi che affliggono le interpretazioni di Tommaso
3. III. La visione tommasiana della fede, della carità, e della
volontà di credere
4. IV. Carità e promozione della ragione nel pensiero di
Tommaso
7. Jaime Rodríguez Díaz: GÉNESIS, DESARROLLO Y
RELEVANCIA DE LA «UNIDAD DE LOS DOS»
1. I. De la ontología a la antropología trinitaria
2. II. Génesis de la noción «unidad de los dos» en el itinerario
intelectual de Karol Wojtyla
3. III. Desarrollo de la noción en el Pontificado
4. IV. Relevancia de la «unidad de los dos» para la antropología
4. STATUS
1. José María Martínez Ortega, Francisco Insa: LA PATERNIDAD
ESPIRITUAL DEL SACERDOTE EN LA TRADICIÓN DE LA
IGLESIA
1. I. Introducción
2. II. Patrología prenicena
3. III. Patrología postnicena oriental
4. IV. Patrología postnicena occidental
5. V. Tradición medieval
6. VI. Desde el Concilio de Trento al Concilio Vaticano II
7. VII. Concilio Vaticano II
8. VIII. Magisterio posconciliar
9. IX. Estudios contemporáneos
10. X. Síntesis conclusiva
2. RECENSIONI
3. LIBRI RICEVUTI